The Book of Love

il giovane werther

Perché non ti scrivo? Ti chiedi una cosa del genere e saresti quello che sa tutto? Dovresti indovinarlo da te che sto benissimo, cioè... insomma, ho fatto una conoscenza che interessa il mio cuore molto da vicino. Ho... chi lo sa.
Raccontarti per filo e per segno come ho conosciuto una delle creature più adorabili non è affare da poco. Sono contento, sono felice, quindi un pessimo storico.
Un angelo! uffa! questo lo dice ognuno della sua bella, no? Tuttavia non sono in grado di dirti quanto sia perfetta, perché sia perfetta; insomma, si è accattivata tutta la mia attenzione.
Una tale semplicità unita a una tale intelligenza, una tale bontà con tale fermezza d'animo, e la calma dell'anima aggiunta alla pienezza della vita e all'operosità.
Ma sono tutte ciarle insulse quelle che ti sto dicendo su di lei, mere astrazioni che non rendono giustizia a uno solo dei suoi tratti. Un'altra volta - no, non un'altra volta - voglio raccontartelo adesso, subito. Se non lo faccio adesso non lo farò mai più. Perché, detto fra noi, da quando ho cominciato a scrivere, sono già stato tre volte sul punto di buttare via la penna, far sellare il mio cavallo e via! Eppure stamattina presto ho giurato a me stesso di non uscire, ma continuo ad andare alla finestra a vedere a che punto è ancora il sole...
Non sono stato capace di resistere, dovevo assolutamente andare da lei. Eccomi qua di nuovo, Guglielmo, voglio mangiarmi il mio pane imburrato per cena e scriverti. Che gioia infinita è per me vederla circondata da quei simpatici e vispi bambini, dai suoi otto fratelli!
Se continuo così, alla fine ne saprai quanto all'inizio. Ascoltami bene, voglio sforzarmi a scendere in particolari.
Recentemente ti ho scritto di aver conosciuto l'intendente S..., e che lui mi ha pregato di fargli visita nel suo eremitaggio, o meglio, nel suo piccolo regno. Non ne ho fatto niente, e probabilmente non ci sarei mai capitato se il caso non mi avesse fatto scoprire il tesoro che giace nascosto in quei tranquilli paraggi.
I nostri giovanotti avevano organizzato un ballo in campagna, al quale volentieri avevo dato la mia adesione. Mi offrii di far da cavaliere a una ragazza buona, bella e del tutto insignificante, e si restò intesi che io avrei preso una carrozza con la mia ballerina e sua cugina per andare nel posto della festa e che strada facendo avremmo dato un passaggio a Carlotta S... «Conoscerete una bella ragazza,» disse la mia accompagnatrice mentre passavamo per la vasta e rada selva diretti alla casa di caccia. «Fate ben attenzione a non innamorarvene!» aggiunse la cugina. «E perché?» chiesi io. «È già stata promessa,» rispose quella, «a un uomo molto a posto che ora è via a sistemare le sue faccende, siccome suo padre è morto, e per sollecitare una carica importante.» La notizia mi lasciò alquanto indifferente.
Il sole aveva un altro quarto d'ora prima di scomparire oltre la montagna quando arrivammo davanti al portone del cortile. Il tempo era afoso, e le ragazze erano preoccupate a causa del temporale che sembrava annunciarsi nei tenebrosi nuvoloni grigiastri all'orizzonte. Dissipai la loro paura con presunte cognizioni meteorologiche, sebbene anch'io cominciassi a temere che la nostra allegria avrebbe subito un qualche inciampo.
