The Book of Love

Tempo fa ho letto su un giornale che, secondo le ultime teorie, l'amore non nasce dal cuore ma dal naso. Quando due persone si incontrano e si piacciono cominciano a inviarsi alcuni piccoli ormoni di cui non ricordo il nome, questi ormoni entrano dal naso e salgono fino al cervello e lì, da qualche meandro segreto, scatenano la tempesta dell'amore. I sentimenti, insomma, concludeva l'articolo, non sono nient'altro che delle invisibili puzze. Che assurda sciocchezza!
Chi nella vita ha provato l'amore vero, quello grande e senza parole, sa che queste affermazioni non sono altro che l'ennesimo tiro mancino per cacciare il cuore in esilio. Certo, l'odore della persona amata provoca grandi turbamenti. Ma per provocarli, prima ci deve essere stato qualcos'altro, qualcosa che, sono sicura è molto diverso da una semplice puzza.

Stando vicina ad Ernesto in quei giorni per la prima volta nella mia vita ho avuto la sensazione che il mio corpo non avesse confini. Intorno sentivo una sorta di alone impalpabile, era come se i contorni fossero più ampi e quest'ampiezza vibrasse nell'aria a ogni movimento.

Sai come si comportano le piante quando non le innaffi per qualche giorno? Le foglie diventano molli, invece di levarsi verso la luce cascano in basso come le orecchie di un coniglio depresso. Ecco, la mia vita negli anni precedenti era stata proprio simile a quella di una pianta senz'acqua, la rugiada della notte mi aveva dato il nutrimento minimo per sopravvivere ma a parte quello non ricevevo altro, avevo la forza per stare in piedi e basta.
È sufficiente bagnare la pianta una sola volta perché questa si riprenda, perché tiri su le foglie. Così era successo a me la prima settimana. Sei giorni dopo il mio arrivo, guardandomi la mattina allo specchio mi so­no accorta di essere un' altra. La pelle era più liscia, gli occhi più luminosi, mentre mi vestivo ho cominciato a cantare, non l'avevo più fatto da quando ero bambina.

Sentendo la storia dall'esterno forse ti verrà naturale pensare che sotto
quell'euforia ci fossero delle domande, un'inquietudine, un tormento. In
fondo ero una donna sposata, come potevo accettare a cuor leggero la
compagnia di un altro uomo? Invece non c'era nessuna domanda, nessun
sospetto e non perché fossi particolarmente spregiudicata. Piuttosto perché
quello che vivevo riguardava il corpo, soltanto il corpo. Ero come un
cucciolo che dopo aver vagato a lungo per le strade d'inverno trova una
tana calda, non si domanda niente, sta lì e gode del tepore. Inoltre la stima
che avevo del mio fascino femminile era molto bassa, di conseguenza non
mi sfiorava neanche l'idea che un uomo potesse provare per me quel tipo
di interesse.

La prima domenica, andando a messa a piedi, Ernesto si è accostato alla
guida di un'auto. "Dove va?" mi ha chiesto sporgendosi dal finestrino e
non appena gliel'ho detto lui ha aperto la portiera dicendo: "Mi creda, Dio
è molto più contento se invece di andare in chiesa viene a fare una bella
passeggiata nei boschi". Dopo lunghi giri e molte curve siamo arrivati
all'inizio di un sentiero che si inoltrava tra i castagni. Io non avevo le
scarpe giuste per camminare su una strada sconnessa, inciampavo in
continuazione. Quando Ernesto mi ha preso la mano, mi è sembrata la cosa
più naturale del mondo. Abbiamo camminato a lungo in silenzio. Nell'aria
c'era già l'odore dell'autunno, la terra era umida, sugli alberi molte foglie
erano gialle, la luce, passando attraverso, si smorzava in tonalità diverse. A
un certo punto, in mezzo alla radura, abbiamo incontrato un castagno
enorme. Ricordandomi della mia quercia gli sono andata incontro, prima
l'ho accarezzato con una mano, poi vi ho posato una guancia sopra. Subito
dopo Ernesto ha posato la testa accanto alla mia. Da quando ci eravamo
conosciuti non eravamo mai stati così vicini con gli occhi.

