VENEZUELA

tontolina

Forumer storico

Venezuela, sale la tensione con gli Usa. In arrivo nei Caraibi la portaerei Usa Gerald Ford. Russia: “Possibile invio di missili”​

DI F. Q.
Intanto anche Trinidad e Tobago ha posto il suo apparato militare in "massima allerta" e ha ordinato alle truppe di rientrare nelle caserme, secondo un messaggio diffuso dalle autorità di sicurezza. Alexei Zhuravlev, primo vicepresidente del Comitato di Difesa della Duma russa, ha evocato la possibilità per Mosca di fornire a Caracas missili russi
 
ognuno la pensa come vuole..... interessante sono i commenti

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Mark Pisoni

Molti in Italia, e non solo, sono ancora convinti che ogni volta che gli Stati Uniti minacciano un’azione militare, il motivo vero sia “il petrolio”. È una lettura superficiale, figlia di un cliché che risale agli anni Settanta, ma che non ha alcun fondamento reale. Anche oggi, di fronte alla crescente tensione tra Washington e Caracas, molti commentatori (compreso l’ottimo conduttore di Prima pagina della settimana appena conclusasi, Andrea Cangini), parlano di “guerra per il petrolio”, ricordando che il Venezuela possiede le riserve di greggio più grandi del mondo. Ma basta guardare alla storia per capire che questa spiegazione non regge.
Negli ultimi cento anni, gli Stati Uniti non hanno mai fatto una guerra per “prendersi il petrolio”. Non in Kuwait, dove nel 1991 liberarono un Paese occupato da Saddam Hussein senza appropriarsi di un solo barile. Non in Iraq, dove dopo la guerra del 2003 le concessioni petrolifere sono andate in gran parte a compagnie cinesi, russe e locali, e non alle multinazionali americane. Né tantomeno in Libia, dove dopo la caduta di Gheddafi l’instabilità ha distrutto la produzione e gli Stati Uniti non hanno tratto alcun vantaggio economico. Il mito della “guerra per il petrolio” è rimasto nella testa di chi ha bisogno di una spiegazione semplice, ma non corrisponde alla realtà dei fatti.
La verità è che gli Stati Uniti non hanno alcun bisogno del petrolio venezuelano. Oggi sono tra i primi produttori mondiali di energia, e anzi esportano gas e petrolio. Se Trump ordinerà un attacco al Venezuela, non sarà certo per impossessarsi delle sue risorse. Il vero motivo è un altro, e va cercato nella logica che da sempre guida ogni sua decisione: l’interesse personale.
Naturalmente, va detto che Nicolás Maduro è un dittatore brutale, che ha palesemente truccato le ultime elezioni e governa con la repressione e la paura. È riuscito a mantenere il Paese in condizioni di povertà cronica nonostante le più grandi riserve petrolifere del pianeta, in questo ricordando da vicino la Russia di Putin: un sistema cleptocratico in cui una ristretta élite si arricchisce mentre la popolazione sopravvive. Qualcuno ipotizza che dietro l’attuale mobilitazione militare americana ci sia in realtà un piano della CIA per favorire un colpo di Stato, approfittando del caos generato da un eventuale attacco. Ma personalmente non credo affatto che questo avverrà.
Donald Trump [non è Obama] non agisce mai in base a una strategia di lungo periodo, né in funzione di obiettivi geopolitici coerenti. Agisce solo in funzione di ciò che ritiene utile a sé stesso: vantaggio politico, tornaconto economico personale o gratificazione narcisistica. Tutto il resto è secondario. La politica estera, per lui, non è uno strumento di difesa nazionale ma un palcoscenico personale, su cui mostrare forza e decisione per impressionare il suo elettorato.
L’ammassamento di forze aeronavali americane nel Mar dei Caraibi, con la portaerei USS Gerald R. Ford — la più moderna e potente dell’intera flotta — e il suo gruppo d’attacco al completo, non risponde a un disegno strategico contro il traffico di droga, come sostiene la Casa Bianca. È una messa in scena. L’idea di combattere i “narcos” del Venezuela è ridicola: il traffico di droga è un fenomeno transnazionale che si sposta semplicemente altrove ogni volta che viene colpito un punto della catena. È successo in Colombia, dove l’impegno militare americano ha ridotto la produzione di coca solo per farla riapparire in Bolivia e in Perù. È successo in Messico, dove la “guerra ai cartelli” ha moltiplicato la violenza senza ridurre il traffico. E succede da sempre in Afghanistan, dove vent’anni di guerra non hanno fatto sparire l’oppio.
Pensare che un attacco militare contro porti o installazioni venezuelane possa fermare il narcotraffico è un’illusione — e probabilmente Trump lo sa benissimo. Non è quello il punto. L’obiettivo non è “vincere la guerra alla droga”, ma mettere in scena un atto di forza visibile, spettacolare, a basso costo politico interno. Una “mini-guerra” che dura pochi giorni, fa titoli sui giornali, e permette al presidente di dire di aver “colpito i criminali”.
È il suo schema di sempre: azioni brevi, simboliche, presentate come vittorie personali. Così è stato con i bombardamenti in Siria nel 2018, così con gli omicidi mirati contro presunti “terroristi” in mare, così sarà — molto probabilmente — con Gaza e con il Venezuela. La politica estera come show.
Non è la geopolitica del petrolio, ma la psicopolitica dell’ego. Trump non combatte guerre per le risorse, combatte guerre per i sondaggi. E ogni mossa, ogni dichiarazione, ogni attacco, serve un solo scopo: consolidare il potere e alimentare la narrativa del leader forte.

