su cisco incombono le stock options (1 Viewer)

abele

Nuovo forumer
cisco

Se fossero contabilizzate, gli utili netti del n.1 delle infrastrutture andrebbero rivisti al ribasso dell'80%.

qui i danni arrecati al bilancio dalle stock options sarebbero terrificanti: le aziende aggiravano il tutto usnaod meccanismi poco limpidi di contabilizzazione

buffett sostenava che solo gates le metteva tra gli ammortamenti, l'unico comportamento serio

il resto è da brividi

eds
Clamoroso: invece di profitti previsti in 74 cent, la societa' guadagna appena tra i 12 e i 15 centesimi

alla faccia delle stime sbagliate: a forza di gonfiare le previsioni devoo aver perso la bussola

c'era una intervista ieri ad un ex andersen, non ricordo il nome, un personaggio importante che c'era restato 17 anni: la progressiva deregulation, l'assenza di standard , di controlli, la conflittualità tra i ruoli di revisore, consulente, socio d'affari ...disegnava un quadro molto fosco
 

fo64

Forumer storico
abele ha scritto:
...
c'era una intervista ieri ad un ex andersen, non ricordo il nome, un personaggio importante che c'era restato 17 anni: la progressiva deregulation, l'assenza di standard , di controlli, la conflittualità tra i ruoli di revisore, consulente, socio d'affari ...disegnava un quadro molto fosco
...

Penso che ti riferisci a questo articolo di Marco Vitale, apparso ieri sul Corriere della Sera (oggi dovrebbe essere pubblicata la seconda parte).
Articolo lungo, ma davvero interessante.
Un saluto a tutti

Fo64

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AMERICA PUNTO E A CAPO

di Vitale Marco

La crisi del capitalismo americano è una crisi di sistema? E quali lezioni possono venire all' Europa e all' Italia dalle vicende culminate nel collasso di grandi nomi della finanza Usa come Enron, Andersen e WorldCom? Partendo dalle riflessioni di Sergio Romano pubblicate in luglio e in agosto dal Corriere della Sera, l' economista Marco Vitale, che della Arthur Andersen è stato partner per molti anni, ha scritto questa lettera sul capitalismo che, in una versione ampliata, sarà pubblicata il mese prossimo dall' editore Scheiwiller.