Il giorno seguente non l'ho voluto vedere. L'amicizia si stava
trasformando in qualcos'altro e avevo bisogno di riflettere. Non ero più una
ragazzina ma una donna sposata con tutte le sue responsabilità, anche lui
era sposato e per di più aveva un figlio. Da lì alla vecchiaia avevo ormai
previsto tutta la mia vita, il fatto che irrompesse qualcosa che non avevo
calcolato mi metteva addosso una grande ansia. Non sapevo come
comportarmi. Il nuovo al primo impatto spaventa, per riuscire ad andare
avanti bisogna superare questa sensazione di allarme. Così un momento
pensavo: "È una grande sciocchezza, la più grande della mia vita, devo
dimenticare tutto, cancellare quel poco che c'è stato". Il momento dopo mi
dicevo che la sciocchezza più grande sarebbe stata proprio quella di lasciar
perdere perché per la prima volta da quando ero bambina mi sentivo di
nuovo viva, tutto vibrava intorno a me, dentro a me, mi sembrava
impossibile dover rinunciare a questo nuovo stato. Oltre a ciò naturalmente
avevo un sospetto, quel sospetto che hanno o perlomeno avevano tutte le
donne: cioè che lui mi prendesse in giro, che volesse divertirsi e basta.
Tutti questi pensieri si agitavano nella mia testa mentre stavo da sola in
quella triste stanza di pensione.

Quella notte non riuscii a prendere sonno fino alle quattro, ero troppo
eccitata. La mattina dopo però non mi sentivo per niente stanca,
vestendomi cominciai a cantare; in quelle poche ore era nata in me una
tremenda voglia di vivere. Al decimo giorno di permanenza mandai una
cartolina ad Augusto: Aria ottima, cibo mediocre. Speriamo, avevo scritto
e l'avevo salutato con un abbraccio affettuoso. La notte prima l'avevo
trascorsa con Ernesto.

In quella notte all'improvviso mi ero accorta di una cosa, e cioè che tra
la nostra anima e il nostro corpo ci sono tante piccole finestre, da lì, se
sono aperte, passano le emozioni, se sono socchiuse filtrano appena, solo
l'amore le può spalancare tutte assieme e di colpo, come una raffica di
vento.

Nell'ultima settimana del mio soggiorno a Porretta siamo stati sempre
assieme, facevamo lunghe passeggiate, parlavamo fino ad avere la gola
secca. Com'erano diversi i discorsi di Ernesto da quelli di Augusto! Tutto
in lui era passione, entusiasmo, sapeva entrare negli argomenti più difficili
con una semplicità assoluta. Parlavamo spesso di Dio, della possibilità che,
oltre la realtà tangibile, esistesse qualcos'altro. Lui aveva fatto la
Resistenza, più di una volta aveva visto la morte in faccia. In quegli istanti
gli era nato il pensiero di qualcosa di superiore, non per la paura ma per il
dilatarsi della coscienza in uno spazio più ampio. "Non posso seguire i
riti", mi diceva, "non andrò mai in un luogo di culto, non potrò mai
credere ai dogmi, alle storie inventate da altri uomini come me." Ci
rubavamo le parole di bocca, pensavamo le stesse cose, le dicevamo allo
stesso modo, sembrava che ci conoscessimo da anni anziché da due
settimane.

Ci restava poco tempo ancora, le ultime notti non abbiamo dormito più
di un'ora, ci assopivamo il tempo minimo per riprendere le forze. Ernesto
era molto appassionato all'argomento della predestinazione. "Nella vita di
ogni uomo", diceva, "esiste solo una donna assieme alla quale raggiungere
l'unione perfetta e, nella vita di ogni donna, esiste un solo uomo assieme al
quale essere completa." Trovarsi però era un destino di pochi, di
pochissimi. Tutti gli altri erano costretti a vivere in uno stato di
insoddisfazione, di nostalgia perpetua. "Quanti incontri ci saranno così",
diceva nel buio della stanza, "uno su diecimila, uno su un milione, su dieci
milioni?" Uno su dieci milioni, sì. Tutti gli altri sono aggiustamenti,
simpatie epidermiche, transitorie, affinità fisiche o di carattere,
convenzioni sociali. Dopo queste considerazioni non faceva altro che
ripetere: "Come siamo stati fortunati, eh? Chissà cosa c'è dietro, chi lo
sa?"