Smontai, e una domestica venuta al portone ci pregò di voler attendere un attimo, la signorina Carlotta sarebbe arrivata subito. Attraversai il cortile dirigendomi verso la casa ben costruita, e, salita la scalinata e arrivato sulla soglia, mi si presentò lo spettacolo più affascinante che io abbia mai visto. Nel vestibolo si accalcavano sei bambini fra gli undici e i due anni attorno a una fanciulla dal bel personale, di media statura, con indosso un semplice abito bianco con dei fiocchi rosso pallido alle braccia e al petto. Teneva in mano un pane nero e a ognuno dei suoi piccoli tagliava un pezzo proporzionato all'età e all'appetito, porgendolo a ognuno con grande gioia, e ognuno, dopo aver a lungo agitato in alto le manine, gridava il suo spontaneo «grazie!» prima ancora che fosse tagliato e poi con la merenda scappava via esultante o, se di carattere tranquillo, si dirigeva verso il portone a vedere i forestieri e la carrozza che doveva portare via Lotte. «Vi prego di scusarmi,» disse, «se v'ho incomodato a entrare e se faccio aspettare le signore. Tra il vestirmi e le cento disposizioni per la casa durante la mia assenza, ho dimenticato di dare la merenda ai miei bambini e non vogliono nessun altro che gli tagli il pane al mio posto.» Le feci un complimento inconsistente, tutta la mia anima era fissata sulla sua persona, sul tono, sui modi, e feci appena in tempo a riprendermi dallo stupore che lei scappò in camera a prendere i guanti e il ventaglio. I piccoli mi stavano osservando un po' in tralice a una certa distanza, mi avvicinai al più piccolo, un bimbo di bellissime fattezze. Lui si tirò indietro, ma proprio in quel momento Lotte ricompariva sulla porta e diceva: «Luigi, stringi la mano al signor cugino.» Cosa che il bimbetto fece con molto garbo, e non seppi resistere alla tentazione di baciarlo affettuosamente, malgrado la candela che gli scendeva dal naso. «Cugino?» dissi io porgendole la mano, «crede che io sia degno di avere la fortuna di essere suo parente?» «Oh,» disse lei con un sorriso negligente, «il nostro parentado è così esteso, e mi dispiacerebbe proprio se fra tutti lei fosse il peggiore.» Partendo incaricò Sofia, la sorella più grande, una ragazza di circa undici anni, di badare scrupolosamente ai bambini e di salutare il papà quando sarebbe rientrato dalla cavalcata. Ai piccoli disse che dovevano ubbidire a Sofia come se fosse stata lei stessa, cosa che qualcuno di loro promise solennemente. Una biondina però, una saputella di circa sei anni, disse: «Ma non sei tu, Lottina, noi preferiamo te.» I due ragazzi più grandicelli si erano arrampicati sulla carrozza e dietro mia insistenza lei gli permise di arrivare con noi sino all'entrata del bosco, se promettevano però di non stuzzicarsi e di tenersi ben saldi.
Ci eravamo appena sistemati e le signore si erano date il benvenuto e scambiate le debite osservazioni sui vestiti, specialmente sui cappelli, e avevano passato bene a setaccio tutti quelli che ci stavano aspettando, quando Lotte fece arrestare la carrozza e smontare i fratelli, i quali le baciarono di nuovo la mano: l'uno, il maggiore, con tutta la tenerezza dei suoi quindici anni, l'altro con molto impeto e spensieratezza. Li incaricò di nuovo di salutare i piccoli e ripartimmo.
La cugina chiese se aveva finito il libro che le aveva prestato. «No,» disse Lotte, «non mi piace. Può riprenderselo. Non che quello precedente fosse meglio.» Rimasi di sasso quando le chiesi di che libri si trattava e lei mi rispose: ... Trovai che c'era molto carattere in quello che diceva, ogni parola era un nuovo incanto, vedevo nuovi raggi dello spirito illuminare il suo viso che a poco a poco pareva dispiegarsi alla contentezza perché lei sentiva che ero d'accordo con lei.
«Quando ero più giovane,» disse, «non c'era niente che mi piacesse più dei romanzi. Dio sa con che piacere di domenica mi mettevo in un angolino e trepidavo per la buona e cattiva stella di una qualche Miss Jenny. E non nascondo che per me questo genere non ha perso del tutto le sue attrattive. Ma adesso ho così poco tempo per leggere un libro che quando capita deve essere di mio gusto o niente. E l'autore che preferisco è quello in cui ritrovo il mio mondo, le cose e i fatti che mi succedono intorno, e le cui storie catturino il mio interesse e il mio cuore al pari della mia stessa vita domestica, la quale non è certo un paradiso, ma che è certamente fonte di un'indicibile felicità.»
Mi sforzavo di nascondere la mia commozione ascoltando queste parole. Ma non ci riuscii a lungo, si capisce: perché allorché la sentii discorrere così, come di sfuggita, ma con tanta pertinenza del Vicario di Wakefield di... e di..., non stetti più in me, le dissi tutto ciò che sapevo, e solo dopo un po' di tempo notai, visto che Lotte rivolse la conversazione verso le compagne, che costoro per tutto quel tempo se ne erano rimaste lì imbambolate con gli occhi sgranati, come se non esistessero neppure. La cugina mi guardò più di una volta con una smorfia ironica, della quale, peraltro, non m'importò granché.
La conversazione cadde sul piacere del ballo. «Anche se questa passione è riprovevole,» disse Lotte, «confesso che niente mi piace di più del ballo. E quando qualcosa mi va storto mi metto a strimpellare una contraddanza sulla mia spinetta ed ecco che tutto si sistema.»
