Su mf di venerdi c'era scritto.. (1 Viewer)

equilibrio

Forumer storico
di borsa non capisco niente pero' el mas.cio (porco) me piase tanto:)
ciao filo e la compagnia tutta:ciao:

LA MEMORIA. NELLE SETTIMANE D’INVERNO ANCORA OGGI SI RINNOVA UN RITO CHE, SOTTO LA SUPERVISIONE DEL VETERINARIO, PRENDE VITA ANCHE A DOMICILIO


“Far su el màs - cio”, che tradizione...

Giulia Marruccelli

Così la carne si trasforma in sopresse, salami, ossocollo, braciole. Del maiale non si butta davvero niente


  • Martedì 24 Febbraio 2009
  • SPECIALI,
  • pagina 51


Ha ragione George Orwell quando afferma che la sciagura più grande del maiale fu quella di imbattersi nell’uomo: lo ha nutrito fin dal 6.000 avanti Cristo e ha conosciuto, nel corso dei secoli, grandezza e sventura: tabù alimentare e golosità, simbolo del peccato e dell’abbondanza, animale impuro e “musina”, meglio ancora cassaforte del contadino, come scrisse Virgilio Scapin.
Nel Veneto era abitudine delle famiglie rurali avere l’orto, curare un piccolo pollaio e ingrassare il maiale, che costituiva la vera fonte di sostentamento. Era perciò tenuto in grande considerazione, allevato con cura, guardato a vista, per poi essere sacrificato all’arrivo delle prime gelate invernali. “Far su el mas-cio”, come si diceva nel linguaggio semplice ed efficace della gente delle campagne, stava a indicare, infatti, una serie di operazioni che comprendeva l’abbattimento dell’animale, la preparazione delle carni e l’insaccatura, un rito sacrificale denso di gesti e simboli, regolato da immutabili liturgie tra odori, colori, sangue e adrenalina.
Tutta la famiglia era coinvolta per un paio di giorni, dai più grandi ai più piccoli. L’immolazione avveniva in maniera assai cruenta: il norcino (o “mazzin” o “mas-ciaro”), specialista del mestiere, interveniva con un colpo di coltello netto alla gola e nel frattempo il sangue veniva raccolto con un “caliero” di rame, per lasciarlo addensare qualche ora, dopodiché lo si faceva bollire e così diventava il “sanguasso” da mangiare in umido con la polenta.
Il maiale veniva quindi posto nella “mesa” (vasca di legno) riempito dalle donne di casa con acqua bollente, per levare via le setole utilizzando le lame dei coltelli; dopo veniva appeso a una trave della “barchessa” a testa in giù, per dividerlo in due parti e levargli le interiora. Asciugatosi durante la notte, il giorno successivo si procedeva a “farlo su”. L’esposizione alla gelida aria invernale serviva a togliere eventuali impurità annidate nei muscoli dell’animale. Solo l’esperto norcino sapeva quali carni utilizzare per ricavare il meglio da ogni prodotto e utilizzare le giuste dosi di sale, pepe e spezie.
La “tola” o “mejara” era il ripiano di legno dove si svolgeva quasi tutto il lavoro: di forma rettangolare si restringeva ad un lato per permettere all’acqua di scolare via; in un angolo vi era la macchinetta “par masenare le carni”; qui il maiale veniva sezionato, il lardo veniva tagliato e messo sotto sale; “l’onto” (il grasso) era recuperato per fare lo strutto; le cotiche, le cartilagini (orecchie, muso) e una parte delle carni meno pregiate per realizzare i cotechini; altre parti meno nobili destinate alle salsicce; le carni migliori invece venivano utilizzate per le sopresse e i salami; con il ventre del suino si preparavano le pancette (arrotolate con spezie), dal costato le “sparagagne” e infine i “ciccioli” che si ricavavano dalla cottura dello strutto.
Per l’insaccatura veniva utilizzato il “bueo” del bovino di varie misure a seconda del risultato finale: l’arte del norcino trovava la sua massima espressione nella legatura del budello con lo spago per dare la giusta forma agli insaccati; poteva eseguire questi lavori anche a occhi chiusi, con le sue mani sapienti. Del maiale, quindi, non si buttava via niente, persino le ossa venivano messe da parte e le setole utilizzate per fare le spazzole.
Alla sera a conclusione del lavoro era veramente festa con “i ossi de mas-cio”, le frattaglie e il risotto con la “pasta del salado” o con “le trippe”, mentre sopresse, salumi e salsicce facevano bella mostra di sé appesi a “la stanga dei saladi” prima ad asciugare davanti al focolare e successivamente posti in cantina, seguiti passo passo per la stagionatura.
Questa storia, raccontata al passato, anche se in misura molto minore, resiste ancora grazie a quelle poche persone che, con grande passione ed esperienza, perpetuano e tramandano questa nobile tradizione delle nostre campagne. Tutto il processo di macellazione testimoniato in questa pagina, che ha richiesto una intera giornata di duro lavoro, è avvenuto in casa (a Veggiano) come vuole la tradizione, ma a norma di legge e sotto la supervisione ed il controllo veterinario che ha certificato lo stato di “buona salute” del caro estinto. La legge consente una macellazione casalinga purché vi sia appunto il benestare dell’autorità sanitaria.
Claudio Schiavon, Alessandro Povelato e Tiziano Salviati hanno collaborato con Sandro Ceron “el mazzin” di Grisignano di Zocco che ha all’attivo oltre trent’anni di onorata attività e un numero incalcolabile di… salami sulla coscienza.


