Sharnin 2
Forumer storico
Banche USA tra realtà e propaganda
Traspare la mancanza di volontà di un vero risanamento
di ALFONSO TUOR -
Le autorità monetarie e politiche al di qua e al di là dell’Atlantico continuano ad essere impegnate in operazioni di sostegno e di rassicurazione dei mercati e dell’opinione pubblica sullo stato di salute del sistema bancario. In Eurolandia la Banca centrale europea ha comunicato la riduzione all’1% dei tassi di interesse. Questo taglio di un quarto di punto del costo del denaro, ampiamente previsto e addirittura preannunciato dai dirigenti della Bce, non altera le prospettive di un’economia europea che, secondo le stime di Bruxelles, dovrebbe contrarsi quest’anno ad un ritmo del 4%. Ben più importante è la decisione della Bce di allungare da sei a dodici mesi le operazioni di rifinanziamento delle banche. L’istituto di Francoforte con questo passo sottolinea che il problema attuale non è il livello del costo del denaro, ma le difficoltà di rifinanziamento del sistema bancario, che contribuiscono a rendere molto problematico l’accesso al credito da parte di famiglie ed imprese europee. In proposito, la Bce è stata sin dall’inizio di questa crisi molto innovativa: ha infatti sostituito il sistema di aste con cui dava la liquidità alle banche con un processo in cui concede agli istituti finanziari tutta la liquidità che chiedono ad un tasso di interesse fisso. L’allungamento da 6 a 12 mesi di queste operazioni di rifinanziamento dà ossigeno agli istituti di credito europei, che ora riescono a finanziarsi sul mercato a breve termine, ma che continuano ad avere difficoltà a raccogliere capitali a prezzi ragionevoli per scadenze superiori ai tre mesi.
L’intervento maggiore e più discutibile di sostegno del sistema bancario sta comunque avvenendo al di là dell’Atlantico. Nelle ultime settimane le autorità americane hanno esaminato attentamente la solidità dei bilanci delle 19 maggiori banche statunitensi. Le prime indicazioni di quello che è stato chiamato stress test sono apparentemente confortanti: non vi sarebbero istituti a rischio di fallimento. Alcuni gruppi bancari hanno superato l’esame a pieni voti (JP Morgan Chase, Goldman Sachs, American Express), altre dovranno procedere nei prossimi mesi ad aumenti di capitale (di 34 miliardi dollari per Bank of America e di 5 miliardi per Citigroup). Queste ricapitalizzazioni non presentano soverchie difficoltà, poiché possono essere realizzate con la vendita di alcune attività, con la conversione in azioni di alcune categorie di prestiti convertibili o, nel peggiore dei casi, con la conversione in azioni dei prestiti concessi dallo Stato federale statunitense nell’ambito del famoso Tarp varato dall’amministrazione Bush.
Il grande problema di questa operazione tesa a ricreare fiducia nel sistema bancario americano è che nessuno sembra crederci, ad eccezione di Wall Street che ha salutato questi primi risultati con grandi rialzi dei titoli bancari. Ad esempio, l’economista americano Nouriel Roubini ha scritto che «questi risultati costituirebbero una buona notizia se fossero credibili». Infatti vi è un divario incomprensibile tra le previsioni di alcuni istituti di ricerca e le conclusioni delle autorità americane. Ad esempio, il Fondo Monetario Internazionale ha recentemente pubblicato uno studio in cui si stima che le perdite su titoli e prestiti negli Stati Uniti si aggireranno attorno ai 2’700 miliardi di dollari, di cui più della metà sarà a carico delle banche americane. Ma c’è di più: lo stress test era già stato impostato per giungere a risultati rassicuranti grazie ad ipotesi nettamente migliori della realtà. Ad esempio, lo stress test prevedeva che nello scenario peggiore la disoccupazione nel primo trimestre di quest’anno avrebbe raggiunto il 7,9%. Oggi sappiamo con certezza che ha toccato l’8,1%.
Queste considerazioni degli economisti non hanno comunque grande rilevanza, poiché non colgono l’obiettivo di questa operazione propagandistica. L’amministrazione Obama non ha pensato di attuare lo stress test per verificare veramente lo stato di salute del sistema bancario americano (la Federal Reserve dispone di tutti i dati e ha accesso a tutte le informazioni bancarie, per cui questo esercizio era inutile), ma per convincere, da un canto, gli investitori che le banche stanno meglio di quanto avesse stimato il mercato e, dall’altro, l’opinione pubblica che non è necessaria un’operazione di pulizia o di risanamento del sistema.