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Trump prepara l’attacco al Venezuela


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L’antefatto: Biden venditore di petrolio americano.

All’inizio della guerra in Ucraina, Biden cominciò a vendere le riserve strategiche di petrolio.
Se abbiamo contato bene ha venduto circa 180 milioni di barili.
Lo scopo era calmierare l’ipotetico probabile shock di prezzi sul mercato del petrolio e quindi contenere l’inflazione interna.
Trump, ovviamente, ha definito questa scelta irresponsabile dal punto di vista della sicurezza nazionale.
Le riserve strategiche USA, nell’ottobre scorso, ammontavano a 409 milioni di barili, ben sotto la capacità di stoccaggio stimata in 700 milioni di barili.

Guerra al traffico di droga?

Il magistrato Nicola Gratteri, che di droga se ne intende, in una intervista recente TV, ha dichiarato che dal punto di vista del commercio internazionale di droga non è certo il Venezuela il paese più pericoloso: senza escludere, comunque, che detto traffico possa sostenere dal punto di vista economico la dittatura di Maduro.
Da tutto questo, deduco che Trump finge di voler combattere il traffico di droga dal Venezuela e vuole invece mettere mano alle riserve strategiche del paese, rovesciando il regime e sostituendolo con un governo amico degli Stati Uniti, suonando, anche, la fanfara di riportare la democrazia nel paese.
Cosa che può essere anche vera, e lo auguriamo anche al popolo venezuelano: diciamo che i precedenti di tale fanfara (da Bush in poi) non sono stati, nella storia recente, così convincenti quando provenivano dagli Stati Uniti.

Azione militare prossima.

Comunque: dopo avere detto tutto e il contrario di tutto sull’operazione Venezuela, Trump nell’ultima intervista sostiene di avere deciso che cosa fare ma di non poterlo dire.
La presenza della più grande portaerei del mondo, la Gerald Ford, a 50 chilometri dalla costa venezuelana, armata di tutto punto e con la sua flotta ausiliaria di incrociatori al seguito, credo lasci pochi dubbi sul fatto che un qualche intervento militare ci sarà.
Quale sarà la reazione dei mercati all’intervento è difficile dirlo, perché dipenderà soprattutto dalla reazione della Russia, da sempre sostenitrice del governo Maduro e del suo degno criminale predecessore Chavez.
Chavez, da quel genio socialista del XXI secolo che era, fu capace di licenziare in tronco i 26.000 dipendenti dell’azienda statale che produceva petrolio, la risorsa essenziale del paese, paralizzando per anni l’economia nazionale e condannandola ad un rapido sfacelo.
Il 20% della popolazione venezuelana è emigrata (meglio dire scappata dal paese) – qualcosa come 8 milioni di persone – una sorta di esodo biblico passato sotto sostanziale silenzio.
La portata di tale emigrazione ha coinvolto in modo massiccio gli Stati Uniti che sono quindi più che mai interessati a ridimensionare questo flusso umano, paragonabile a quello proveniente dal Messico.

La reazione russa.

Da notizie raccolte in modo confidenziale, non ne abbiamo trovato traccia negli organi di stampa, molti aerei cargo, alcuni giganteschi, sono arrivati nelle basi militari venezuelane negli scorsi giorni: e sulla coda di detti aerei cargo c’era, molto evidente, la bandiera russa.
Difficile pensare che trasportassero noccioline (qualcuno dirà: infatti la Russia non produce noccioline), molto probabilmente trasportavano materiale militare.
Così, a quanto sembra, Usa e Russia potrebbero trovare in Venezuela l’ennesimo modo per farsi la guerra senza coinvolgere i propri territori.

