Scarlett, adorabile piccolo genio di Beppe Severgnini
Una giornata particolare con la donna più desiderata
Tra i vigneti nel nordest della Francia, parlando di Obama, sex appeal, mito di Marilyn e impegno sociale
Una giornata particolare con la donna più desiderata
Scarlett, adorabile piccolo genio
Tra i vigneti nel nordest della Francia, parlando di Obama, sex appeal, mito di Marilyn e impegno sociale
La biondina aspetta sul divano nel castello, le gambe raccolte sotto la gonna a fiori. Le chiedo: possiamo metterci vicino alla finestra? L’iPhone è scarico, e mi serve per registrare: ho bisogno di una presa di corrente. Mi guarda e capisco, con la rassegnazione degli imputati e degli innamorati, che il destino si deciderà nei prossimi cinque secondi. Lei sorride, si alza, si sposta. «Cosa faremmo senza i vecchi, buoni iPhone?», dice.
A quel punto, praticamente, è fatta. Una star di Hollywood pianta grane per molto meno. Ma Scarlett Johansson, classe 1984, sembra di buon umore. L’ho studiata da lontano, nel pomeriggio, mentre inaugurava la vendemmia nei vigneti di Moët & Chandon, fuori Epernay. Una fatina con le forbici, accucciata tra i filari, nel sole dello Champagne. Intorno, uomini a grappoli. Una collega che in passato l’ha incontrata mi aveva avvertito: «Occhio, la ragazzina è simpatica come una cicca nei capelli». Non sembra. SJ è allegra e carina: più carina che in fotografia, ed è tutto dire. Dopo aver letto interviste imbarazzanti – colleghi maschi, stavolta – nelle quali la domanda più difficile era «Scusi, lei è divina?», mi ero ripromesso: l’avrei ascoltata come si ascolta un sessantenne sovrappeso, sudato e coi baffi.
Una giornata con Scarlett
Ricorda la sua prima intervista?
«Sì, mi pare fosse per L’uomo che sussurrava ai cavalli, avrò avuto dodici o tredicianni. Sarebbe bizzarro leggerla adesso».
Da allora ha preso una serie di decisioni giuste: o almeno così fa pensare il suo successo. Chi decide con lei?
«Quando ero più giovane, e vivevo a casa, mia madre diceva: fai quello che ti senti di fare. Mai fatto qualcosa controvoglia. Ho scelto progetti che pensavo fossero cool, dove mi vedevo. Ho sempre odiato quei film trendy per teenager. Sembrava che tutti i film che mi offrivano fossero un casino sanguinario. Li odio. Così ho fatto The man who wasn’t there (L’uomo che non c’era) coi fratelli Coen o Lost in Translation. Film che rispondevano al mio gusto estetico, immagino».
Ho letto che Robert Redford ha detto di lei, ai tempi: «She’s thirteen going thirty», ha tredici anni, quasi trenta. Pensa di essere più matura della sua età?
«Sono cresciuta a New York e sono stata esposta a molto. Sono cresciuta con gli adulti. Ho passato mesi di fila lavorando in un mondo di grandi. Non so, certe volte mi sento molto parte della mia generazione. Altre volte mi sembra di vivere nell’epoca sbagliata. Mi viene nostalgia per un periodo che non ho vissuto».
Uno in particolare?
«Mah, probabilmente gli anni Quaranta e Cinquanta, l’età d’oro di Hollywood. Non so, ha l’aria di essere stato un periodo eccitante ».
Certo che se viene fuori con queste cose, poi ci credo che dicono «Scarlett pensa di essere la nuova Marilyn!».
«Be’, Marilyn Monroe era un’attrice comica (comedian) sottovalutata. Ma chi mi paragona a lei vede soprattutto il collegamento estetico: siamo tutt’e due bionde, pettorute e non so cosa. Per un po’ di tempo è andata di moda questa bellezza androgina, e noi siamo diverse. Sì, forse la gente si lascia confondere da quest’aspetto esteriore, il sex appeal e tutto il resto... Mi piacerebbe che ci fosse una somiglianza anche tra i due stili di recitazione, ma no... non credo. Comunque è dura avere la giusta prospettiva su se stessi, diciamolo».
