Sharnin 2
Forumer storico
La finanza Usa schiaccia il dollaro
Alfonso Tuor
È bastato veramente poco per capire che non sono destinati ad avere un successo duraturo i tentativi di esorcizzare le difficoltà del mercato immobiliare statunitense e la crisi delle ipoteche a maggiore rischio che ha già portato sull’orlo della bancarotta due grandi Hedge Funds della banca di investimento americana Bear Stearns. Infatti è stato sufficiente che martedì scorso l’agenzia di rating S&P annunciasse che stava analizzando alcune obbligazioni, attraverso le quali sono state impacchettate queste ipoteche che poi sono state vendute al pubblico, per spingere al ribasso la borsa americana e quelle europee e per deprimere il valore del dollaro a tal punto da consentire all’euro di stabilire un nuovo primato storico nei confronti del biglietto verde. Infatti le difficoltà del mercato immobiliare hanno resuscitato il timore di un forte rallentamento dell’economia, che era stato negli ultimi giorni fugato da dati macroeconomici statunitensi migliori delle previsioni. Questa paura si è scaricata sulla borsa, ma soprattutto sul mercato dei cambi, che è diventato il barometro più sensibile alle aspettative sull’economia americana. Infatti una frenata della locomotiva a stelle e strisce comporterebbe una riduzione dei tassi da parte della Federal Reserve e annullerebbe il differenziale dei tassi tra le due sponde dell’Atlantico, che si è già fortemente assottigliato. La mancanza di un premio (ossia di tassi americani più alti) ridurebbe l’afflusso di capitali stranieri negli Stati Uniti, che è però indispensabile per finanziare l’enorme disavanzo commerciale americano. D’altro canto, un forte rallentamento economico ridurrebbe pure l’attrattiva di investire in titoli azionari quotati negli Stati Uniti. Quindi oggi è il tasso di cambio del dollaro il barometro più affidabile delle aspettative dei mercati sulle prospettive degli Stati Uniti. Appare dunque legittimo domandarsi se il nervosismo degli ultimi due giorni è giustificato.
La risposta non è semplice, poiché le grandi banche di investimento stanno facendo di tutto per non chiarire le dimensioni della crisi. Partiamo, dunque, dal mercato immobiliare vero e proprio. È certo che il numero delle insolvenze sta salendo rapidamente e che già oggi oltre 2 milioni di famiglie americane sono alla ricerca di un tetto, poiché le loro case sono state messe all’asta dato che non avevano onorato i loro impegni finanziari. L’importanza di questo fenomeno è confermata da una serie di iniziative presentate al Congresso per alleviarne i problemi. Pare comunque che la crisi si concentri soprattutto in alcuni Stati, in particolare, Ohio, Michigan, California, Nevada e Washington. Queste difficoltà, anche se cominciano ad incidere sui consumi, come ha annunciato il colosso della distribuzione Home Depot, potrebbero essere facilmente assorbite da un’economia delle dimensioni di quella statunitense, se non vi fosse una pericolosa mina vagante che è rappresentata dalle obbligazioni nelle quali sono state impacchettate queste ipoteche, così come i crediti ai fondi di Private Equity, e se non ci fossero tutte le «scommesse» sull’andamento di queste obbligazioni che hanno fatto gli Hedge Funds. In buona sostanza, le difficoltà del mercato immobiliare destano preoccupazione, ma ad inquietare sono soprattutto gli aspetti finanziari. Non è infatti casuale che la paura è tornata proprio quando la S&P ha sostanzialmente preannunciato di voler declassare il rating di 12 miliardi di dollari di obbligazioni legate all’immobiliare. La paura è ulteriormente cresciuta quando un’altra agenzia di rating, la Moody’s, ha ammonito che il crescente indebitamento, e per di più a tassi molto bassi, dei fondi di Private Equity è altamente preoccupante. Infatti questi fondi subito dopo aver scalato una società emettono delle obbligazioni, che addebitano all’azienda acquistata, per finanziare l’acquisizione. Questo modo di procedere riduce sensibilmente la necessità di capitale proprio (di solito è sensibilmente inferiore al 20% del prezzo di acquisto), carica di debito aggiuntivo la società scalata e attraverso lo strano metodo con cui vengono contabilizzate queste operazioni, permette ai gestori di questi fondi di incassare dei lauti dividendi. La perversione del loro modo di ragionare è ben sintetizzata dalla loro linea difensiva. Essi sostengono che una società gravata di debiti produce risultati migliori di una società senza debiti, poiché costringe il management ad una gestione più efficiente delle risorse. L’inno alle virtù dell’indebitamento potrebbe essere esemplificato in questo modo: una famiglia dovrebbe indebitarsi, perché sarebbe più attenta alle sue spese, ad esempio non andrebbe in ferie, comprerebbe generi alimentari più convenienti e via dicendo. E in effetti è quanto - mutatis mutandis - succede a queste aziende che diventano più efficienti non solo perché tagliano gli sprechi, ma perché spesso tagliano anche le spese della ricerca e dello sviluppo, che vengono ritenute inutili da chi, come i fondi di Private Equity, vuole abbellire i bilanci per poi rivendere la società ad un prezzo maggiore nel giro di uno o due anni.
