Sharnin 2
Forumer storico
Scelte politiche non all'altezza
Crisi: manca il coraggio per decisioni dolorose
4 giu 2010
di ALFONSO TUOR
I problemi messi in luce dalla crisi finanziaria sono ancora irrisolti. Nel frattempo le politiche monetarie e fiscali attuate per evitare una nuova Grande Depressione hanno creato nuovi focolai di crisi. Insomma, finora si è riusciti solo a guadagnare un po’ di tempo e appare ogni giorno più evidente che «il Re è nudo».
La causa prima della crisi, come abbiamo sempre sostenuto, è l’accumulazione nei Paesi occidentali di un’enorme quantità di debito privato e pubblico, resa insostenibile dalla nuova ingegneria finanziaria che ha moltiplicato il pericolo delle insolvenze, creando una vasta gamma di strumenti attraverso i quali questi debiti venivano impacchettati, e costruendo una serie di scommesse finanziarie di nessuna o scarsa utilità per l’economia reale, ma di grande redditività per banche di investimento, Hedge Fund ecc.
In parole povere, l’insolvenza della famiglia americana di modeste condizioni che aveva acceso un mutuo ipotecario, i famosi mutui subprime, non si è quindi limitata alla tradizionale perdita, data dalla differenza tra l’entità del prestito bancario e il prezzo ottenuto attraverso la vendita all’asta dell’oggetto ipotecato, ma si è tradotta in una profonda destabilizzazione dei mercati finanziari. Questi strumenti vanno dai Mortgage Backed Securities (MBS), in cui queste ipoteche erano state impacchettate, a tutti quegli strumenti (CDO, CDS, Swap ecc.) che erano stati utilizzati per moltiplicare le scommesse finanziarie sempre sulle stesse ipoteche.
Per questi motivi, anche se è corretto sostenere che la crisi è stata originata da un eccessivo indebitamento pubblico e privato, è tuttavia indispensabile completare questa affermazione aggiungendo che questi debiti si sono accumulati a causa delle politiche liberiste auspicate dal settore finanziario e sono divenuti dirompenti per il sistema a causa degli strumenti della nuova ingegneria finanziaria. Questa precisazione è necessaria, poiché è in corso un subdolo tentativo da parte dell’industria finanziaria di riscrivere le cause della crisi addebitandola a famiglie e Governi e facendo apparire banche d’investimento ed Hedge Fund incolpevoli spettatori.
Non si deve permettere questo nuovo inganno, anche perché è funzionale alla legittimazione di progetti di riforma del settore finanziario che non incidono sui meccanismi che hanno originato la crisi. E ciò vale per la riforma finanziaria che sta mettendo a punto il Congresso degli Stati Uniti. Come ha scritto l’economista americano Nouriel Roubini: «La maggioranza delle proposte in discussione è irrilevante o inadeguata. Le grandi istituzioni finanziarie devono essere smembrate, poiché sono troppo grandi, troppo interconnesse e troppo complesse. Bisogna ritornare al Glass-Steagal Act (ossia la separazione tra banche commerciali, assicurazioni e banche di investimento) per il bene dell’economia».
Nulla di tutto ciò si prospetta all’orizzonte, anche se le idee di Nouriel Roubini coincidono con quelle di esponenti di primo piano dell’amministrazione Obama, come l’ex presidente della Fed Paul Volcker, e autorevoli esponenti del Senato americano, come John McCain. Il potere di Wall Street è ancora troppo forte per avere un settore finanziario non autoreferenziale, ma utile all’economia reale, ossia ad imprese e famiglie. E ciò ovviamente non vale solo per gli Stati Uniti, ma anche per l’Europa dove ai proclami politici iniziali è succeduta l’inazione. E anche in Svizzera, dove ieri il Consiglio degli Stati ha frenato sul problema degli istituti finanziari troppo grandi per fallire.
Non si deve permettere questa mistificazione anche perché il settore finanziario è quello che sta beneficiando dei maggiori aiuti pubblici che vanno dalle garanzie implicite ed esplicite fornite dagli Stati contro l’eventuale fallimento di un istituto bancario alla politica dei tassi di interesse di poco superiori allo zero, di cui i principali beneficiari sono le banche; dal trasferimento di enormi quantità di insolvenze ai Governi fino al cambiamento delle regole contabili che consentono di continuare ad iscrivere a bilancio i titoli tossici al prezzo di acquisto ed ora in Europa anche le obbligazioni con cui si finanziano gli Stati. Il trasferimento all’erario pubblico di questi buchi bancari, i costi della crisi (minor gettito fiscale, maggiori spese sociali) e i pacchetti di rilancio dell’economia hanno contribuito a far esplodere deficit e debiti pubblici che erano già troppo elevati ed in alcuni Paesi, come la Grecia, addirittura insostenibili.