Le attrici sono più popolari tra i maschi e gli attori tra le femmine: ovvio. Nel suo caso, Scarlett, gli uomini mi sembrano decisamente entusiasti, le donne molto meno. Insomma: il successo tra il pubblico maschile le costa un po’ di pubblico femminile?
«Ho interpretato spesso la parte dell’“altra donna” e penso che questo sia difficile da mandar giù. Ma ho anche interpretato donne forti e indipendenti. Mai una donna rassegnata e scialba».
Mi è capitato di parlare di lei con amici e amiche, con mia moglie. La mia tesi: Scarlett piace perché non incute soggezione. In un supermercato americano o in una piazza in Scandinavia si possono trovare ragazze che le somigliano. Alcune sue colleghe – penso ad Angelina Jolie – sono irreali, sembrano disegnate.
«Mettiamola così: essere attraenti è mistero, allure, fiducia in se stessi. Non è solo una questione di attributi fisici. Certo, c’è anche quello, labbra piene, grandi occhi eccetera. Ma per me sex appeal è quello che emetti, come ti muovi, come ti poni. Ecco: questo è sensuale. Fredda, arrogante, fin troppo sicura di sé? Be’, io non sono così».
No, direi di no.
«Grazie».
Prego. “Lost in Translation” è uno dei miei film preferiti. Forse perché ho passato molto tempo negli alberghi, stanco dal viaggio e suonato dal jet-lag – anche se ragazze come lei, negli ascensori, sono quasi certo di non averne incrociate. È incredibile come Sofia Coppola, la regista, sia riuscita tirare fuori un gioiellino da un hotel – di fatto il film è tutto lì. Sorpresa dal successo nel tempo? Aveva diciassette anni, quando lo ha girato, diciannove quand’è uscito. Per lei è stato il punto di svolta.
«Certo: è stato il punto di svolta. Quando ho firmato ho pensato: nessuno lo andrà a vedere. Non che non credessi nel progetto, ma la sceneggiatura era così breve, solo 76 pagine. Così nessuno sapeva cosa sarebbe saltato fuori. Molto di quel film è atmosfera – non succede niente. Sono le luci, la musica, le inquadrature...».
Mi tolga una curiosità: il personaggio di Bill Murray era innamorato di lei? Non l’ho mai capito.
«Lo sarebbe stato, se fosse stato un po’ più giovane, o se lei fosse stata un po’ più vecchia. Era un amore platonico. Penso che lei gli abbia mostrato qualcosa, e lui l’abbia guidata, in qualche modo. Lui si illumina, quando è con lei. E lei pure, quando è con lui. Grazie a questo incontro riesce a transitare verso una nuova fase della sua vita».
Contenta per la vittoria di Sofia Coppola a Venezia con “Somewhere”?
«Molto. È bello vedere una regista – una donna – che vince».
Ho intervistato Woody Allen, due anni fa, quand’è uscito “Vicky Cristina Barcelona”. Una lunga intervista, l’ho trovato un po’ stanco. L’ho visto accendersi solo due volte. Quando ha parlato di lei, Scarlett («È bellissima! È sexy in un modo tutto suo, l’obiettivo la adora!»); e quando gli ho chiesto di George W. Bush, che gli piaceva molto meno. A lei chiedo del successore, Barack Obama. L’ha sostenuto con entusiasmo, prima che fosse eletto. Mai pensato che questo potesse danneggiarla professionalmente? Qualcuno dei suoi fan repubblicani magari non gradiva.
«E perché non avrei dovuto farlo? Essere un cittadino responsabile vuol dire anche essere politicamente attivi. Non penso e non calcolo se questo potrebbe danneggiare la mia carriera. Guardi Sean Penn: non mi sembra si faccia problemi a esprimere il suo parere. È un incredibile attore ed è politicamente esplicito: una cosa non ha niente a che fare con l’altra. Se non sono d’accordo con le idee politiche di un collega, ma è bravo, vado comunque a vedere i suoi film. Io sono sotto i riflettori: se c’è una causa o un movimento in cui credo – e questo è esattamente ciò che ho sentito nelle elezioni 2008, un movimento – tento di aiutare. Semplice».
Propaganda?
«Mica monto su una scatola e dico alla gente per chi votare. Dico: io appoggio questa persona, ecco perché».