Gli articoli di Sergio Romano comparsi sul Corriere della Sera in luglio e in agosto, soprattutto quello di martedì 16 luglio dal titolo «Il capitalismo giù di morale», sono un ottimo stimolo per ragionare sull e lezioni che si possono trarre dagli scandali finanziari americani. In estrema, ma spero, corretta sintesi, Sergio Romano afferma: l' insieme di questi scandali è molto grave per un Paese che ci aveva convinto di a vere le migliori leggi e le migliori prassi del mondo; ma attenzione a non trarre giudizi negativi frettolosi, senza tenere conto che questi scandali dell' America sono, almeno in parte, «una conseguenza del suo dinamismo»: «le bugie, gli inganni e l' ingordigia» di molti dirigenti sono un attentato alla fiducia, chiave di volta di ogni economia capitalista, e vanno sanzionati: ma sono anche la conseguenza di una coraggiosa e frenetica «corsa alla modernità».
Inoltre, afferma Romano, bisogna tener conto che l' America ha dimostrato ancora una volta una straordinaria capacità di reazione. La stampa ha indagato e i risparmiatori, i politici e gli altri responsabili si sono organizzati per reagire e correggere la rotta. Ciò che maggiormente colpisce alla fine della giornata - afferma Romano - è la prontezza con cui l' America si è messa immediatamente al lavoro. I mezzi d' informazione hanno avuto nella vicenda un ruolo decisivo.
Le due lezioni da trarre sarebbero le seguenti. Prima lezione: il dinamismo, la corsa alla modernità, «inventa trasgressioni e deviazioni che nessuna legge aveva previsto». Seconda lezione: «In ultima analisi l' America non sarà giudicata dai suoi scandali, ma dalla fermezza e dalla rapidità con cui avrà saputo affrontarli».
Le tesi di Romano, pur contenendo elementi di verità, non sono totalmente convincenti. L' unica affermazione che condivido senza riserve è che i mezzi d' informazione hanno avuto nella vicenda un ruolo decisivo, come sempre in America.
Per facilitare la comprension e del mio punto di vista è necessario che illustri le sue basi. Per 17 anni dai 27 ai 44 anni, gli anni centrali della mia formazione professionale, ho operato all' interno del mondo societario e professionale americano. A 32 anni sono diventato uno dei più giovani partner della Arthur Andersen mondiale e dai 32 ai 44 anni ho svolto questo ruolo. Dunque parlo di un mondo che conosco profondamente dall' interno.
Quando a 44 anni lasciai la Arthur Andersen continuai a conservare legami profondi con quel mondo. Per molti anni sono rimasto consulente strategico della Arthur Andersen Italia e amico personale di molti dei suoi soci. A questa conoscenza, e a quella della conoscenza e frequentazione delle corporation americane e del loro management , si è aggiunta poi quella delle investment bank americane che ho visto, da vicino, nella fase ascendente e ora nella fase della crisi e del totale asservimento alle deliranti avidità dei ceo (chief executive officer, l' amministratore delegato, ndr) .
Ho quindi osservato da vicino il continuo deterioramento morale e operativo di quel mondo che mi aveva affascinato nella prima maturità. Il capitalismo americano aveva avuto periodi di grande violenza a cavallo tra l' 800 e il ' 900 e poi di allegr a e irresponsabile baldoria negli anni ' 20. Ma il grande riformismo di Teddy Roosevelt dei primi anni del ' 900 contro the malefactors of great wealth, poi la grande crisi del ' 29 e il grande riformismo del New Deal di Franklin D. Roosevelt degli a nni ' 30 lo avevano posto su una base di serietà, moralità, efficienza assai elevate. Poi venne la guerra, nel corso della quale il neocapitalismo americano (basato su un vero e proprio patto implicito tra Franklin D. Roosevelt e il management progre ssista) diede grande prova di sé e al termine della quale emerse una nuova classe di giovani manager, efficienti, idealisti e onesti che si erano fatti le ossa nella logistica di guerra. Toccò a loro consolidare le regole del riformismo americano deg li anni ' 30, svilupparle e fare, negli anni ' 50 e ' 60, del mondo imprenditoriale e del mercato finanziario americano, e delle sue istituzioni, un modello mondiale.
Chi non l' ha conosciuta dall' interno, non può immaginare quale straordinaria orga nizzazione fosse, ad esempio, la Arthur Andersen degli anni ' 50, ' 60, ' 70. Un' organizzazione dove l' integrità era la vera sostanza e specializzazione professionale, l' indipendenza intellettuale una bandiera, la trasparenza esterna e interna a tutti i livelli un inderogabile credo, il rigore morale assoluto e difeso con grande attenzione.