La crisi fiscale degli Stati non riguarda unicamente i Paesi che hanno aderito all’Unione monetaria europea ed hanno quindi adottato l’euro, ma riguarda anche Gran Bretagna e Stati Uniti. E proprio mercoledì scorso l’amministrazione Obama ha annunciato che il debito pubblico americano ha sfondato quota 13 mila miliardi di dollari e che dunque ha raggiunto l’88% del PIL statunitense. Si tratta di un livello di indebitamento pubblico superiore a quello della Spagna (che attualmente si aggira attorno al 70%), ossia di un Paese di Eurolandia ritenuto oggi a rischio. Ma la situazione americana è ancora peggiore. Stando al Fondo monetario internazionale, il debito pubblico americano raggiungerà quest’anno il 92,6% del PIL. Ma questo dato non rappresenta la realtà: se nel debito pubblico americano venissero inclusi anche i debiti dei singoli stati americani, delle agenzie statali Fannie Mae e Freddie Mac e i debiti di altre agenzie statali, ci si accorgerebbe che il debito pubblico americano ammonta al 110% del PIL. È quindi comprensibile il timore dell’amministrazione Obama che la crisi dell’euro possa intaccare anche la credibilità del debito pubblico americano, tanto più che quest’ultimo si deve sommare a un notevole indebitamento privato e alla necessità di farsi finanziare dall’estero ed in primo luogo dalla Cina.
In conclusione la crisi è ancora solo alle battute iniziali. Le politiche varate dopo il fallimento della Lehman Brothers stanno mostrando la corda. La crisi greca e quella dell’euro hanno fatto sì che in Europa le politiche fiscali da espansive si stiano rapidamente trasformando in politiche restrittive. Ciò sta avvenendo anche in Gran Bretagna e per motivi diversi in alcuni Paesi emergenti. La crisi dell’euro ha inoltre fatto ricordare che la crisi del sistema bancario non è affatto risolta. In proposito basta usare le recenti previsioni della Banca centrale europea, secondo cui gli istituti di credito di Eurolandia devono ancora denunciare almeno 195 miliardi di euro di perdite. La crisi non è affatto finita e rischia di durare più a lungo, poiché non vi è il coraggio politico sostenuto da un consenso dell’opinione pubblica per prendere quelle decisioni dolorose che ne potrebbero accorciare i tempi.
Crisi: manca il coraggio per decisioni dolorose
4 giu 2010
di ALFONSO TUOR
I problemi messi in luce dalla crisi finanziaria sono ancora irrisolti. Nel frattempo le politiche monetarie e fiscali attuate per evitare una nuova Grande Depressione hanno creato nuovi focolai di crisi. Insomma, finora si è riusciti solo a guadagnare un po’ di tempo e appare ogni giorno più evidente che «il Re è nudo».
La causa prima della crisi, come abbiamo sempre sostenuto, è l’accumulazione nei Paesi occidentali di un’enorme quantità di debito privato e pubblico, resa insostenibile dalla nuova ingegneria finanziaria che ha moltiplicato il pericolo delle insolvenze, creando una vasta gamma di strumenti attraverso i quali questi debiti venivano impacchettati, e costruendo una serie di scommesse finanziarie di nessuna o scarsa utilità per l’economia reale, ma di grande redditività per banche di investimento, Hedge Fund ecc.
In parole povere, l’insolvenza della famiglia americana di modeste condizioni che aveva acceso un mutuo ipotecario, i famosi mutui subprime, non si è quindi limitata alla tradizionale perdita, data dalla differenza tra l’entità del prestito bancario e il prezzo ottenuto attraverso la vendita all’asta dell’oggetto ipotecato, ma si è tradotta in una profonda destabilizzazione dei mercati finanziari. Questi strumenti vanno dai Mortgage Backed Securities (MBS), in cui queste ipoteche erano state impacchettate, a tutti quegli strumenti (CDO, CDS, Swap ecc.) che erano stati utilizzati per moltiplicare le scommesse finanziarie sempre sulle stesse ipoteche.
Per questi motivi, anche se è corretto sostenere che la crisi è stata originata da un eccessivo indebitamento pubblico e privato, è tuttavia indispensabile completare questa affermazione aggiungendo che questi debiti si sono accumulati a causa delle politiche liberiste auspicate dal settore finanziario e sono divenuti dirompenti per il sistema a causa degli strumenti della nuova ingegneria finanziaria. Questa precisazione è necessaria, poiché è in corso un subdolo tentativo da parte dell’industria finanziaria di riscrivere le cause della crisi addebitandola a famiglie e Governi e facendo apparire banche d’investimento ed Hedge Fund incolpevoli spettatori.