La conclusione è che si nega la gravità dei problemi e si legittima - come hanno scritto alcuni economisti tra i quali Luigi Zingales sul Wall Street Journal - «la continuazione della politica delle garanzie statali e delle iniziezioni di capitali pubblici nelle banche».
Questa politica dell’amministrazione Obama pone problemi etici ed economici di notevole entità. Dal punto di vista etico, i contribuenti sono chiamati a pagare i danni causati dalle banche, che sono tra le principali responsabili della crisi, mentre coloro che hanno dato le risorse alle banche per condurre le loro disastrose operazioni finanziarie, come gli obbligazionisti, non vengono chiamati alla cassa. Inoltre, in molti casi alla guida degli istituti rimangono ancora le stesse persone che hanno causato i dissesti.
Dal punto di vista economico, la politica condotta dall’amministrazione Obama ricalca fedelmente quella seguita dalle autorità giapponesi negli anni Novanta. Allora il Governo nipponico aveva continuato a negare le difficoltà del proprio sistema bancario con il risultato di creare delle «Zombie banks», come le avevano battezzate proprio le autorità americane del tempo. In Giappone l’effetto economico di questa politica è stato che le banche, con grandi perdite nascoste nei bilanci, hanno continuato a lungo a restringere la concessione di crediti a famiglie e imprese allungando la crisi. Paradossalmente il Governo americano, che aveva duramente criticato la politica di Tokyo, sta ora seguendo proprio quelle orme.
La mancanza di volontà di ripulire e risanare veramente il sistema bancario e di far giocare appieno i meccanismi dell’economia di mercato (che prevedono come meccanismo essenziale di disciplina fallimento e perdite per chi investe in attività deficitarie) produrrà il risultato di allungare i tempi della crisi e di rendere le politiche dei governi eticamente inaccettabili per coloro che sono costretti a subire le conseguenze di una crisi che non hanno assolutamente contribuito a provocare.
Traspare la mancanza di volontà di un vero risanamento
di ALFONSO TUOR -
Le autorità monetarie e politiche al di qua e al di là dell’Atlantico continuano ad essere impegnate in operazioni di sostegno e di rassicurazione dei mercati e dell’opinione pubblica sullo stato di salute del sistema bancario. In Eurolandia la Banca centrale europea ha comunicato la riduzione all’1% dei tassi di interesse. Questo taglio di un quarto di punto del costo del denaro, ampiamente previsto e addirittura preannunciato dai dirigenti della Bce, non altera le prospettive di un’economia europea che, secondo le stime di Bruxelles, dovrebbe contrarsi quest’anno ad un ritmo del 4%. Ben più importante è la decisione della Bce di allungare da sei a dodici mesi le operazioni di rifinanziamento delle banche. L’istituto di Francoforte con questo passo sottolinea che il problema attuale non è il livello del costo del denaro, ma le difficoltà di rifinanziamento del sistema bancario, che contribuiscono a rendere molto problematico l’accesso al credito da parte di famiglie ed imprese europee. In proposito, la Bce è stata sin dall’inizio di questa crisi molto innovativa: ha infatti sostituito il sistema di aste con cui dava la liquidità alle banche con un processo in cui concede agli istituti finanziari tutta la liquidità che chiedono ad un tasso di interesse fisso. L’allungamento da 6 a 12 mesi di queste operazioni di rifinanziamento dà ossigeno agli istituti di credito europei, che ora riescono a finanziarsi sul mercato a breve termine, ma che continuano ad avere difficoltà a raccogliere capitali a prezzi ragionevoli per scadenze superiori ai tre mesi.