Ricordo che un giorno tutti i soci e i manager di tutti gli uffici del mondo ricevettero l' ordine di vendere, entro 48 ore, qualunque partecipazione di portafoglio avessero in qualunque società di qualunque nazionalità che avesse a che fare con le produzioni e i servizi della difesa. Questo perché l' ufficio di Washington si apprestava a presentare al ministero della Difesa l' offerta per un lavoro importante.
L' indipendenza - mi insegnarono allora - non è solo questione di sostanza ma anche di forma: non è sufficiente essere indipendenti da un punto di vista sostanziale; è necessario anche apparire tali. È un episodio che mi è rimasto in mente per la sua esagerazione. Ma allora mi parve normale, dovuto, parte integrante di quel rigore che ci affascinava e che amavamo. Ma la Arthur Andersen di allora era anche un monumento di competenza, di capacità organizzativa, di capacità di selezionar e, formare, motivare giovani di talento. Era un monumento di saggezza manageriale, di efficienza ed efficacia, di capacità di coniugare un alto rigore morale con buoni risultati economici per sé e per i propri associati. E, d' altra parte, la Sec (Securities and exchange commission, la Consob americana, ndr) sin dagli anni ' 30 aveva impostato il nostro ruolo con grande chiarezza: anche se pagati dalle società, i revisori devono considerare il pubblico come il loro vero mandante.
Noi dunque eravamo privati professionisti, che però agivano in the public interest. Per questo e non solo per la nostra competenza tecnica eravamo rispettati. Ora, dopo quasi cento anni (la Arthur Andersen è stata fondata nel ' 13) tutto questo accumulo di conoscen ze, di moralità, di impegno si è dissolto come neve al sole o, se volete, si è sgretolato con la stessa facilità del muro di Berlino.
Posso credere che ciò sia dovuto al fatto che l' America è diventata più audace? Penso proprio di no. Così come non posso condividere la tesi che i miei amici, soci della Andersen, al momento del crollo, continuano a sostenere.
La Andersen è crollata, dicono, per presunta ostruzione alla giustizia, accertata da una giuria emotivamente e politicamente influenzata, presunta ostruzione che, se provata, sarebbe imputabile esclusivamente al socio di Houston responsabile del bilancio Enron. La presunta violazione dei corretti principi contabili non è ancor oggi provata e si riferisce a prassi contabili, magari disc utibili, ma condivise da tutto il mondo della revisione e accettate dalla Sec.
Dunque la Andersen sarebbe crollata per la responsabilità di una sola persona. Posso crederlo? Non posso. Sono convinto che la grande parte dei partner e dei manager della Andersen fossero individualmente, ancora oggi, persone di esemplare integrità. E anzi per l' Italia sono certo che tutti e nessuno escluso fossero persone e professionisti esemplari, sicuramente i migliori. Ma la loro organizzazione era diventata nel tempo, a poco a poco, intrinsecamente immorale o meglio «amorale». Ed è questa la causa vera del loro improvviso, sorprendente e dolorosissimo crollo, causa della quale non riescono a rendersi conto.
Mi sono soffermato su questa vicenda che conosco meglio, perché è utile anche per comprendere, più in generale, l' involuzione del management e del mercato finanziario americano. Che cosa intendo con l' espressione «amorale»? Gradualmente, ma con continuità, l' Andersen, come parte di una involuzione generale della professione degli esperti contabili, aveva abdicato al suo compito istituzionale fondamentale che era quello di essere al servizio del pubblico per appiattirsi su una revisione fatta di puro rispetto formale di regole, il cosiddetto compliance audit, contro il quale Arthur Andersen aveva messo in guardia fin da un memorabile intervento all' assemblea dei soci il 27 ottobre 1936. Le regole, nonostante i moniti, sono andate continuamente peggiorando, cioè rese sempre più flessib ili, tolleranti, ambigue, fraudolente, secondo la volontà e la pressione del top management delle grandi società. Ma la Andersen, sin dagli anni ' 30, era stata sempre all' avanguardia nella difesa e nello sviluppo di principi contabili corretti.
Ma negli ultimi vent' anni questa tensione si è spenta, gli affari sono affari e se il management voleva dei principi contabili più compiacenti li avrebbe avuti. La professione, e con lei la Andersen, ha perso gradualmente la capacità di autoregolarsi, di porsi al servizio del pubblico anche opponendosi ai poteri forti, anche perdendo dei clienti.