Il giorno della partenza, aspettando il treno nella minuscola stazione, mi
ha abbracciato e mi ha bisbigliato in un orecchio: "In quale vita ci siamo
già conosciuti?" "In tante»", gli ho risposto io, e ho cominciato a piangere.

Nascosto nella borsetta avevo il suo recapito di Ferrara.

Inutile che ti descriva i miei sentimenti in quelle lunghe ore di viaggio,
erano troppo convulsi, troppo "l'un contro l'altro armati". Sapevo, in quelle
ore, di dover effettuare una metamorfosi, andavo avanti e indietro dalla
toilette per controllare l'espressione del mio volto. La luce negli occhi, il
sorriso, dovevano andare via, spegnersi. A conferma della bontà dell'aria
doveva restare soltanto il colorito delle guance. Sia mio padre che Augusto
mi trovarono straordinariamente migliorata. "Sapevo che le acque fanno
miracoli", ripeteva mio padre in continuazione mentre Augusto, cosa per
lui quasi incredibile, mi circondava di piccole galanterie.

Quando anche tu proverai l'amore per la prima volta capirai quanto vari
e buffi possano essere i suoi effetti. Fino a che non sei innamorata, fino a
che il tuo cuore è libero e il tuo sguardo di nessuno, di tutti gli uomini che
ti potrebbero interessare, neppure uno ti degna di attenzione; poi, nel
momento in cui sei presa da un'unica persona e non ti importa
assolutamente niente degli altri, tutti ti inseguono, dicono parole dolci, ti
fanno la corte. È l'effetto delle finestre di cui parlavo prima, quando sono
aperte il corpo dà una gran luce all'anima e così l'anima al corpo, con un
sistema di specchi si illuminano l'un l'altro. In breve tempo si forma
intorno a te una specie di alone dorato e caldo e quest'alone attira gli altri
uomini come il miele attira gli orsi. Augusto non era sfuggito a
quell'effetto e anch'io, anche se ti parrà strano, non trovavo difficoltà a
essere gentile con lui. Certo, se Augusto fosse stato soltanto un po' più
dentro alle cose del mondo, un po' più malizioso, non ci avrebbe messo
molto per capire cos'era successo. Per la prima volta da quando eravamo
sposati mi sono trovata a ringraziare i suoi orripilanti insetti.

Pensavo a Ernesto? Certo, non facevo praticamente altro. Pensare però
non è il termine esatto. Più che pensare, esistevo per lui, lui esisteva in me,
in ogni gesto, in ogni pensiero eravamo una sola persona. Lasciandoci, ci
eravamo accordati che la prima a scrivere sarei stata io; perché lui potesse
farlo, dovevo prima trovare un indirizzo di un'amica fidata alla quale farmi
mandare le lettere. La prima lettera gliela inviai alla vigilia dei morti. Il
periodo che seguì fu il più terribile di tutta la nostra relazione. Neanche gli
amori più grandi, i più assoluti, nella lontananza sono esenti dal dubbio. La
mattina aprivo gli occhi di colpo quando fuori era ancora buio e restavo
immobile e in silenzio vicino ad Augusto. Erano gli unici momenti in cui
non dovevo nascondere i miei sentimenti. Ripensavo a quelle tre
settimane. E se Ernesto, mi chiedevo, fosse stato soltanto un seduttore, uno
che per noia alle terme si divertiva con le signore sole? Più passavano i
giorni e non arrivava la lettera più questo sospetto si trasformava in
certezza. Va bene, mi dicevo allora, anche se è andata così, anche se mi
sono comportata come la più ingenua delle donnette, non è stata
un'esperienza negativa né inutile. Se non mi fossi lasciata andare sarei
invecchiata e morta senza mai sapere cosa può provare una donna. In
qualche modo, capisci, cercavo di mettere le mani avanti, di attutire il
colpo.

