Tuor - Occorre aggredire le cause della crisi

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Occorre aggredire le cause della crisi
Alfonso Tuor

La Federal Reserve americana ha deciso di lasciare invariati i tassi d’interesse, mantenendo il tasso sui Fed Funds all’interno di una forchetta compresa fra lo zero e lo 0,25 per cento. La Banca centrale americana riacquisterà sul mercato titoli di Stato, passando così a stampare carta moneta per favorire la ripresa del credito. Nel comunicato la Federal Reserve annuncia di essere pronta ad acquistare titoli di Stato se lo riterrà necessario, in modo da riavviare il credito aiutando l’economia.
Mentre la Federal Reserve preannuncia nuove misure di sostegno ai mercati finanziari, a Davos ci si interroga se le centinaia di miliardi investiti da governi e banche centrali per salvare il sistema bancario e per stimolare la crescita siano sufficienti per evitare una nuova Grande Depressione. L’aspetto sorprendente è che vi è un consenso pressoché unanime sull’approccio seguito dai diversi Paesi per affrontare questa crisi. Tutti sostengono che l’obiettivo primario, una specie di precondizione, deve essere il risanamento del sistema bancario, affinché riprenda a svolgere il suo compito di trasmettere all’economia reale gli impulsi di politica monetaria. Si sostiene implicitamente che i pacchetti di rilancio dell’economia varati dai Governi dei diversi Paesi espliciteranno appieno i loro effetti solo quando le banche saranno sane e quindi riprenderanno a concedere crediti alle aziende e alle famiglie. In pratica si uscirà dalla crisi quando i consumatori americani ed europei ricominceranno a spendere alla grande e spingeranno le imprese a riprendere ad investire. Apparentemente questo ragionamento non fa una grinza, ma le terapie che si basano su questa analisi non funzionano, poiché presentano un difetto sostanziale: non tengono conto delle cause di questa crisi.
Anzi, la crisi si è ulteriormente aggravata. Le banche sono sull’orlo della bancarotta, nonostante le migliaia di miliardi di aiuti diretti ed indiretti ottenuti da Governi e banche centrali, e l’economia mondiale sta sprofondando in una recessione sempre più severa. Il nuovo consenso creatosi a livello internazionale fa prevedere comunque che si insisterà con queste politiche, che potranno produrre al massimo un sollievo temporaneo, fino a quando si incrinerà la fiducia nei titoli di Stato e nel valore delle monete. Queste terapie non funzionano poiché non affrontano le cause della crisi. L’attuale marasma è dovuto allo scoppio di un’enorme bolla del credito alimentata e fatta crescere esponenzialmente dal sistema bancario attraverso gli strumenti della nuova ingegneria finanziaria. Questa bolla si è prodotta un po’ ovunque, ma ha avuto la sua massima espansione negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Basti ricordare che alla fine dell’anno scorso l’indebitamento degli enti pubblici, di famiglie, imprese e sistema finanziario americano ha raggiunto il 358% del PIL statunitense. Il debito presenta un difetto insormontabile: dura nel tempo. Una persona può perdere il lavoro, ma non il debito ipotecario sottoscritto per acquistare una casa, quello per comprare un’automobile o ancora quello accumulato con le carte di credito. Ciò vale ancor più per le banche, che negli scorsi anni hanno favorito il boom creditizio, impacchettandolo in titoli poi venduti sul mercato e poi creando sugli stessi innumerevoli prodotti finanziari, con il risultato di aumentare esponenzialmente le loro posizioni a rischio. Dunque, una banca non solo è oberata dalle perdite che deve denunciare per i titoli tossici, che ancora detiene in bilancio, ma deve fare anche i conti con il crescente rischio di una serie di strumenti finanziari in portafoglio (derivati, prodotti strutturati, ecc.), con le crescenti sofferenze sulle centinaia di miliardi prestati ai fondi Private Equity e agli Hedge Funds (che ora sono in uno stato di agonia) e con il continuo incremento delle sofferenze determinato dalla crescente impossibilità di famiglie e di imprese di onorare i propri debiti. In queste condizioni la ricapitalizzazione o le altre forme di aiuto alle banche diventano un pozzo senza fondo: è un graduale trasferimento delle perdite agli Stati che serve solo per evitare la bancarotta, ma non è assolutamente sufficiente per risanare gli istituti di credito, farli ritornare a generare utili e quindi riprendere a concedere crediti. Anzi, è certo che gli stratosferici utili delle banche degli ultimi anni erano il sintomo della malattia che ora sta sconquassando l’economia mondiale. Quegli utili non sono più ripetibili e addirittura le banche non saranno più redditizie se non cambieranno radicalmente le loro attività. Le politiche attuali non tengono conto di questa realtà ed insistono a cercare di perseguire l’obiettivo di risanare il sistema bancario, un «buco nero» che rischia di risucchiare tutto e tutti. A tale scopo si stanno studiando diverse opzioni: la creazione di «banche spazzatura» (bad banks), l’assicurazione statale del valore dei titoli tossici e anche la nazionalizzazione degli istituti di credito. Il secondo obiettivo, sebbene perseguito con un impiego di risorse nettamente inferiore, è spingere i consumatori (soprattutto quelli americani) a riprendere a spendere alla grande. Per risolvere il problema del debito vi sono poche strade. Una via, che sembra quella imboccata da Stati Uniti e Gran Bretagna, è un’elevata inflazione. Quest’ultima ha la «virtù» di erodere il valore reale del debito e di ridurlo percentualmente rispetto ai salari, che sono indicizzati al costo della vita, e agli utili delle imprese, che crescerebbero con l’inflazione. Una seconda via è quella seguita finora: cercare di tamponare le falle che continuano ad aprirsi a destra e a manca e lasciare il tempo perché banche, famiglie ed imprese riducano i loro debiti. Il rapido aggravarsi della crisi non concede però il tempo necessario perché una strategia del genere produca qualche risultato. Questa via, che implica il graduale trasferimento delle perdite delle banche ai contribuenti dei diversi Paesi, è destinata a fallire poiché la crescita dei debiti pubblici incrinerà la fiducia nei titoli di Stato e nelle monete nazionali. Inoltre, come conferma l’esperienza degli ultimi mesi, queste politiche non riescono nemmeno a frenare il peggioramento della crisi. Una terza via è la cancellazione e/o ristrutturazione del debito. Ciò può avvenire con la scelta dei Governi di salvare la parte buona delle banche e di lasciar fallire quella già giudicata dal mercato irrecuperabile. Si tratta in pratica di lasciare cancellare al mercato il valore delle migliaia di miliardi di prodotti finanziari e di creare delle «good bank» che riprendano a concedere crediti alle imprese e alle famiglie. Un’idea oggi sorprendentemente sostenuta perfino da finanzieri come George Soros, che fino a pochi giorni fa teorizzavano la nazionalizzazione delle banche in difficoltà. Solo ricostruendo in tal modo il sistema bancario si può sperare di rilanciare l’economia ed evitare che la crisi finisca per travolgere tutto e tutti incrinando la fiducia nei titoli con cui gli Stati si finanziano e nelle monete nazionali.

29.01.09 08:11:09
 

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