Nei decenni passati l' Arthur Andersen ebbe la forza di perdere come clienti interi settori, pur di non abdicare a quelli che essa riteneva corretti principi contabili. Così si arriva a quei meccanismi che hanno permesso alla Enron di registrare fuori bilancio ingenti passività, cosa che ha facilitato l' occultamento delle sue difficoltà finanziarie (i cosiddetti Monthly income preferred shares or Mips). I Mips non sono «formalmente» una frode contabile. Sono un flexible financial instrument inventato da Goldman Sachs & Co. nel 1993, ben conosciuto, ben diffuso (i pionieri furono Enron e Texaco), accettato dall' intera professione contabile.
Nel corso di quella che è stata chiamata la Mips saga (The Wall Street Journal, lunedì 4 febbraio 2002), la direzione del ministero del Tesoro, che si vedeva defraudata da questo strumento sotto un profilo fiscale, cercò ripetutamente ma invano di ferma rne la diffusione: «La saga dei Mips mostra come degli interessi ben muniti finanziariamente, sostenuti da un' armata di lobbisti con buone entrature, e con massicci contributi pagati ad entrambi i partiti, riuscirono a far fallire i tentativi del Tesoro di imporre regole contabili corrette».
È molto interessante seguire sulla citata ricostruzione del Wall Street Journal la furiosa battaglia che si combatté intorno a questo strumento sino alla definitiva sconfitta del ministero del Tesoro e del presidente. Clinton tentò un intervento legislativo che fu furiosamente respinto, salvo essere ripresentato sostanzialmente negli stessi termini dal parlamentare democratico Charles Raugel di New York, il 24 gennaio 2002, dopo che i buoi erano scappati.
Lynn Turner, direttore contabile della Sec dal 1998 al 2001 ha commentato che la saga dei Mips è un buon esempio della contabilità aggressiva che è cresciuta continuamente nel corso degli anni ' 90 mentre gli enti regolatori erano latitanti. «Il risultato è che abbiamo dei bilanci che ottengono dei ratings creditori molto più elevati di quelli che meritano e società che sembrano molto più liquide di quello che sono in realtà...».
Hanno ragione gli amici dell' Arthur Andersen a dire che l' uso dei Mips era prassi accettata da tutti. Ma l' Arthur Andersen degli anni ' 30-70 non avrebbe mai accettato di avallare un tale indegno trucco, anche se la professione lo avesse avallato.
Così la Andersen ha perduto la capacità di capire la reale si tuazione della Enron, pur avendo sollevato dei warning sulla pericolosità delle prassi contabili della stessa e di vedere la montante crisi di tante altre società, ed è così mancata di fronte al suo compito fondamentale, che non era quello di assicurare il più o meno corretto rispetto di regole discutibili (compliance audit) ma di esprimere un giudizio di fondo sulla salute della Enron e delle altre società.
È per questo che la Andersen, divenuta un gigante dai piedi d' argilla, è franata su se stessa con tanta facilità.
Lo stesso vale, ancora di più, per WorldCom. Durante il 2001 ed il primo trimestre del 2002 la direzione di WorldCom ha capitalizzato spese correnti per 3,8 miliardi di dollari. Non si tratta di nuove sfide e di nuove regole. Non si tratta di una frenetica «corsa alla modernità».
Si tratta di violazione plateale per scopi truffaldini di regole antiche e facile da scoprire.
«Se c' è una regola aurea da trarre dal fallimento WordlCom è che questo tipo di frodi contabili sono molto facili da scoprire». È solo necessario che ci sia un esperto contabile che voglia vederle» (Business Week, 8 luglio 2002).
Ma questi casi eclatanti e dolorosi sono solo la punta dell' iceberg di un fenomeno ben più ampio: sono almeno 1.000 le società americane che hanno dovuto, dal 1997, ripresentare i loro conti modificati, per evitare di essere accusate di frode (anche se molte di queste rettifiche non sono di particolare rilievo).
Questa involuzione della professione contabile americana era percepibile, secondo Joseph Stiglitz (Premio Nobel 2001 per l' Economia), da dieci anni. Personalmente vedo in atto questa involuzione, e tante volte ho lanciato l' allarme agli ex colleghi ed amici dell' Andersen, da almeno vent' anni.
Mi sono soffermato sulla vicenda Andersen perché quella di bilanci più attendibili ed affidabili resta la sfida più importante.
Se questa base non è a posto niente può essere a posto.
Il mercato non è altro che una sottile e diffusa rete di comunicazione, ha detto Von Hayek. Ma se nella rete si mettono informazioni fasulle la rete (il mercato) trasmette informazioni fasulle sino alla fine ed in tutte le sue diramazioni. Il tentativo di scostarsi da questo principio fondamentale, come è stato fatto con le aziende della new economy, ha aperto le porte a quella che è stata probabilmente la truffa finanziaria più grande della storia umana.
