Usa, il debito pubblico cresce ormai al ritmo di 100 miliardi di dollari al mese
Il debito americano è più alto di quello europeo e viaggia tra il 103 e addirittura il 160% del Pil diventando chiaramente insostenibile - Ma a differenza dell'Europa gli Usa hanno alle spalle una storia, una politica e un'archiettura istituzionale che permettono loro di gestire una situazione da incubo - Per Obama arriva però il momento della verità.
Nei giorni scorsi Washington ha confermato che il deficit dei conti federali nell’anno fiscale 2012 supererà i 1200 miliardi di dollari. Si tratta quindi di una media di 100 miliardi al mese di nuovo debito, un ritmo più che doppio rispetto a quello registrato negli 8 anni di un campione del debito come George W. Bush.
E’ un richiamo alla realtà: la stabilità internazionale è minacciata da due situazioni instabili, quella europea oggi al centro della scena e resa più grave dalle complicazioni dell’euro, e quella degli Stati Uniti, che hanno un debito gigantesco già nei conti ufficiali, e ben più alto se si conteggiano anche le partite occulte, che la contabilità europea in genere contempla.
Il problema dell’Europa è quello di una netta discrasia tra la realtà dei conti nazionali non consolidati, ove ciascuna nazione comprensibilmente è responsabile dei propri debiti, e una moneta comune. Se il debito Uem fosse consolidato, trattato cioè come un debito unico, sarebbe pari a l’88% circa del pil dell’area euro. Quello americano ufficiale è del 103% del Pil americano. Se si aggiunge il debito degli enti locali, contabilizzato secondo le regole di Maastricht in Europa ma non in America, e quello derivante dal salvataggio del gigantesco settore della finanza immobiliare pubblica che Washington ora garantisce, si arriva a non meno del 140% anche nel più benevolo dei conteggi. Se si calcola rigidamente conteggiando tutto il garantibile e garantito, al 160% circa.
Il debito di stati ed enti locali arriva a circa 3mila miliardi. Fannie e Freddie, le megafinanziarie immobiliari di fatto nazionalizzate nel settembre 2008, non sono mai formalmente entrate nella contabilità nazionale perché, come l’allora ministro del Tesoro Henry Paulson, avrebbero fatto saltare i conti. Non tutto il loro debito – obbligazioni per circa 1700 miliardi – e i titoli immobiliari venduti da Fannie e Freddie che ne garantiscono rendimento e capitale va contabilizzato, perché comunque c’è dietro un terzo abbondante circa del patrimonio abitativo degli Stati Uniti. Che vale però assai meno però dei valori di libro. E quella differenza, che nessuno può indicare oggi con precisione ma è rilevante e va aggiunta al debito obbligazionario, è Washington che deve garantirla.
Nei giorni scorsi l’economista Allan Meltzer, massimo esperto e storico della Federal Reserve, osservava come la banca centrale americana abbia a libro titoli di Fannie e Freddie per mille miliardi, che in teoria dovrebbe al momento opportuno rimettere sul mercato. Ma è, dice Meltzer, un “incubo politico” perché con questo mercato immobiliare ogni collocamento è impossibile. Washington non mette questa garanzia a bilancio, perché altrimenti ogni rating salterebbe anche per le benevole, con gli Stati Uniti, Standard&Poor’s e Moody’s.
La differenza tra Europa e Stati Uniti è essenzialmente di tipo storico. L’Europa colta dalla crisi all’inizio della sua costruzione monetaria, con un assetto istituzionale del tutto inadeguato a reggere la moneta unica. Gli Stati Uniti forti di una solida costruzione nazionale e con alle spalle un secolo di storia da moneta universale per il dollaro. Quindi con assai più credito sui mercati.
Contabilmente non è l’Europa l’area con gli squilibri maggiori. Storia e politica però fanno premio, a conferma del fatto che la moneta è una realtà complessa su cui contano tradizione, credibilità diplomatica e militare, e molto altro ancora, che non sempre l’Europa oggi può garantire. Lo sforzo europeo per tamponare queste falle è grande e, dovesse solo in parte riuscire, sarebbe un successo di proporzioni difficilmente sottovalutabili. Dovesse fallire, ce ne accorgeremmo amaramente.
Per gli Stati Uniti non esistono architetture istituzionali da completare e costruire, esiste solo la volontà politica di affrontare la realtà delle cifre. Finora non c’è stata. Subito dopo il voto del 6 nov embre vincitori e vinti dovranno decidere che cosa fare perché con il 1° gennaio scadono i tagli fiscali di Gorge W. Bush e vari altri meccanismi di sostegno ai redditi per un totale di 600 miliardi su base annua. Se 600 miliardi vengono tolti all’economia se ne va il 3% abbondante del Pil e questo sarebbe insostenibile per un’economia già sull’orlo della recessione. Se però i 600 miliardi vengono lasciati all’economia e non riportati nelle casse federali significa procedere con deficit insostenibili ancora fin dove può spingersi lo sguardo. E l’America non può più fare, a lungo, nuovo debito per 100 miliardi al mese