L’intervento maggiore e più discutibile di sostegno del sistema bancario sta comunque avvenendo al di là dell’Atlantico. Nelle ultime settimane le autorità americane hanno esaminato attentamente la solidità dei bilanci delle 19 maggiori banche statunitensi. Le prime indicazioni di quello che è stato chiamato stress test sono apparentemente confortanti: non vi sarebbero istituti a rischio di fallimento. Alcuni gruppi bancari hanno superato l’esame a pieni voti (JP Morgan Chase, Goldman Sachs, American Express), altre dovranno procedere nei prossimi mesi ad aumenti di capitale (di 34 miliardi dollari per Bank of America e di 5 miliardi per Citigroup). Queste ricapitalizzazioni non presentano soverchie difficoltà, poiché possono essere realizzate con la vendita di alcune attività, con la conversione in azioni di alcune categorie di prestiti convertibili o, nel peggiore dei casi, con la conversione in azioni dei prestiti concessi dallo Stato federale statunitense nell’ambito del famoso Tarp varato dall’amministrazione Bush.
Il grande problema di questa operazione tesa a ricreare fiducia nel sistema bancario americano è che nessuno sembra crederci, ad eccezione di Wall Street che ha salutato questi primi risultati con grandi rialzi dei titoli bancari. Ad esempio, l’economista americano Nouriel Roubini ha scritto che «questi risultati costituirebbero una buona notizia se fossero credibili». Infatti vi è un divario incomprensibile tra le previsioni di alcuni istituti di ricerca e le conclusioni delle autorità americane. Ad esempio, il Fondo Monetario Internazionale ha recentemente pubblicato uno studio in cui si stima che le perdite su titoli e prestiti negli Stati Uniti si aggireranno attorno ai 2’700 miliardi di dollari, di cui più della metà sarà a carico delle banche americane. Ma c’è di più: lo stress test era già stato impostato per giungere a risultati rassicuranti grazie ad ipotesi nettamente migliori della realtà. Ad esempio, lo stress test prevedeva che nello scenario peggiore la disoccupazione nel primo trimestre di quest’anno avrebbe raggiunto il 7,9%. Oggi sappiamo con certezza che ha toccato l’8,1%.
Queste considerazioni degli economisti non hanno comunque grande rilevanza, poiché non colgono l’obiettivo di questa operazione propagandistica. L’amministrazione Obama non ha pensato di attuare lo stress test per verificare veramente lo stato di salute del sistema bancario americano (la Federal Reserve dispone di tutti i dati e ha accesso a tutte le informazioni bancarie, per cui questo esercizio era inutile), ma per convincere, da un canto, gli investitori che le banche stanno meglio di quanto avesse stimato il mercato e, dall’altro, l’opinione pubblica che non è necessaria un’operazione di pulizia o di risanamento del sistema.
La conclusione è che si nega la gravità dei problemi e si legittima - come hanno scritto alcuni economisti tra i quali Luigi Zingales sul Wall Street Journal - «la continuazione della politica delle garanzie statali e delle iniziezioni di capitali pubblici nelle banche».
Questa politica dell’amministrazione Obama pone problemi etici ed economici di notevole entità. Dal punto di vista etico, i contribuenti sono chiamati a pagare i danni causati dalle banche, che sono tra le principali responsabili della crisi, mentre coloro che hanno dato le risorse alle banche per condurre le loro disastrose operazioni finanziarie, come gli obbligazionisti, non vengono chiamati alla cassa. Inoltre, in molti casi alla guida degli istituti rimangono ancora le stesse persone che hanno causato i dissesti.
Dal punto di vista economico, la politica condotta dall’amministrazione Obama ricalca fedelmente quella seguita dalle autorità giapponesi negli anni Novanta. Allora il Governo nipponico aveva continuato a negare le difficoltà del proprio sistema bancario con il risultato di creare delle «Zombie banks», come le avevano battezzate proprio le autorità americane del tempo. In Giappone l’effetto economico di questa politica è stato che le banche, con grandi perdite nascoste nei bilanci, hanno continuato a lungo a restringere la concessione di crediti a famiglie e imprese allungando la crisi. Paradossalmente il Governo americano, che aveva duramente criticato la politica di Tokyo, sta ora seguendo proprio quelle orme.
La mancanza di volontà di ripulire e risanare veramente il sistema bancario e di far giocare appieno i meccanismi dell’economia di mercato (che prevedono come meccanismo essenziale di disciplina fallimento e perdite per chi investe in attività deficitarie) produrrà il risultato di allungare i tempi della crisi e di rendere le politiche dei governi eticamente inaccettabili per coloro che sono costretti a subire le conseguenze di una crisi che non hanno assolutamente contribuito a provocare.