Come mi sperdevo in quegli occhi neri durante la conversazione, come attiravano a sé tutta la mia anima quelle labbra tumide e quelle guance sbarazzine! immerso nella splendida sensatezza del suo discorso, spesso non sentivo neppure le parole con cui si esprimeva - conoscendomi, puoi benissimo fartene un'idea. Per farla breve, quando ci arrestammo davanti al padiglione smontai dalla carrozza come trasognato, ed ero così sperduto nei miei sogni, mentre il sole calava, che feci appena caso alla musica che risuonava sino a noi dalla sala illuminata.
I due signori Audran e un certo N.N. - ma chi si ricorda di tutti i nomi? - che erano i cavalieri della cugina e di Lotte, vennero allo sportello, s'impadronirono delle loro dame, e io salii di sopra con la mia.
Prendemmo a intrecciarci in minuetti; invitai una ragazza dopo l'altra, e solo le più antipatiche non si decidevano mai a porgere la mano e a farla finita. Lotte e il suo ballerino cominciarono una contraddanza inglese, e ti lascio immaginare la mia gioia quando vidi che anche lei veniva a mettersi in riga con noi. Bigogna vederla ballare! ecco, ci mette tutta l'anima, tutto il cuore, tutto il suo corpo è armonia, così disinvolta, così sciolta, come se il ballo fosse tutto, come se non pensasse a nient'altro, non sentisse altro; e in quei momenti certamente tutto il resto le scompare davanti agli occhi.
La invitai per la seconda contraddanza; lei mi accordò la terza e con la franchezza più amabile di questo mondo mi rassicurò che ballava il valzer con immenso piacere. «Qui l'uso vuole,» aggiunse, «che le coppie arrivate assieme rimangano unite anche nel valzer, e il mio cavaliere lo balla male e mi sarà grato se gli risparmierò questa fatica. La sua dama non è che se la cavi meglio, mentre ho visto che lei nella contraddanza inglese volteggia bene; se vuole farmi da ballerino nel valzer, allora vada a chiedere il permesso al mio accompagnatore e io andrò dalla sua dama.» Le strinsi la mano in segno d'intesa e rimanemmo d'accordo che nel frattempo il suo ballerino avrebbe fatto compagnia alla mia ballerina.
E via, attaccammo! e per un po' ci divertimmo con i più svariati intrecci delle braccia. Con quale grazia, con quale leggerezza si muoveva! e arrivati al valzer, prendemmo a ruotare attorno come sfere celesti; all'inizio ci fu, si capisce, un po' di confusione, dato che solo pochi erano capaci. Furbescamente li lasciammo sfogare, e, quando quelli negati ebbero sgombrato la pista, ci inserimmo noi, e, con un'altra coppia, Audran e la sua dama, ci demmo dentro. Mai mi sono sentito così a mio agio. Non ero nemmeno più un essere umano. Avere fra le braccia quell'amorevole creatura e vorticare con lei come un turbine, e ogni cosa che si dileguava intorno, e... Guglielmo, a essere sinceri, giurai che mai avrei permesso a una ragazza che amavo, sulla quale avessi una qualche prerogativa, di ballare il valzer altri che con me, anche a costo di rovinare ogni cosa. Il perché lo capisci.
Facemmo alcuni giri a passo nella sala, per riprendere fiato. Poi andò a sedersi, e le arance che avevo messo in disparte, le sole che erano rimaste, fecero un effetto straordinario, solo che ogni spicchio che lei, per cortesia, passava a una vicina impicciona, era per me una stilettata.
Alla terza contraddanza inglese noi eravamo la seconda coppia della fila. Mentre intersecavamo la schiera e io, Dio sa con quale piacere ero agganciato al suo braccio e ai suoi occhi, pieni del divertimento più spensierato e innocente, incontrammo una signora che mi aveva già colpito per l'amabilità del volto, benché non fosse più tanto giovane. Guardò Lotte sorridendo, alzò un dito in segno di riprovazione, e pronunciò il nome di Alberto con aria allusiva, sfiorandoci velocemente.
«Chi è Alberto?» chiesi a Lotte, «se non sono indiscreto.»
Lei stava per rispondere, quando dovemmo scioglierci per formare la grande quadriglia, e mi sembrò di scorgere un'ombra di preoccupazione sulla sua fronte mentre ci incrociavamo. «Perché mai dovrei nasconderglielo,» mi disse porgendomi la mano per la promenade, «Alberto è un bravo ragazzo al quale sono già promessa.» Infatti la cosa non mi era affatto nuova (le ragazze me l'avevano detto in carrozza), eppure mi colpì come una novità assoluta, perché io non l'avevo ancora messo in relazione con colei che in così pochi istanti mi era diventata tanto preziosa. Basta, mi confusi e andai a sbattere nella coppia sbagliata e ne nacque un bello scompiglio e ci volle tutta la presenza di spirito di Lotte perché, a forza di tirare di qua e di là, tutto ritornasse in ordine.
