ognuno la pensa come vuole..... interessante sono i commenti
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Mark Pisoni
Molti in Italia, e non solo, sono ancora convinti che ogni volta che gli Stati Uniti minacciano un’azione militare, il motivo vero sia “il petrolio”. È una lettura superficiale, figlia di un cliché che risale agli anni Settanta, ma che non ha alcun fondamento reale. Anche oggi, di fronte alla
crescente tensione tra Washington e Caracas, molti commentatori (compreso l’ottimo conduttore di Prima pagina della settimana appena conclusasi, Andrea Cangini), parlano di “guerra per il petrolio”, ricordando che il Venezuela possiede le riserve di greggio più grandi del mondo. Ma basta guardare alla storia per capire che questa spiegazione non regge.
Negli ultimi cento anni, gli Stati Uniti non hanno mai fatto una guerra per “prendersi il petrolio”.
Non in Kuwait, dove nel 1991 liberarono un Paese occupato da Saddam Hussein senza appropriarsi di un solo barile. Non in
Iraq, dove dopo la guerra del 2003 le concessioni petrolifere sono andate in gran parte a compagnie cinesi, russe e locali, e non alle multinazionali americane. Né tantomeno
in Libia, dove dopo la caduta di Gheddafi l’instabilità ha distrutto la produzione e gli Stati Uniti non hanno tratto alcun vantaggio economico. Il mito della “guerra per il petrolio” è rimasto nella testa di chi ha bisogno di una spiegazione semplice, ma non corrisponde alla realtà dei fatti.
La verità è che gli Stati Uniti non hanno alcun bisogno del petrolio venezuelano. Oggi sono tra i primi produttori mondiali di energia, e anzi esportano gas e petrolio. Se Trump ordinerà un attacco al Venezuela, non sarà certo per impossessarsi delle sue risorse. Il vero motivo è un altro, e va cercato nella logica che da sempre guida ogni sua decisione: l’interesse personale.
Naturalmente, va detto che Nicolás Maduro è un dittatore brutale, che ha palesemente truccato le ultime elezioni e governa con la repressione e la paura. È riuscito a mantenere il Paese in condizioni di povertà cronica nonostante le più grandi riserve petrolifere del pianeta, in questo ricordando da vicino la Russia di Putin: un sistema cleptocratico in cui una ristretta élite si arricchisce mentre la popolazione sopravvive.
Qualcuno ipotizza che dietro l’attuale mobilitazione militare americana ci sia in realtà un piano della CIA per favorire un colpo di Stato, approfittando del caos generato da un eventuale attacco. Ma personalmente non credo affatto che questo avverrà.
Donald Trump [non è Obama] non agisce mai in base a una strategia di lungo periodo, né in funzione di obiettivi geopolitici coerenti. Agisce solo in funzione di ciò che ritiene utile a sé stesso: vantaggio politico, tornaconto economico personale o gratificazione narcisistica. Tutto il resto è secondario. La politica estera, per lui, non è uno strumento di difesa nazionale ma un palcoscenico personale, su cui mostrare forza e decisione per impressionare il suo elettorato.
L’ammassamento di forze aeronavali americane nel Mar dei Caraibi, con la portaerei USS Gerald R. Ford — la più moderna e potente dell’intera flotta —
e il suo gruppo d’attacco al completo, non risponde a un disegno strategico contro il traffico di droga, come sostiene la Casa Bianca. È una messa in scena. L’idea di combattere i “narcos” del Venezuela è ridicola: il traffico di droga è un fenomeno transnazionale che si sposta semplicemente altrove ogni volta che viene colpito un punto della catena. È successo in
Colombia, dove l’impegno militare americano ha ridotto la produzione di coca solo per farla riapparire in
Bolivia e in Perù. È successo in
Messico, dove la “guerra ai cartelli” ha moltiplicato la violenza senza ridurre il traffico. E succede da sempre in
Afghanistan, dove vent’anni di guerra non hanno fatto sparire l’oppio.
Pensare che un attacco militare contro porti o installazioni venezuelane possa fermare il narcotraffico è un’illusione — e probabilmente Trump lo sa benissimo. Non è quello il punto.
L’obiettivo non è “vincere la guerra alla droga”, ma mettere in scena un atto di forza visibile, spettacolare, a basso costo politico interno. Una “mini-guerra” che dura pochi giorni, fa titoli sui giornali, e permette al presidente di dire di aver “colpito i criminali”.
È il suo schema di sempre: azioni brevi, simboliche, presentate come vittorie personali. Così è stato con i bombardamenti in Siria nel 2018, così con gli omicidi mirati contro presunti “terroristi” in mare, così sarà — molto probabilmente — con Gaza e con il Venezuela.
La politica estera come show.
Non è la geopolitica del petrolio, ma la psicopolitica dell’ego. Trump non combatte guerre per le risorse, combatte guerre per i sondaggi. E ogni mossa, ogni dichiarazione, ogni attacco, serve un solo scopo: consolidare il potere e alimentare la narrativa del leader forte.

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