Non si deve permettere questo nuovo inganno, anche perché è funzionale alla legittimazione di progetti di riforma del settore finanziario che non incidono sui meccanismi che hanno originato la crisi. E ciò vale per la riforma finanziaria che sta mettendo a punto il Congresso degli Stati Uniti. Come ha scritto l’economista americano Nouriel Roubini: «La maggioranza delle proposte in discussione è irrilevante o inadeguata. Le grandi istituzioni finanziarie devono essere smembrate, poiché sono troppo grandi, troppo interconnesse e troppo complesse. Bisogna ritornare al Glass-Steagal Act (ossia la separazione tra banche commerciali, assicurazioni e banche di investimento) per il bene dell’economia».
Nulla di tutto ciò si prospetta all’orizzonte, anche se le idee di Nouriel Roubini coincidono con quelle di esponenti di primo piano dell’amministrazione Obama, come l’ex presidente della Fed Paul Volcker, e autorevoli esponenti del Senato americano, come John McCain. Il potere di Wall Street è ancora troppo forte per avere un settore finanziario non autoreferenziale, ma utile all’economia reale, ossia ad imprese e famiglie. E ciò ovviamente non vale solo per gli Stati Uniti, ma anche per l’Europa dove ai proclami politici iniziali è succeduta l’inazione. E anche in Svizzera, dove ieri il Consiglio degli Stati ha frenato sul problema degli istituti finanziari troppo grandi per fallire.
Non si deve permettere questa mistificazione anche perché il settore finanziario è quello che sta beneficiando dei maggiori aiuti pubblici che vanno dalle garanzie implicite ed esplicite fornite dagli Stati contro l’eventuale fallimento di un istituto bancario alla politica dei tassi di interesse di poco superiori allo zero, di cui i principali beneficiari sono le banche; dal trasferimento di enormi quantità di insolvenze ai Governi fino al cambiamento delle regole contabili che consentono di continuare ad iscrivere a bilancio i titoli tossici al prezzo di acquisto ed ora in Europa anche le obbligazioni con cui si finanziano gli Stati. Il trasferimento all’erario pubblico di questi buchi bancari, i costi della crisi (minor gettito fiscale, maggiori spese sociali) e i pacchetti di rilancio dell’economia hanno contribuito a far esplodere deficit e debiti pubblici che erano già troppo elevati ed in alcuni Paesi, come la Grecia, addirittura insostenibili.
La crisi fiscale degli Stati non riguarda unicamente i Paesi che hanno aderito all’Unione monetaria europea ed hanno quindi adottato l’euro, ma riguarda anche Gran Bretagna e Stati Uniti. E proprio mercoledì scorso l’amministrazione Obama ha annunciato che il debito pubblico americano ha sfondato quota 13 mila miliardi di dollari e che dunque ha raggiunto l’88% del PIL statunitense. Si tratta di un livello di indebitamento pubblico superiore a quello della Spagna (che attualmente si aggira attorno al 70%), ossia di un Paese di Eurolandia ritenuto oggi a rischio. Ma la situazione americana è ancora peggiore. Stando al Fondo monetario internazionale, il debito pubblico americano raggiungerà quest’anno il 92,6% del PIL. Ma questo dato non rappresenta la realtà: se nel debito pubblico americano venissero inclusi anche i debiti dei singoli stati americani, delle agenzie statali Fannie Mae e Freddie Mac e i debiti di altre agenzie statali, ci si accorgerebbe che il debito pubblico americano ammonta al 110% del PIL. È quindi comprensibile il timore dell’amministrazione Obama che la crisi dell’euro possa intaccare anche la credibilità del debito pubblico americano, tanto più che quest’ultimo si deve sommare a un notevole indebitamento privato e alla necessità di farsi finanziare dall’estero ed in primo luogo dalla Cina.
In conclusione la crisi è ancora solo alle battute iniziali. Le politiche varate dopo il fallimento della Lehman Brothers stanno mostrando la corda. La crisi greca e quella dell’euro hanno fatto sì che in Europa le politiche fiscali da espansive si stiano rapidamente trasformando in politiche restrittive. Ciò sta avvenendo anche in Gran Bretagna e per motivi diversi in alcuni Paesi emergenti. La crisi dell’euro ha inoltre fatto ricordare che la crisi del sistema bancario non è affatto risolta. In proposito basta usare le recenti previsioni della Banca centrale europea, secondo cui gli istituti di credito di Eurolandia devono ancora denunciare almeno 195 miliardi di euro di perdite. La crisi non è affatto finita e rischia di durare più a lungo, poiché non vi è il coraggio politico sostenuto da un consenso dell’opinione pubblica per prendere quelle decisioni dolorose che ne potrebbero accorciare i tempi.