L'Italia e la vergogna del reddito minimo non garantito
                                                     di: Elisabetta Ambrosi                 Pubblicato il 10 giugno 2013| Ora 08:28                              
                                                                                                                                                                           Stampa                                                                                           Invia                                                      
                                                                 Commenta (6)                                                                  
             
                                                     Non solo disoccupati. Il caso dei "working poor",  che hanno un lavoro anche fisso ma guadagnano troppo poco per  assicurarsi una vita dignitosa. Poveri e insicuri anche se impiegati.  Tasse alle stelle, stipendi ridicoli.               
                 
                                      ROMA (WSI) -  Frustrazione. Scontentezza. Paura di non farcela. Provate a chiedere a  colleghi e amici «quanto guadagni?» e, nel 99% per cento dei casi,  riceverete un’identica risposta: «Meno di quanto merito, meno di quanto  mi occorre».
Una risposta veritiera, secondo 
Walter Passerini e 
Mario Vavassori , autori del libro 
Senza soldi.  Sottopagati, disoccupati, precari (Chiare Lettere), che denuncia una  situazione allarmante: avere un posto di lavoro non sconfigge 
la povertà, e a far parte della numerosa schiera dei working poor - i lavoratori poveri – non sono solo 
i precari (per i quali 1000 euro al mese di cinque anni oggi fa sono un miraggio), ma anche i 
lavoratori dipendenti, pubblici e privati. 
Amministratori delegati a parte – con uno stipendio medio, nel 2011, di  920.644 euro lordi, 100.000 più del 2012 – colletti bianchi e blu «ormai  vivono dinamiche salariali identiche». Ma a soffrire sono anche  dirigenti e quadri (categoria, quest’ultima, che tuttavia resiste meglio  di tutte alla crisi), sottolineano gli autori (Passerini, giornalista, è  anche coautore del libro Senza pensioni).
«Si è rotto il binomio lavoro-sicurezza, mentre l’art. 36 della  Costituzione, secondo cui il lavoro dovrebbe assicurare al lavoratore e  alla sua famiglia una vita dignitosa e libera, sembra non valere più»,  scrivono gli autori. Insomma oggi si può essere poveri e insicuri pur  avendo un lavoro, pur se ad altissima utilità sociale, come nel caso di  infermieri o maestri, o ad elevato contenuto intellettuale.
Il problema resta il binomio tra 
una tassazione altissima (47,6  per cento nel 2011, con un fiscal drag che si "mangia" eventuali  aumenti), e stipendi molto bassi: in media 19.150 euro, contro i 29.677  del Regno Unito, 25.128 della Germania, 22.677 della Francia, 21.111  della Spagna (in pratica, un italiano guadagna 1900 euro, contro 2600  della Germania, 2950, nel Regno Unito, 270 in Norvegia, 3050 in  Svizzera).
Il colpevole principale resta, però, soprattutto, un’inflazione che – a  causa anche di un mal gestito passaggio all’euro – ha annullato  l’aumento delle buste paga. Che sono cresciute negli ultimi dieci anni  (+122,2% per gli operai, 123,6 per gli impiegati, 129 per i quadri,  121,3 per i dirigenti), ma solo a livello nominale, visto che i prezzi  di beni e servizi sono aumentati del 133,1%.
Sotto accusa, anche, le 
politiche salariali e retributive degli  ultimi anni, che hanno puntato a un’uguaglianza generica, finendo per  «appiattire i differenziali e non individuare né costruire vere pratiche  di meritocrazia». Neanche bonus e premi aggiuntivi allo stipendio di  base hanno consentito di fare la differenza, perché la quota variabile  dello stipendio resta bassa «e questo la dice lunga sulla forza di  accordi sindacali non in grado di innestare un circolo virtuoso e  consolidare prassi positive». L’unico ascensore sociale resta quello  meno meritocratico, ossia l’anzianità.
Il risultato è un aumento dal 6,9 all’11,1% delle persone che soffrono  di una grave deprivazione materiale (con difficoltà a pagare bollette,  riscaldarsi e mangiare adeguatamente, permettersi auto ed  elettrodomestici). E una crescita delle disuguaglianze, con il 20% più  ricco delle 
famiglie italiane che detiene il 37,4% della ricchezza.
Anche tra gli impoveriti la situazione non è identica: se la passano peggio, nulla di nuovo, 
i giovani  (il 40% di loro è disoccupato, mentre ha perso drammaticamente terreno  la busta paga di quelli che riescono ad entrare e aumenta il  differenziale tra giovani e anziani professionisti). 
E, insieme ai giovani, 
le donne, discriminate sia dall’assenza di  servizi, sia dalla quota di retribuzione variabile sistematicamente  inferiore a quella degli uomini («le imprese hanno poco interesse a  incentivare le donne, anche quando occupano le posizioni più elevate»);  sia, infine, al momento della pensione (1595 euro contro 1165 per le  pensioni di anzianità, 562 contro 811 per le pensioni di vecchiaia).
Come se ne esce? Gli autori non hanno dubbi. «Se i salari sono bassi,  anche i consumi ne risentono, in una pericolosa spirale al ribasso. Il  rapporto debito Pil va attaccato e rimosso agendo sulla crescita». Per  questo c’è bisogno di una vera e propria battaglia culturale a favore  del lavoro in tutte le sue forme. Occorre poi abbassare gli oneri  fiscali e contributivi, ma soprattutto vincere la sfida della  produttività e insieme quella del merito. Un valore ancora sempre  sconfitto sul campo.
Nel frattempo, si potrebbe cominciare ad applicare il tetto di 300.000  euro ai manager pubblici previsto dalla Corte dei conti e oggi ancora  sforato da molte cariche, dal capo della polizia al ragioniere generale  dello stato e al capo di Gabinetto, dagli ad di società come Ferrovie,  Poste, Anas, Rai ai presidenti delle Authorities. E magari provare a  chiedersi come mai, mentre l’Europa è sempre più attenta ai guadagni  milionari dei top manager, da noi i controllori spesso facciano anche la  parte dei controllati, mentre agli stipendi milionari corrispondano  sempre gli stessi nomi. Di cui il libro, ricco di cifre, riporta in  dettaglio nomi e guadagni. 
http://www.ilfattoquotidiano.it/201...ome-non-farcela-anche-con-posto-fisso/621021/