Sia mio padre che Augusto notarono il mio peggioramento d'umore:
scattavo per un nonnulla, appena uno di loro entrava in una stanza io
uscivo per andare in un'altra, avevo bisogno di stare sola. Ripassavo in
continuazione le settimane trascorse assieme, le esaminavo con frenesia
minuto per minuto per trovare un indizio, una prova che mi spingesse
definitivamente in un senso o nell'altro. Quanto durò questo supplizio? Un
mese e mezzo, quasi due. La settimana prima di Natale, a casa dell'amica
che faceva da tramite finalmente arrivò la lettera, cinque pagine scritte con
una calligrafia grande e ariosa.

Tornai improvvisamente di buon umore. Tra scrivere e attendere le
risposte l'inverno volò via e così la primavera. Il pensiero fisso di Ernesto
alterava la mia percezione del tempo, tutte le mie energie erano
concentrate su un futuro imprecisato, sul momento in cui avrei potuto
rivederlo.

La profondità della sua lettera mi aveva resa ormai sicura del sentimento
che ci legava. Il nostro era un amore grande, grandissimo e, come tutti gli
amori davvero grandi, era anche in buona misura lontano dall'accadere
degli eventi strettamente umani. Forse ti sembrerà strano che la lunga
lontananza non provocasse in noi una grande sofferenza e forse dire che
non soffrivamo affatto non è esattamente vero. Sia io che Ernesto
soffrivamo per la forzata distanza, ma era una sofferenza mista ad altri
sentimenti, dietro l'emozione dell'attesa il dolore scivolava in secondo
piano. Eravamo due persone adulte e sposate, sapevamo che le cose non
potevano andare in modo diverso. Probabilmente se tutto ciò fosse
avvenuto ai nostri giorni, dopo neanche un mese io avrei chiesto la
separazione da Augusto e lui l'avrebbe chiesta da sua moglie e già prima di
Natale avremmo abitato nella stessa casa. Sarebbe stato meglio? Non lo so.
In fondo non riesco a togliermi dalla mente l'idea che la facilità dei
rapporti banalizzi l'amore, che trasformi l'intensità del trasporto in
passeggera infatuazione. Lo sai come succede quando, nelle torte, mescoli
male il lievito nella farina? Il dolce invece di alzarsi in modo uniforme si
alza solo da una parte, più che alzarsi esplode, la pasta si rompe e cola
dallo stampo come lava. Così è l'unicità della passione. Traborda.

Avere un amante a quei tempi, e riuscire a vederlo, non era una cosa
molto semplice. Per Ernesto certo era già più facile, essendo medico
poteva sempre inventare un convegno, un concorso, qualche caso urgente,
ma per me che oltre a quella della casalinga non avevo nessun'altra attività
era quasi impossibile. Dovevo inventarmi un impegno, qualcosa che mi
consentisse assenze di poche ore o anche di giorni senza destare nessun
sospetto. Così prima di Pasqua mi iscrissi a una società di latinisti
dilettanti. Si riunivano una volta alla settimana e facevano frequenti gite
culturali. Conoscendo la mia passione per le lingue antiche Augusto non
sospettò nulla né trovò niente da ridire, anzi era contento che riprendessi
gli interessi di una volta.

L'estate quell'anno arrivò in un baleno. A fine giugno, come ogni anno,
Ernesto partì per la stagione alle terme e io per il mare assieme a mio padre
e a mio marito. In quel mese riuscii a convincere Augusto che non avevo
smesso di desiderare un figlio. Il trentun agosto di buon'ora, con la stessa
valigia e lo stesso vestito dell'anno precedente, mi accompagnò a prendere
il treno per Porretta. Durante il viaggio per l'eccitazione non riuscii a stare
ferma un istante, dal finestrino vedevo lo stesso paesaggio che avevo visto
l'anno prima eppure tutto mi sembrava diverso.