Ma accanto agli accountants molti altri sono i responsabili di questa débâcle. In primo luogo le grandi investment banks che, grazie ed a causa della forte deregolamentazione che ha permesso a tutti di fare tutto, sono diventate un inestricabile nodo di conflitti di interesse.
Ai top manager, molti dei quali hanno cancellato dalla lavagna qualunque principio etico e di comportamento corretto.
Agli avvocati che si sono sempre posti al servizio di qualunque illegalità sostanziale, purché formalmente celata dietro schemi apparentemente legali.
Agli organi di sorveglianza, come la Sec, sempre più burocraticamente formale e sempre più sostanzialmente disattenta.
Alle società di rating che intervengono sempre quando i buoi sono scappati.
Il fenomeno è troppo grande e diffuso per risolverlo in termini semplicistici o retorici. Questa non è l' America che corre in avanti. Questa è l' America che corre all' indietro, verso gli anni ' 20.
Perché? Che cosa è successo? Vi deve essere qualche ragione profonda e di carattere generale. Ci vorranno del tempo e studi approfonditi per dare una risposta seria a queste domande.
Qualche elemento può essere però individuato fin d' ora. La prima spiegazione è la caduta continua della credenza in standard etici oggettivi, propri di ogni professione.
Gradualmente la crescita continua del mercato, la dominanza de lla convinzione che ciò che vince sul campo del mercato (ciò che garantisce più crescita e più reddito) è l' unico metro di misura valido, ha preso possesso, in ogni settore, delle menti, del giudizio, dei comportamenti.
I primi segnali di questa ten denza io li ho osservati all' opera proprio in Arthur Andersen sin agli ultimi anni ' 70. Pian piano era diventata dominante l' ossessione per la crescita fine a se stessa. Da questa spinta è scaturita la tendenza ad allargare sempre più l' area della consulenza sino a comprendere attività del tutto estranee alle radici ed alla cultura professionale di base, senza voler vedere che questo dava vita ad una specie di conglomerata di attività diverse senza più neanche la possibilità di un bagaglio d i convinzioni e principi comuni, di standard etici unitari.
Così, in mancanza di standard comuni, il nuovo standard unificante che poteva tenere tutti uniti divenne l' utile per quota: un obiettivo corretto ed importante ma, in passato, subordinato o d almeno coordinato con altri obiettivi.
Questo processo è stato generale, come ha bene illustrato Michaels Prowse sul Financial Times del 13-14 luglio 2002. «Noi viviamo in un' epoca che potremmo chiamare "post-ethical". La gente continua ad utilizzare il linguaggio morale, ma ha, da tempo, cessato di credere che la morale possa avere un fondamento oggettivo. Essi sono diventati "emotivist": cioé trattano, in misura crescente, i giudizi morali come espressione di aggregazione e disapprovazione personale... Il problema di fondo è la perdita della credenza in standard etici oggettivi. E la crescente dominanza del mercato ha contribuito a questo collasso morale».
Se questa visione è corretta, ed io credo che lo sia, la visione panglossiana di chi pensa che basterà mettere a posto alcune regoline e poi tutto potrà ricominciare come prima è profondamente sbagliata.
La caduta del rispetto dei principi etici standard di ogni professione vuol dire la caduta delle capacità di autoregolamentazi one del mercato e delle professioni, che è stato sino ad ora uno dei cardini del mondo americano.
E poiché non sono certo le invocazioni moralistiche che possono ripristinare la situazione, ciò vuol dire che il mondo finanziario americano va sottoposto ad un nuovo sistema di rigorosa regolamentazione.
La creative distruction shumpeteriana può essere troppo costosa per una nazione, quando il 50% delle famiglie hanno investito sui valori mobiliari e quando il grosso delle pensioni è toccato dalle variazioni di questi valori (80 milioni di famiglie americane hanno le pensioni indicizzate al Dow Jones).
E ciò soprattutto quando i principali interpreti della creative distruction sono semplicemente dei ladri e dei palloni gonfiati.
Del resto ques ta conclusione mi sembra implicita anche nelle considerazioni di Alan Greespan, il governatore della Fed, quando, in una recente audizione al Senato, ha ammesso di avere sbagliato quando era convinto che il mercato avrebbe curato il male da solo.
(1- continua)
 