:bow::bow::bow:
 

vilasguil

Forumer storico
aoooooooooooooooooooooooooo
nun me sporcate iltred del n.1 co sta serie de fregnacce da osteria
questo e' un tred serio di segnali operativi mica maialate e quant'altro...micio micio o bau bau
:) :) :)
 

sandor

Banned
CHI NON GRADISCE SI ASTENGA GRAZIE...
SE FA PE' SCHERZA' CHE NE SO IO DE BORSA...
HO DUE POSSIBILITA' SU O GIU',
OGGI ME SO' SVEGLIATO GIU' POI ME SO'
STRAINITO PERCHE' NUN SAPEVO CHE FA E ME SO MESSO SU!
VO A KULO..A VOLTE CE SE PRENDE ANCHE COSI'...:up:

Viè qui che te acaresso il gobbon , sei abbaciato dallu destino?
Mi piace quel che muovi, mi piace quel che muovi e alloooooraaaaaaa muooooviiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!!!!! :V
 

Lady White

Guest
di borsa non capisco niente pero' el mas.cio (porco) me piase tanto:)
ciao filo e la compagnia tutta:ciao:

LA MEMORIA. NELLE SETTIMANE D’INVERNO ANCORA OGGI SI RINNOVA UN RITO CHE, SOTTO LA SUPERVISIONE DEL VETERINARIO, PRENDE VITA ANCHE A DOMICILIO


“Far su el màs - cio”, che tradizione...

Giulia Marruccelli

Così la carne si trasforma in sopresse, salami, ossocollo, braciole. Del maiale non si butta davvero niente