L’aspetto inquietante è dunque quanta carta dal valore dubbio c’è in circolazione nei mercati finanziari. Infatti, anche se in merito non vi sono dati attendili, vi è il timore che siano veramente notevoli le cifre che risulterebbero dalla somma delle obbligazioni attraverso cui sono stati cartolarizzati i crediti ipotecari a rischio, di quelle con cui sono state finanziate le operazioni dei fondi di Private Equity, delle esposizioni degli Hedge Fund, più tutto l’arsenale di derivati sui crediti in circolazione. La maggiore fonte di inquietudine è proprio questo «castello di carta e di carte» costruito dall’industria finanziaria negli ultimi anni grazie alla liquidità abbondante e ai bassi tassi di interesse. Ed è questa anche la ragione della forte volatilità degli umori dei mercati finanziari che, come tutti, si interrogano se questa montagna di carta potrà essere «riciclata» senza eccessivi traumi. E data la natura propria di ogni crisi determinata da un periodo di credito facile, che richiede molto tempo per essere smaltita, la risposta non giungerà presto. Quindi è molto probabile che queste repentine variazioni di umore ci accompagneranno a lungo.
11/07/2007 CdT
Alfonso Tuor
È bastato veramente poco per capire che non sono destinati ad avere un successo duraturo i tentativi di esorcizzare le difficoltà del mercato immobiliare statunitense e la crisi delle ipoteche a maggiore rischio che ha già portato sull’orlo della bancarotta due grandi Hedge Funds della banca di investimento americana Bear Stearns. Infatti è stato sufficiente che martedì scorso l’agenzia di rating S&P annunciasse che stava analizzando alcune obbligazioni, attraverso le quali sono state impacchettate queste ipoteche che poi sono state vendute al pubblico, per spingere al ribasso la borsa americana e quelle europee e per deprimere il valore del dollaro a tal punto da consentire all’euro di stabilire un nuovo primato storico nei confronti del biglietto verde. Infatti le difficoltà del mercato immobiliare hanno resuscitato il timore di un forte rallentamento dell’economia, che era stato negli ultimi giorni fugato da dati macroeconomici statunitensi migliori delle previsioni. Questa paura si è scaricata sulla borsa, ma soprattutto sul mercato dei cambi, che è diventato il barometro più sensibile alle aspettative sull’economia americana. Infatti una frenata della locomotiva a stelle e strisce comporterebbe una riduzione dei tassi da parte della Federal Reserve e annullerebbe il differenziale dei tassi tra le due sponde dell’Atlantico, che si è già fortemente assottigliato. La mancanza di un premio (ossia di tassi americani più alti) ridurebbe l’afflusso di capitali stranieri negli Stati Uniti, che è però indispensabile per finanziare l’enorme disavanzo commerciale americano. D’altro canto, un forte rallentamento economico ridurrebbe pure l’attrattiva di investire in titoli azionari quotati negli Stati Uniti. Quindi oggi è il tasso di cambio del dollaro il barometro più affidabile delle aspettative dei mercati sulle prospettive degli Stati Uniti. Appare dunque legittimo domandarsi se il nervosismo degli ultimi due giorni è giustificato.