La danza non era ancora terminata che i lampi, che avevamo già da un bel pezzo visto brillare all'orizzonte e che avevo sempre scambiato per fenomeni della calura, presero a farsi sempre più forti e il tuono riuscì a sopraffare la musica. Tre donne corsero fuori dalla schiera seguite dai loro cavalieri; la confusione si fece generale e la musica cessò. È naturale che quando ci stiamo divertendo se siamo sorpresi da una disgrazia o da qualcosa di spaventoso l'impressione che ci fa è più forte che mai, sia per via del contrasto che si fa sentire con più violenza, sia perché, e forse ancor di più, i nostri sensi, una volta apertisi, sono più vulnerabili, esposti come sono a ogni emozione. A queste cause devo ascrivere le strane smorfie di parecchie signore. La più sensata si mise a sedere in un angolo voltando le spalle alla finestra e turandosi le orecchie con le mani. Un'altra cadde ginocchioni e nascose la testa nel primo grembo a tiro. Una terza s'infilò fra l'una e l'altra e abbracciò la sorellina mettendosi a piangere copiosamente. Qualcuna voleva andare a casa; altre, che sapevano ancor meno cosa stavano facendo, non avevano neanche senno sufficiente per destreggiarsi con l'ardita sfrontatezza dei nostri baldi giovanotti che si davano da fare come matti per cogliere direttamente dalle labbra delle belle in pena le preghiere altrimenti destinate al cielo. Alcuni dei nostri signori erano scesi dabbasso a farsi una pipata in santa pace; e la restante compagnia non disse di no quando la padrona di casa ebbe la buona idea di indicarci una stanza con imposte e tende. Vi eravamo appena giunti che Lotte si mise a disporre un cerchio con le sedie e, dopo che dietro suo invito la compagnia si era messa a sedere, prese a spiegare il funzionamento di un gioco.
Ne vidi parecchi che, allettati da una succosa penitenza, già protendevano le labbra a cuoricino e si stiravano tutti. «Giochiamo alla conta,» disse lei. «Adesso fate attenzione! Io faccio il giro da destra a sinistra, e voi conterete a ruota, ognuno il numero seguente, ma deve essere un fuoco di fila, e chi s'impappina o sbaglia, si prende una sberla, e così fino a mille.» Qui venne il bello. Lei andava intorno con il braccio teso. Uno, cominciò il primo, due, il vicino, tre, quello dopo, e così via. Poi lei prese a girare più velocemente, sempre più velocemente, uno si sbagliò e paff, uno schiaffo, e alla ridarella del vicino, paff, uno schiaffo anche a lui. E sempre più velocemente. Io stesso mi presi due ceffoni e credetti di sentire con segreto compiacimento che erano più sonori di quelli che assestava agli altri. Uno scoppio di risa e un pandemonio generale mise fine al gioco prima ancora che si fosse arrivati a mille. Quelli che erano più in confidenza si appartarono, il temporale era passato, e io seguii Lotte nella sala. Strada facendo lei disse: «Con le sberle hanno dimenticato il tempo e tutto il resto!» Non riuscii a rispondere niente. «Io, continuò, ero una di quelle che avevano più paura; è stato facendomi forza con tutta me stessa per dare coraggio alle altre che sono diventata intrepida anch'io.» Ci avvicinammo alla finestra. Ancora dei tuoni lontani, e una pioggerella deliziosa bisbigliava sulla campagna, e una fragranza ritemprante saliva fino a noi in tutta la pregnanza di un vento tiepido. Stava appoggiata sui gomiti, il suo sguardo scrutava il paesaggio, guardò il cielo e poi me, vidi che aveva gli occhi pieni di lacrime, appoggiò la mano sulla mia e disse: «Klopstock!» Subito mi tornò alla mente quell'ode stupenda a cui alludeva e m'inabissai nella corrente di emozioni che quella parola d'ordine aveva suscitato in me. Non riuscii a trattenermi, mi chinai sulla sua mano e la baciai in preda a un pianto carico di gioia. E guardai di nuovo nei suoi occhi. O poeta sublime, se a te fosse stato concesso di cogliere la tua apoteosi in questo sguardo e a me fosse concesso di non sentire più citare il tuo nome così spesso a vanvera!
 

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