Mi fermai alle terme tre settimane, in quelle tre settimane vissi di più e
più profondamente che in tutto il resto della mia vita. Un giorno, mentre
Ernesto era al lavoro, passeggiando per il parco pensai che la cosa più
bella in quell'istante sarebbe stata morire. Pare strano ma la felicità
massima, coma la massima infelicità porta con sé sempre questo desiderio
contraddittorio. Avevo la sensazione di essere in cammino da tanto tempo,
di avere marciato per anni e anni per strade sterrate, per la boscaglia; per
andare avanti mi ero aperta un cunicolo con l'accetta, avanzavo e di quello
che mi stava intorno – oltre a ciò che stava davanti ai miei piedi – non
avevo visto niente; non sapevo dove stavo andando, poteva esserci un
baratro davanti a me, una forra, una grande città o il deserto; poi a un tratto
la boscaglia si era aperta, senza accorgermene ero salita in alto.

All'improvviso mi trovavo sulla cima di un monte, da poco era sorto il sole
e davanti a me con sfumature diverse altri monti degradavano verso
l'orizzonte; tutto era blu azzurrino, una brezza leggera sfiorava la vetta, la
vetta e la mia testa, la mia testa e i pensieri dentro. Ogni tanto da sotto
saliva un rumore, l'abbaiare di un cane, lo scampanio di una chiesa. Ogni
cosa era a un tempo stranamente leggera e intensa. Dentro e fuori di me
tutto era diventato chiaro, niente più si sovrapponeva, niente si faceva
ombra, non avevo più voglia di scendere, di andare giù nella boscaglia;
volevo tuffarmi in quell'azzurrino e restarci per sempre, lasciare la vita nel
momento più alto. Conservai quel pensiero fino alla sera, al momento di
rivedere Ernesto. Durante la cena però non ebbi il coraggio di dirglielo,
avevo paura che si sarebbe messo a ridere. Soltanto la sera tardi, quando
mi raggiunse nella mia stanza, quando venne e mi abbracciò, avvicinai la
bocca al suo orecchio per parlargli. Volevo dirgli: "Voglio morire". Invece
sai cosa dissi? "Voglio un figlio."

Quando lasciai Porretta sapevo di essere incinta. Credo che anche
Ernesto lo sapesse, negli ultimi giorni era molto turbato, confuso, stava
spesso zitto. Io non lo ero affatto. Il mio corpo aveva cominciato a
modificarsi fin dal mattino seguente al concepimento, il seno era
improvvisamente più gonfio, più sodo, la pelle del viso più luminosa. È
davvero incredibile il poco tempo che il fisico impiega ad adeguarsi al
nuovo stato. Per questo posso dirti che, anche se non avevo fatto le analisi,
anche se la pancia era ancora piatta, sapevo benissimo cosa era successo.
All'improvviso mi sentivo invasa da una grande solarità, il mio corpo si
modificava, cominciava a espandersi, a divenire possente. Prima di allora
non avevo mai provato niente di simile.

I pensieri gravi mi assalirono soltanto quando rimasi sola in treno.
Finché ero stata vicina a Ernesto non avevo avuto nessun dubbio sul fatto
che avrei tenuto il bambino: Augusto, la mia vita di Trieste, le chiacchiere
della gente, tutto era lontanissimo. A quel punto però tutto quel mondo si
stava avvicinando, la rapidità con cui la gravidanza sarebbe andata avanti
mi imponeva di prendere delle decisioni al più presto e – una volta prese –
di mantenerle per sempre. Capii subito, paradossalmente, che abortire
sarebbe stato molto più difficile che tenere il figlio. Ad Augusto un aborto
non sarebbe sfuggito. Come potevo giustificarlo ai suoi occhi dopo che per
tanti anni avevo insistito sul desiderio di avere un figlio? E poi io non
volevo abortire, quella creatura che mi cresceva dentro non era stato uno
sbaglio, qualcosa da eliminare al più presto. Era il compiersi di un
desiderio, forse il desiderio più grande e più intenso di tutta la mia vita.
Quando si ama un uomo — quando lo si ama con la totalità del corpo e
dell'anima — la cosa più naturale è desiderare un figlio. Non si tratta di un
desiderio intelligente, di una scelta basata su criteri di razionalità. Prima di
conoscere Ernesto immaginavo di volere un figlio e sapevo esattamente
perché lo volevo e quali sarebbero stati i pro e i contro dell'averlo. Era una
scelta razionale insomma, volevo un figlio perché avevo una certa età ed
ero molto sola, perché ero una donna e se le donne non fanno niente,
almeno possono fare i figli. Capisci? Nell'acquistare una macchina avrei
adottato esattamente lo stesso criterio.