La risposta non è semplice, poiché le grandi banche di investimento stanno facendo di tutto per non chiarire le dimensioni della crisi. Partiamo, dunque, dal mercato immobiliare vero e proprio. È certo che il numero delle insolvenze sta salendo rapidamente e che già oggi oltre 2 milioni di famiglie americane sono alla ricerca di un tetto, poiché le loro case sono state messe all’asta dato che non avevano onorato i loro impegni finanziari. L’importanza di questo fenomeno è confermata da una serie di iniziative presentate al Congresso per alleviarne i problemi. Pare comunque che la crisi si concentri soprattutto in alcuni Stati, in particolare, Ohio, Michigan, California, Nevada e Washington. Queste difficoltà, anche se cominciano ad incidere sui consumi, come ha annunciato il colosso della distribuzione Home Depot, potrebbero essere facilmente assorbite da un’economia delle dimensioni di quella statunitense, se non vi fosse una pericolosa mina vagante che è rappresentata dalle obbligazioni nelle quali sono state impacchettate queste ipoteche, così come i crediti ai fondi di Private Equity, e se non ci fossero tutte le «scommesse» sull’andamento di queste obbligazioni che hanno fatto gli Hedge Funds. In buona sostanza, le difficoltà del mercato immobiliare destano preoccupazione, ma ad inquietare sono soprattutto gli aspetti finanziari. Non è infatti casuale che la paura è tornata proprio quando la S&P ha sostanzialmente preannunciato di voler declassare il rating di 12 miliardi di dollari di obbligazioni legate all’immobiliare. La paura è ulteriormente cresciuta quando un’altra agenzia di rating, la Moody’s, ha ammonito che il crescente indebitamento, e per di più a tassi molto bassi, dei fondi di Private Equity è altamente preoccupante. Infatti questi fondi subito dopo aver scalato una società emettono delle obbligazioni, che addebitano all’azienda acquistata, per finanziare l’acquisizione. Questo modo di procedere riduce sensibilmente la necessità di capitale proprio (di solito è sensibilmente inferiore al 20% del prezzo di acquisto), carica di debito aggiuntivo la società scalata e attraverso lo strano metodo con cui vengono contabilizzate queste operazioni, permette ai gestori di questi fondi di incassare dei lauti dividendi. La perversione del loro modo di ragionare è ben sintetizzata dalla loro linea difensiva. Essi sostengono che una società gravata di debiti produce risultati migliori di una società senza debiti, poiché costringe il management ad una gestione più efficiente delle risorse. L’inno alle virtù dell’indebitamento potrebbe essere esemplificato in questo modo: una famiglia dovrebbe indebitarsi, perché sarebbe più attenta alle sue spese, ad esempio non andrebbe in ferie, comprerebbe generi alimentari più convenienti e via dicendo. E in effetti è quanto - mutatis mutandis - succede a queste aziende che diventano più efficienti non solo perché tagliano gli sprechi, ma perché spesso tagliano anche le spese della ricerca e dello sviluppo, che vengono ritenute inutili da chi, come i fondi di Private Equity, vuole abbellire i bilanci per poi rivendere la società ad un prezzo maggiore nel giro di uno o due anni.
L’aspetto inquietante è dunque quanta carta dal valore dubbio c’è in circolazione nei mercati finanziari. Infatti, anche se in merito non vi sono dati attendili, vi è il timore che siano veramente notevoli le cifre che risulterebbero dalla somma delle obbligazioni attraverso cui sono stati cartolarizzati i crediti ipotecari a rischio, di quelle con cui sono state finanziate le operazioni dei fondi di Private Equity, delle esposizioni degli Hedge Fund, più tutto l’arsenale di derivati sui crediti in circolazione. La maggiore fonte di inquietudine è proprio questo «castello di carta e di carte» costruito dall’industria finanziaria negli ultimi anni grazie alla liquidità abbondante e ai bassi tassi di interesse. Ed è questa anche la ragione della forte volatilità degli umori dei mercati finanziari che, come tutti, si interrogano se questa montagna di carta potrà essere «riciclata» senza eccessivi traumi. E data la natura propria di ogni crisi determinata da un periodo di credito facile, che richiede molto tempo per essere smaltita, la risposta non giungerà presto. Quindi è molto probabile che queste repentine variazioni di umore ci accompagneranno a lungo.
11/07/2007 CdT