Un po’ delusa da Obama, due anni dopo? O ha ancora speranze?
«Non delusa. Ancora piena di speranze. Delusa invece dalle divisioni della politica americana, dalla polarizzazione della nostra società...».
Venga a vedere in Italia...
«...la faziosità dei media è ripugnante, davvero. Veramente difficile da mandar giù. Speravo, come altri supporters (di Obama, ndr), che questo sarebbe cambiato. Ma non è cambiato. Probabilmente ci sono interessi economici, dietro i media, e spingono il Paese in una direzione o in un’altra».
Credo sia anche una questione di mercato. I media hanno rinunciato a essere un contropotere indipendente quando hanno capito che il pubblico vuole leggere, ascoltare e vedere chi gli dà ragione. La gente non vuole dubbi, con la prima colazione: pretende conferme e rassicurazioni. In Italia, in Europa, in America
«Sono d’accordo. Aggiungo questo: il pubblico ama lo status quo. Vuole sentirsi dire che tutto è più o meno ok. Non discute la fonte delle notizie. Ci sono un sacco di informazioni là fuori, su internet. Però devi volerle cercare».
«La gente vuole sentirsi dire che tutto è più o meno ok». Mi piace. Anzi non mi piace. Sulla società occidentale andrebbe appeso un cartello, come sulle porte negli alberghi: DO NOT DISTURB/ NON DISTURBARE.
«È così. La gente lavora tantissimo, in America. Si ammazza di lavoro. Soprattutto in questo clima economico. Non credo che abbia tempo e voglia di pensare alla politica, all’ambiente, alla big picture. Ha bisogno di cose semplici e accessibili, la mente è così preoccupata dalla durezza della vita quotidiana».
So che s’impegna con RED di Bono, Oxfam, USA Harvest. Molti attori si battono per buone cause. Non teme l’inflazione della compassione? O che qualcuno dubiti della vostra sincerità?
«Per fare beneficenza non c’è bisogno di mostrarsi. Per dire alla gente “guardate che questa è una buona organizzazione, ho viaggiato con loro, so che fanno le cose per bene, che hanno bassi costi amministrativi” – be’, occorre esporsi».
Cosa ha sbagliato, in vita sua? Parlo della vita professionale. Del resto non so niente. Sono un disastro come gossip journalist. Ho scoperto settimana scorsa che lei era sposata.
«È buffo perché l’altro giorno ci stavo pensando. Dove sono nella mia carriera, cosa ho fatto e cosa devo fare adesso? L’industria dell’entertainment è nei guai, oggi (ride). L’idea di essere una movie star è sentimentale, ma non muove il box office, se non in pochi casi. Uno deve pensare: “Cosa c’è di creativo e di appagante?”. Non: “Devo arrivare al top! Come fare?”».
Niente gravi errori, quindi.
«Qualcosa è andato bene, qualcosa meglio del previsto, qualcosa è stato un disastro. Ma tutto quello che ho fatto ho voluto farlo. Non c’è niente di cui debba vergognarmi ».
Qual è la cosa che l’ha aiutata di più? Aspetto, carattere, stile, scelte, una persona?
«Avere girato molti film indipendenti, artistici: non per i soldi e non per la notorietà. Perché mi andava. Credo che quando hai un attore così, capace di scelte inattese o differenti, hai voglia di scoprire la prossima cosa che farà».
Quanti film ha fatto, Scarlett?
«Una quarantina».
A venticinque anni.
«Ventisei in novembre».
Dove si vede tra quarant’anni? Driving Miss Daisy, regista e produttrice, nonna con nipotini?
«Qualche volta penso che, quando sarò più anziana, mi piacerebbe vivere a New York e recitare a teatro, e quella sarà la mia vita. Altre volte penso sarò regista o produttrice, roba dietro le quinte. Ma alla fine deciderà il pubblico, se sarà ancora interessato. Se ci sarà l’opportunità e non dovrò fare compromessi col mio gusto – be’, andrò avanti a fare film. Altrimenti, benissimo. Vivrò la mia tranquilla vita di famiglia in una fattoria biologica, chissà. Magari canterò altre canzoni di Tom Waits».
Grazie Scarlett.
«Contento? Tutto registrato? Se no, guardi, può sempre inventarsi tutto».