fo64

Forumer storico
fo64 ha scritto:
Penso che ti riferisci a questo articolo di Marco Vitale, apparso ieri sul Corriere della Sera (oggi dovrebbe essere pubblicata la seconda parte).

Questa è la seconda parte dell'articolo di Marco Vitale pubblicata oggi dal Corriere della Sera.

Fo64

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Anatomia di uno scandalo
L’aristocrazia senza morale dei supermanager pigliatutto

La lezione del crac Enron? Mettere un tetto all’abuso indecente delle stock option


Tra le principali cause di degenerazione del modello americano c’è anche lo squilibrio politico-sociale a favore del top management delle grandi società che si è man mano prodotto negli ultimi vent’anni e che ha permesso a questa «nuova aristocrazia» di appropriarsi di corrispettivi che non hanno più alcuna relazione di nessun tipo con le prestazioni fornite, con i risultati raggiunti, con il loro tipo di attività, con l’andamento reale delle aziende.
Questi valori non rappresentano più un corrispettivo per dei servizi professionali, ma un’appropriazione basata su una incontrollata posizione di potere.
In una relazione del 1998 affermavo: «Nel frattempo nella grande impresa è avvenuta, negli ultimi vent’anni, una nuova grande rivoluzione. Spariti i robber baron , spariti i tycoon , spariti i grandi imprenditori alla Henry Ford, spariti i grandi manager alla Watson, se non per pochi casi che fanno più folklore che sistema, il potere di questo settore determinante della vita economica è stato, lentamente ma tenacemente, scalato da una nuova classe, fatta per lo più di volti anonimi, che si è autopromossa a "nuova aristocrazia", che con le antiche aristocrazie ha numerose analogie e molte differenze.
L’elemento comune principale è che essa preleva un "surplus" che non ha più alcuna relazione con i servizi resi, ma che deriva solo da una posizione di potere occupato. I compensi e le forme partecipative prelevati dal big management del big business sono diventati di natura e proporzione tali da non potere più, in nessun modo, essere ricondotti ad un corrispettivo per un qualsiasi lavoro professionale direttivo.
Essi sono un prelievo e non più un corrispettivo.
Una delle differenze principali con le vecchie aristocrazie è che queste avevano la funzione di dirigere e proteggere la loro popolazione, mentre l’aristocrazia industriale non ha alcuna pretesa di questo tipo: essa vuol solo servirsi della popolazione di appartenenza, non dirigerla.
Un’altra differenza è che essa non assicura ai suoi membri una solida stabilità. Saldamente insediata come classe, la nuova aristocrazia industriale è sottoposta, nei suoi singoli membri, a rapide mutazioni: il mercato e la competizione non permettono il prolungarsi a lungo di posizioni parassitarie o anche solo protette.
Quello qui discusso è uno sviluppo che Alexis de Tocqueville (nel capitolo XX del suo "La democrazia in America" del 1835 - intitolato appunto "Come l’aristocrazia può nascere dall’industria") prevedeva con queste parole: "Perciò, a mano a mano che la massa della nazione si volge alla democrazia, la classe particolare che si occupa dell’industria diviene più aristocratica... Io penso che nel suo complesso l’aristocrazia industriale, che vediamo sorgere sotto i nostri occhi, sia una delle più dure che mai siano apparse sulla Terra, ma al tempo stesso una delle più ristrette e meno pericolose. Tuttavia proprio verso questa parte gli amici della democrazia devono continuamente rivolgere lo sguardo e diffidare poiché, se la diseguaglianza permanente delle condizioni e l’aristocrazia dovessero penetrare di nuovo nel mondo, si può prevedere che penetreranno da questa porta"».
Per quanto ne so questa tesi, benché basata su fatti di plateale evidenza, non è stata sinora oggetto di attenzione negli Stati Uniti.
Ma anche qui incominciano i primi segnali. Tre studiosi dell’Harvard Law School e uno della University of Berkeley in California hanno in corso di pubblicazione sul prossimo numero della Chicago Law Review uno studio dal titolo Managerial power and rent extraction .
Dalla recensione di questo studio pubblicata sul l’ Economist del 13 luglio dal sottotitolo The pay of chief executives can seem ridiculous. Often it is , sembra che dallo stesso emerga la tesi che la teoria contrattuale non spiega più i contenuti reali dei compensi dei top manager .
Qui cominciamo ad addentrarci nel cuore dei problemi veri, nell’indecente abuso delle stock option e nella conseguente spinta a realizzare concentrazioni ed acquisizioni prive di ogni contenuto industriale.

LO SCONTRO CON GLI AMMINISTRATORI COME SCONTRO POLITICO.
Ma il problema non è tanto nelle manipolazioni di bilancio che sono solo una conseguenza e uno strumento; il problema è nel potere assoluto, arbitrario, mitico che la società americana ha riconosciuto ai corporate executive .
Il problema sta nell’assenza di bilanciamento dei poteri.
E, quindi, è una questione che va al cuore della vita democratica. Altro che quattro regolette contabili violate! Altro che la teoria delle poche «mele marce» della quale si è fatto portavoce il presidente Bush.
Del resto la convinzione che siamo di fronte ad una vicenda storicamente rilevante incomincia a farsi strada.
Daniel Yergin (l’autore di Commanding Heights , uno studio storico dedicato agli scontri tra il libero mercato e la regolamentazione governativa) afferma: «Il suono del collasso di WorldCom è il suono della fine di un’epoca. I suoi riflessi si sentiranno in tutto il Paese e molto forte a Washington» ( Financial Times , 13-14 luglio 2002). E Peter Clapman, il potente presidente del Tira-Cref (il fondo che gestisce 280 miliardi di dollari degli insegnanti Usa) ha affermato: «Sento molti che sostengono una tesi bizzarra: Enron, WorldCom & Co., dicono, sono solo mele marce. E chiariti i loro problemi non v’è necessità di reazioni eccessive che rischiano di porre troppi paletti al mercato. Io sostengo il contrario. Ci sono troppe mele marce. E o si rimette in sesto l’intero sistema con regole chiare (che non sono dirigismo) o si rischia grosso».
In forma estremamente incisiva William Crist, presidente di Calpers, il più grande e forse il più potente fondo americano, ha detto: «Il presidente Bush non coglie per niente il punto. Non sono le attività criminali in primo piano... il fatto è che le grandi società sono gestite da insider per il loro proprio interesse».
E Kevin Phillips pubblica un libro dal titolo Wealth and Democracy: how great fortunes and government created America’s aristocracy . I ceo (chief executive officer, amministratori delegati, ndr), dunque, come casta o come aristocrazia.
Finalmente siamo arrivati a toccare il cuore del problema. La profezia di Tocqueville si è dimostrata ancora una volta corretta. Ma proprio per questo, realizzare una svolta significativa verso un diverso e migliore sistema non sarà per nulla facile.
Il compito di George Bush non è sostanzialmente molto diverso di quello che deve affrontare Putin nel tentare di mettere la museruola agli ex comunisti che si sono trasformati in magnati industriali ed oligarchi finanziari ed hanno preso tutto per sé il potere economico in Russia. La differenza è che Putin è solo mentre Bush arranca dietro le migliori istituzioni americane che hanno assunto la leadership e lo trascinano in avanti.