Ma quando quella notte ho detto a Ernesto: "Voglio un figlio", era
qualcosa di assolutamente diverso tutto il buon senso andava contro questa
decisione eppure questa decisione era più forte di tutto il buon senso. E
poi, in fondo, non era neanche una decisione, era una frenesia, un'avidità di
possesso perpetuo. Volevo Ernesto dentro di me, con me, accanto a me per
sempre. Adesso, leggendo come mi sono comportata, probabilmente
rabbrividirai per l'orrore, ti domanderai come mai non ti sei accorta prima
che nascondevo dei lati così bassi, così spregevoli. Quando sono arrivata
alla stazione di Trieste ho fatto l'unica cosa che potevo fare, sono scesa dal
treno come una moglie tenera e innamoratissima. Augusto è rimasto subito
colpito dal mio cambiamento, invece di farsi domande si è lasciato
coinvolgere.

Dopo un mese era ormai plausibilissimo che quel figlio fosse suo. Il
giorno in cui gli annunciai il risultato delle analisi lasciò l'ufficio a metà
mattina e passò tutta la giornata con me a progettare cambiamenti in casa
per l'arrivo del bambino. Quando avvicinando la mia testa alla sua gli
gridai la notizia, mio padre prese le mie mani tra le sue mani secche e
stette così, fermo per un po', mentre gli occhi gli diventavano umidi e
rossi. Già da tempo la sordità l'aveva escluso da gran parte della vita e i
suoi ragionamenti procedevano a scossoni, tra una frase e l'altra c'erano
vuoti improvvisi, scarti o spezzoni di ricordi che non c'entravano niente.
Non so perché ma davanti a quelle sue lacrime, invece di commozione
provai un sottile senso di fastidio. Vi leggevo dentro retorica e non altro.
La nipotina, comunque, non riuscì a vederla. Morì nel sonno senza soffrire
quando ero al sesto mese di gravidanza. Vedendolo composto nella bara
fui colpita da quanto fosse rinsecchito e decrepito. Sul viso aveva la stessa
espressione di sempre, distante e neutra.

Naturalmente, dopo aver ricevuto il responso delle analisi, scrissi anche
a Ernesto; la sua risposta arrivò in meno di dieci giorni. Aspettai alcune
ore prima di aprire la lettera, ero molto agitata, temevo ci fosse dentro
qualcosa di sgradevole. Mi decisi a leggere il contenuto solo nel tardo
pomeriggio, per poterlo fare liberamente mi chiusi nel gabinetto di un
caffè. Le sue parole erano pacate e ragionevoli. "Non so se questa sia la
cosa migliore da farsi", diceva, "ma se tu hai deciso così, rispetto la tua
decisione."