  • Martedì 24 Febbraio 2009
  • SPECIALI,
  • pagina 51


Ha ragione George Orwell quando afferma che la sciagura più grande del maiale fu quella di imbattersi nell’uomo: lo ha nutrito fin dal 6.000 avanti Cristo e ha conosciuto, nel corso dei secoli, grandezza e sventura: tabù alimentare e golosità, simbolo del peccato e dell’abbondanza, animale impuro e “musina”, meglio ancora cassaforte del contadino, come scrisse Virgilio Scapin.
Nel Veneto era abitudine delle famiglie rurali avere l’orto, curare un piccolo pollaio e ingrassare il maiale, che costituiva la vera fonte di sostentamento. Era perciò tenuto in grande considerazione, allevato con cura, guardato a vista, per poi essere sacrificato all’arrivo delle prime gelate invernali. “Far su el mas-cio”, come si diceva nel linguaggio semplice ed efficace della gente delle campagne, stava a indicare, infatti, una serie di operazioni che comprendeva l’abbattimento dell’animale, la preparazione delle carni e l’insaccatura, un rito sacrificale denso di gesti e simboli, regolato da immutabili liturgie tra odori, colori, sangue e adrenalina.
Tutta la famiglia era coinvolta per un paio di giorni, dai più grandi ai più piccoli. L’immolazione avveniva in maniera assai cruenta: il norcino (o “mazzin” o “mas-ciaro”), specialista del mestiere, interveniva con un colpo di coltello netto alla gola e nel frattempo il sangue veniva raccolto con un “caliero” di rame, per lasciarlo addensare qualche ora, dopodiché lo si faceva bollire e così diventava il “sanguasso” da mangiare in umido con la polenta.
Il maiale veniva quindi posto nella “mesa” (vasca di legno) riempito dalle donne di casa con acqua bollente, per levare via le setole utilizzando le lame dei coltelli; dopo veniva appeso a una trave della “barchessa” a testa in giù, per dividerlo in due parti e levargli le interiora. Asciugatosi durante la notte, il giorno successivo si procedeva a “farlo su”. L’esposizione alla gelida aria invernale serviva a togliere eventuali impurità annidate nei muscoli dell’animale. Solo l’esperto norcino sapeva quali carni utilizzare per ricavare il meglio da ogni prodotto e utilizzare le giuste dosi di sale, pepe e spezie.
La “tola” o “mejara” era il ripiano di legno dove si svolgeva quasi tutto il lavoro: di forma rettangolare si restringeva ad un lato per permettere all’acqua di scolare via; in un angolo vi era la macchinetta “par masenare le carni”; qui il maiale veniva sezionato, il lardo veniva tagliato e messo sotto sale; “l’onto” (il grasso) era recuperato per fare lo strutto; le cotiche, le cartilagini (orecchie, muso) e una parte delle carni meno pregiate per realizzare i cotechini; altre parti meno nobili destinate alle salsicce; le carni migliori invece venivano utilizzate per le sopresse e i salami; con il ventre del suino si preparavano le pancette (arrotolate con spezie), dal costato le “sparagagne” e infine i “ciccioli” che si ricavavano dalla cottura dello strutto.
Per l’insaccatura veniva utilizzato il “bueo” del bovino di varie misure a seconda del risultato finale: l’arte del norcino trovava la sua massima espressione nella legatura del budello con lo spago per dare la giusta forma agli insaccati; poteva eseguire questi lavori anche a occhi chiusi, con le sue mani sapienti. Del maiale, quindi, non si buttava via niente, persino le ossa venivano messe da parte e le setole utilizzate per fare le spazzole.
Alla sera a conclusione del lavoro era veramente festa con “i ossi de mas-cio”, le frattaglie e il risotto con la “pasta del salado” o con “le trippe”, mentre sopresse, salumi e salsicce facevano bella mostra di sé appesi a “la stanga dei saladi” prima ad asciugare davanti al focolare e successivamente posti in cantina, seguiti passo passo per la stagionatura.
Questa storia, raccontata al passato, anche se in misura molto minore, resiste ancora grazie a quelle poche persone che, con grande passione ed esperienza, perpetuano e tramandano questa nobile tradizione delle nostre campagne. Tutto il processo di macellazione testimoniato in questa pagina, che ha richiesto una intera giornata di duro lavoro, è avvenuto in casa (a Veggiano) come vuole la tradizione, ma a norma di legge e sotto la supervisione ed il controllo veterinario che ha certificato lo stato di “buona salute” del caro estinto. La legge consente una macellazione casalinga purché vi sia appunto il benestare dell’autorità sanitaria.
Claudio Schiavon, Alessandro Povelato e Tiziano Salviati hanno collaborato con Sandro Ceron “el mazzin” di Grisignano di Zocco che ha all’attivo oltre trent’anni di onorata attività e un numero incalcolabile di… salami sulla coscienza.
MAMMA MIA mi fate svenire il BOSS:sad: è vegetariano...mi viene l'ansia a pensare come potrebbe reagire:eek:
 

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