AZIONE E RETICENZE.
Resta da discutere la domanda se sia vero che l’America si è messa al lavoro per rimediare alla crisi finanziaria e di credibilità con prontezza e bene, mostrando una «straordinaria capacità di reazione», come ha scritto Sergio Romano.
La risposta non è univoca ed è certamente negativa per il presidente e per le principali lobby economiche. Lasciamo la parola ad alcuni dei più autorevoli organi di stampa americana e internazionali.
Il 17 giugno Business Week , in un articolo intitolato: «Ma quale pulizia? Mentre Washington vacilla, la riforma finanziaria sta andando rapidamente da nessuna parte», affermava: «Ma ora la spinta per una riforma legislativa post Enron è in stallo, vittima dell’indifferenza del presidente, dell’ostilità repubblicana, della fiera opposizione delle lobby del business e della disorganizzazione dei riformisti democratici».
E ancora il 27 giugno Joseph Stiglitz affermava: «Ormai è diventato un problema politico. E la Sec (la Consob americana, ndr ) si vede costretta ad agire. Ma per ora non vedo alcuna azione adeguata».
Poi Bush ha parlato, a Wall Street il 9 luglio, e in seguito in Alabama. Ma ogni volta i suoi discorsi sono apparsi poco o nulla convincenti. Long on rhetoric and short on substance , scrive il New York Times , mentre il Washington Post : «George W. Bush ha continuato la sua offensiva retorica contro gli scandali societari, chiedendo ai due rami del Congresso di concordare un pacchetto unitario di riforma post Enron prima della pausa di agosto. Un’azione rapida è un’eccellente idea se ciò volesse dire unire il Congresso sul progetto di legge approvato dal Senato con la schiacciante maggioranza di 97 a 0. Ma rifiutandosi di venire allo scoperto apertamente in appoggio a questo progetto, Bush sta rallentando il momento di una vera riforma».
E ancora il 18 luglio, il più famoso e popolare economista americano, il premio Nobel ’70 Paul Samuelson, esprimendo un giudizio di assoluta insufficienza su quanto si è fatto e su quanto si è promesso di fare afferma: «Il danno più grave per la credibilità della finanza Usa in questo momento lo fanno gli scandali finanziari. La " lobby dei ceo" sta facendo di tutto perché rimangano nascoste le frodi e gli imbrogli finanziari di cui, a quanto pare, si è fatto un enorme uso. E Bush è con loro. Del resto quando era a capo di società petrolifere si comportava come i capi della Enron, iscrivendo falsi profitti che facevano lievitare i titoli e poi vendendoli».
Riepilogando: 1) il presidente si è mosso tardi e sino ad ora ha fatto prevalentemente retorica; 2) la Sec, presieduta da un avvocato d’affari che per tutta la vita è stato consulente e portavoce della lobby delle grandi società di revisione, è stata lentissima, incerta e ambigua; 3) la congregazione dei manager d’impresa si è fatta notare per un’assenza totale dal dibattito e per un fragoroso silenzio, con pochissime eccezioni individuali. 4) Il Congresso è stato a lungo lentissimo e confuso.
La Camera dei Rappresentanti aveva da tempo in bollitura un provvedimento in concreto inutile. Solo recentemente il Senato ha approvato all’unanimità dei presenti (97 voti contro 0) un provvedimento di una qualche serietà. E questo provvedimento, pur non avendo trovato il supporto esplicito del presidente, sotto l’incalzare degli eventi è diventato, il 26 luglio, il progetto di tutto il Congresso ed è diventato legge. Questo provvedimento porta innovazioni importanti. Ma i punti principali restano aperti.
Quelli essenziali sono tre. 1) Introdurre la regola che il costo delle stock option venga spesato nei conti economici delle società e che i relativi schemi vengano sempre approvati dagli azionisti. Si tratta di regole decisive per frenare gli abusi attuali. Secondo me non basta: è necessario fissare anche un limite legale alle stock option e ai compensi totali dei ceo. Ma questo, oggi in America, pare impossibile. I sostenitori di questa innovazione contabile sono molti e autorevoli, come lo stesso Greenspan, in passato contrario. Ma non vanno avanti perché la lobby dei ceo e lo stesso Bush non sono d’accordo.
