Tuor - Le banche, il bandolo della matassa

Sharnin 2

Forumer storico
Le banche, il bandolo della matassa
Alfonso Tuor

Anche la nuova amministrazione democratica americana non sta riuscendo a definire una linea coerente per affrontare la crisi economica che oramai ha investito l’intera economia mondiale. La questione irrisolta e apparentemente irrisolvibile rimane la crisi del sistema bancario. Il nodo da sciogliere è cosa fare con gli istituti di credito in stato fallimentare.
Anche il presidente Barack Obama (che ha parlato nel corso della notte davanti alle Camere riunite) ha scelto di non scegliere e di continuare, almeno per il momento, con la politica dei cerotti. Infatti l’amministrazione ha preannunciato di voler salvare Citigroup sull’orlo della bancarotta, convertendo in azioni solo parte delle obbligazioni del colosso bancario già sottoscritte dallo Stato federale in modo che lo Stato federale americano non detenga una partecipazione azionaria superiore al 40%. La stessa via sarà sicuramente seguita anche per affrontare la crisi di Bank of America.
Barack Obama appare riluttante a nazionalizzare le banche, anche se queste sopravvivono solo grazie alle iniezioni di capitali e alle garanzie dello Stato federale. Questa realtà ha spinto personalità di sicuro stampo conservatore come l’ex presidente della Fed, Alan Greenspan, e il senatore repubblicano Graham ad invocarne una chiara e completa nazionalizzazione. La riluttanza dell’amministrazione non sembra dunque dovuta tanto a ragioni politiche, ma alla consapevolezza che la loro nazionalizzazione non equivarrebbe alla fine degli esborsi di denaro pubblico (lo Stato dovrebbe coprire le perdite e ricapitalizzarle perché riprendano a svolgere la loro funzione). Questa scelta creerebbe inoltre nuovi problemi: le banche nazionalizzate, che sono oggi le più malate, attirerebbero più clienti e si finanzierebbero sul mercato più facilmente delle banche più sane. L’amministrazione sembra essersi dunque cacciata in un vicolo cieco: comincerà questa settimana a sottoporre ad uno stress test le banche con una somma di bilancio superiore ai 100 miliardi di dollari, ma non sa bene cosa fare degli istituti che non supereranno questo esame.
Le incertezze americane sono comprensibili: il buco nascosto nei bilanci delle banche è colossale e una loro nazionalizzazione lo trasferirebbe automaticamente sulle spalle dei contribuenti. Per avere un’idea delle dimensioni di questo buco, basta menzionare che le attività tossiche detenute dalle banche europee ammontano a 18.000 miliardi di euro, secondo un’inchiesta dell’Unione Europea. È facile presumere che le dimensioni dei titoli tossici delle banche americane sia di entità simile se non superiore. Pur ammettendo che solo una percentuale di queste somme si traduca in una perdita reale, si ha comunque a che fare con cifre da capogiro che confermano, da un canto, lo stato fallimentare del sistema delle grandi banche internazionali e, dall’altro, il pericolo per i contribuenti di un trasferimento di queste perdite agli Stati.
Risolvere questo nodo gordiano è comunque la premessa indispensabile per poter affrontare la crisi. Ciò vale sia per gli Stati Uniti sia per l’Europa. Infatti la crisi finanziaria si è già trasformata in una crisi dell’economia reale a causa del marasma dei mercati finanziari e continua ad aggravarsi per il fatto che gli istituti di credito non svolgono più la loro funzione di elargire crediti a famiglie ed imprese. L’ultimo segnale d’allarme è stato lanciato lunedì scorso dalla Banca centrale europea che ha comunicato di aver constatato una flessione dell’offerta di credito in Eurolandia. Nonostante i ripetuti ed ingenti interventi statali, è incontestabile che nulla è migliorato. Basti ricordare che nei soli Stati Uniti sono già stati spesi 8.000 miliardi di dollari tra iniezioni di capitale, garanzie statali e via dicendo. Anche in Europa si sono usati miliardi e miliardi per salvare le banche senza raggiungere alcun risultato di rilievo.
Questa politica dei cerotti non risolve nulla, anche perché la recessione è destinata a far lievitare le «attività tossiche» delle banche. È invece indispensabile concentrarsi sull’economia reale e scongiurare il pericolo che l’attuale recessione si trasformi in una depressione. Per perseguire questo obiettivo, bisogna sciogliere dapprima il nodo delle banche, che è nel contempo economico e politico.
In proposito bisogna sottolineare che alcuni passi nella giusta direzione si cominciano ad intravvedere. Le invocazioni di Greenspan, di Graham e di altri ad una nazionalizzazione delle banche costituisce un importante progresso: è un plateale riconoscimento dello stato fallimentare dei principali istituti di credito, anche se la soluzione proposta non è condivisibile, poiché trasferirebbe allo Stato le loro perdite. In una direzione ancora più appropriata sembra muoversi il «Wall Street Journal» che ha recentemente cominciato ad ospitare contributi che propugnano la soluzione delle «good bank» (tra questi anche il finanziere americano Georges Soros). L’ultimo in ordine di tempo è quello di Willem H. Buiter, professore alla London School of Economics, il quale suggerisce di individuare alcune banche importanti per il sistema economico, che dovrebbero essere sostenute dallo Stato, e di lasciar fallire le altre. Queste tesi sono per il momento ancora isolate, ma l’entità dei buchi nascosti nei bilanci bancari e gli enormi rischi economici di un loro trasferimento allo Stato sono destinate a farle diventare sempre più numerose e soprattutto ascoltate. Si può, anzi, ipotizzare che gli attuali tentennamenti del presidente americano Barack Obama siano tesi a guadagnar tempo in modo da creare consenso politico attorno a misure drastiche per risolvere la crisi bancaria.

25.02.09 07:37:26
 

Users who are viewing this thread

Back
Alto