Da quel giorno, appianati ormai tutti gli ostacoli, cominciò la mia
tranquilla attesa di madre. Mi sentivo un mostro? Lo ero? Non lo so.
Durante la gravidanza e per molti degli anni che sono seguiti non ho mai
avuto un dubbio né un rimorso. Come facevo a fingere di amare un uomo
mentre nel ventre portavo il figlio di un altro che amavo davvero? Ma
vedi, in realtà le cose non sono mai così semplici, non sono mai o nere o
bianche, ogni tinta porta in sé tante sfumature diverse. Non facevo nessuna
fatica a essere gentile e affettuosa con Augusto perché gli volevo davvero
bene. Gliene volevo in modo molto diverso da come lo volevo a Ernesto,
lo amavo non come una donna ama un uomo, ma come una sorella ama un
fratello maggiore un po' noioso. Se lui fosse stato cattivo tutto sarebbe
stato diverso, non mi sarei mai sognata di fare un figlio e vivergli accanto,
ma lui era soltanto mortalmente metodico e prevedibile; a parte questo, nel
profondo era gentile e buono. Era felice di avere quel figlio e io ero felice
di darglielo. Per quale motivo avrei dovuto svelargli il segreto? Nel farlo
avrei precipitato tre vite nell'infelicità permanente. Così almeno pensavo
quella volta. Adesso che c'è libertà di movimento, di scelta, può sembrare
davvero orribile quello che ho fatto, ma allora – quando mi sono trovata a
vivere questa situazione – era un caso molto comune, non dico che ce ne
fosse uno in ogni coppia ma certo era piuttosto frequente che una donna
concepisse un figlio con un altro uomo nell'ambito di un matrimonio. E
cosa succedeva? Quel che è successo a me assolutamente niente. Il
bambino nasceva, cresceva uguale agli altri fratelli, diventava grande senza
che lo sfiorasse mai neppure un sospetto. La famiglia a quei tempi aveva
fondamenta saldissime, per distruggerla ci voleva molto più di un figlio
diverso. Così andò con tua madre. Nacque e fu subito figlia mia e di
Augusto. La cosa più importante per me era che Ilaria fosse il frutto
dell'amore e non del caso, delle convenzioni o della noia; pensavo che
questo avrebbe eliminato qualsiasi altro problema. Come mi sbagliavo!
Nei primi anni comunque tutto è andato avanti in modo naturale, senza
scossoni. Vivevo per lei, ero – o credevo di essere – una madre molto
affettuosa e attenta. Già dalla prima estate avevo preso l'abitudine di
passare i mesi più caldi assieme alla bambina sulla riviera adriatica.
Avevamo preso una casa in affitto e ogni due o tre settimane Augusto
veniva a passare il sabato e la domenica con noi.

Su quella spiaggia Ernesto vide sua figlia per la prima volta.
Naturalmente fingeva di essere un perfetto estraneo, durante la passeggiata
camminava "per caso" vicino a noi, prendeva un ombrellone a pochi passi
di distanza e da lì – quando non c'era Augusto – dissimulando la sua
attenzione dietro un libro o un giornale ci osservava per ore. La sera poi mi
scriveva lunghe lettere registrando tutto quello che gli era passato per la
testa, i suoi sentimenti per noi, quello che aveva visto. Intanto anche a sua
moglie era nato un altro figlio, lui aveva lasciato l'impiego stagionale delle
terme e aveva aperto nella sua città, a Ferrara, uno studio medico privato.
Nei primi tre anni di Ilaria, a parte quegli incontri fintamente casuali, non
ci siamo mai visti. Io ero molto presa dalla bambina, ogni mattina mi
svegliavo con la gioia di sapere che lei c'era, anche volendo non avrei
potuto dedicarmi a nient'altro.

Poco prima di lasciarci, durante l'ultimo soggiorno alle terme Ernesto e
io avevamo stabilito un patto. "Ogni sera", aveva detto Ernesto, "alle
undici in punto, in qualsiasi luogo mi trovi e in qualsiasi situazione, uscirò
all'aperto e nel cielo cercherò Sirio. Tu farai altrettanto e così i nostri
pensieri, anche se saremo lontanissimi, anche se non ci saremo visti da
tempo e ignoreremo tutto uno dell'altra, si ritroveranno lassù e staranno
vicini." Poi eravamo usciti sul balcone della pensione e da lì salendo con il
dito tra le stelle, tra Orione e Betelgeuse, mi aveva mostrato Sirio.​

(Susanna Tamaro: 10 dicembre da "Va' dove ti porta il cuore")
 
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