Reazione possibile dei mercati?

Peraltro, riferendoci alle guerre recenti, dopo un impatto emotivo rilevante durato da poche ore a due-tre giorni, i mercati non hanno dimostrato una grande sensibilità alle crisi belliche.
Quello che c’è di diverso, stavolta, è la reputazione di Trump.
Il premio Nobel per la pace è stato assegnato non a lui (ci mancava) ma a Maria Corina Machado, leader dell’opposizione a Maduro, che ha poi chiamato Trump al telefono, dedicandogli il premio.
Trump si è detto sorpreso ed ha apprezzato l’atteggiamento gentile della Machado, pur dicendo di “non conoscerla”.
La Machado è stata minacciata di morte più volte dal governo venezuelano, che ha dato mandato per sequestrarla alcune ore al termine di una manifestazione anti-governativa guidata dalla leader dell’opposizione.
Fu rilasciata su una strada di Caracas, leggermente contusa, dopo un dietro-front improvviso della dittatura, che deve avere valutato troppo pericoloso ucciderla, per l’enorme seguito che ha nel paese.
O, forse, l’obiettivo era solo impaurirla, senza marchiarsi dell’ennesimo omicidio di oppositori, su un personaggio troppo noto.
Non sembra, peraltro, che l’azione abbia raggiunto l’obiettivo e il premio Nobel per la pace conferito alla Machado è certamente un colpo che la dittatura fa fatica a digerire.
Durante la manifestazione, finita con il suo breve rapimento, la Machado, inquadrata dalle telecamere di alcune reti indipendenti che trasmettevano in streaming su Youtube, ha lanciato un bacio ad uno dei cecchini presenti sul tetto di un immobile sopra la piazza dove si svolgeva la manifestazione: un gesto ai limiti dell’incredibile, ma un modo evidente per far capire al mondo intero il clima che c’è all’interno del paese.
E’ evidente che la CIA sta osservando dall’interno la situazione nel paese caraibico ed è presumibile che stia preparando il modo per spianare la strada all’intervento militare USA.
In questo quadro complesso, la reputazione di Trump sull’azione in Venezuela diventa il vero aspetto che potrebbe influenzare i mercati.
L’azione militare infatti è tutt’altro che semplice.


L’incubo.

L’incubo dell’invasione fallita su Cuba del 1962 è ancora vivo nell’anima americana.
Come tutti i paesi oppressi dalle dittature, Cuba ha una sola cosa che funziona: il suo potente servizio segreto, che è il vero alleato sotterraneo di Maduro.
Quell’invasione americana fallita ha lasciato una pericolosa falla nella sicurezza degli Stati Uniti, ponendo Cuba come base strategica filo-russa ed anti-occidentale a due passi dalla Florida.
Nella perfetta incapacità strutturale di Chavez e del suo successore Maduro, i servizi segreti cubani hanno fornito l’intelligence necessaria alla nascita e al consolidamento della dittatura.
Le conseguenze di quell’invasione fallita sono collegabili alla nascita della dittatura venezuelana, avendo fornito, attraverso il servizio segreto di Cuba, il carburante ideologico, operativo e criminale necessario alla dittatura.
Se l’incubo dovesse ripetersi nel Venezuela, la figura di Trump ne uscirebbe distrutta.
Questo potrebbe avere un impatto negativo sui mercati, una crisi di fiducia nella Vecchia America, un clima che certamente non farebbe bene a nessuno.
Conclusioni.
Trump muove guerra al Venezuela per prendersi le riserve petrolifere del paese.
Lo sviluppo del paese, sotto un governo filo-americano, porterebbe ad una nuova stabilità nel corso degli anni, aumentando la ricchezza interna (oggi il salario in Venezuela è di due dollari al mese), dando opportunità di lavoro ed evitando così l’ulteriore flusso migratorio verso gli Stati Uniti.
In ultimo, sì, può esserci anche la guerra al traffico di droga.
Ma quella sta in Colombia.
In Venezuela, sicuramente, ne passa una parte, ma raccontare che l’attacco al Venezuela è motivato dalla guerra al traffico di droga è poco più che una facezia trumpiana per nascondere i veri obiettivi degli USA, che sarebbero considerati più discutibili a livello interno e internazionale.
 

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