2) Potenziare il numero degli amministratori indipendenti (non facenti parte, cioè, del management ). Questa proposta ha buone possibilità di andare avanti, essendo appoggiata anche da Bush e da istituzioni come la Borsa di New York. Ma i consiglieri indipendenti possono incidere ben poco laddove la figura del presidente delle società coincide con quella dell’amministratore delegato. È, insomma, indispensabile che il presidente del consiglio d’amministrazione sia indipendente e diverso dal ceo. Solo così si instaura una vera dialettica nell’azienda e i consiglieri indipendenti possono contare qualcosa. Anche questa è una proposta che sta facendo passi avanti sia pure faticosamente.
3) Serve un organismo forte e indipendente per monitorare e guidare la professione degli esperti contabili. Serve, a dire il vero, da almeno 20 anni ma la lobby delle società di revisione (che tra l’altro ha versato oltre due milioni di dollari di contributi elettorali a 63 dei 70 membri della Commissione finanza della Camera dei rappresentanti e a tutti i 21 membri della Commissione bancaria del Senato, cioè i due organismi legislativi competenti in questa materia) si è sempre opposta con durezza. La legge ha approvato finalmente l’istituzione di questo organismo. Ma se funzionerà concretamente è tutto da vedere.
Chi avrà la forza e il coraggio di imporre le riforme? Bush non è Roosevelt e il presidente della Sec, Harvey Pitt, già avvocato d’affari delle maggiori società di revisione, non sembra il soggetto ideale per resistere alle loro lobby .
Vale la pena di riflettere sulle parole di Paul Volcker che, chiamato a tentare il salvataggio dell’Andersen, provò a ripristinare standard accettabili di rigore e serietà nella professione: «In verità - si è sfogato con Business Week - non vidi nessuno davanti a me. Ricevetti molti attestati di simpatia, ma la corporate America non era là, voleva essere lasciata in pace».
Insomma, quello che si è fatto finora in America è poco, anche se alcune iniziative recenti cominciano a toccare punti importanti.
Un dato positivo è che, nonostante lentezze e reticenze di governo e Parlamento, si stanno muovendo forze e istituzioni di mercato: si sono messi in moto gli investitori più saggi come Warren Buffett e un gruppo limitato ma significativo di società espressione del sano conservatorismo americano (dalla Coca-Cola alla Ford) che hanno «scavalcato a sinistra» il presidente Bush, mentre la dormiente Sec si è svegliata ed è in preda a un nervoso attivismo.
La Borsa di New York avanza proposte positive mentre i grandi fondi pensione dichiarano che in futuro eserciteranno il loro peso, anche politico, in modo nuovo.
Ad aver fallito è soprattutto il nuovo sistema di deregolamentazione imposto sulla base di un liberismo troppo dogmatico. L’autoregolamentazione del mercato non ha funzionato. Sull’onda della deregulation i mercati hanno indirizzato migliaia di miliardi di dollari in impieghi che non daranno mai un penny di frutto. Nelle telecomunicazioni, ad esempio, abbiamo assistito a sovrainvestimenti e fusioni che sono stati una pura devastazione economica.

AMERICA E ITALIA. Giudicando con severità quanto accaduto in America non intendo certo dire che in Italia avremmo fatto di meglio o che siamo in una situazione migliore. In realtà il nostro Paese - che peraltro è immerso in un conflitto d’interessi inestricabile e istituzionalizzato a tutti i livelli - ha cose primordiali cui pensare prima di poter seriamente parlare di questi nodi. I problemi dell’Italia sono diversi e andranno analizzati a parte. Ma la vicenda americana, con la crisi dell’unico credibile sistema al quale ci rapportavamo e ci ispiravamo, ha conseguenze profondissime anche per noi.
( 2-fine, la prima puntata è stata
pubblicata ieri )
 

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