PILU
STATE SERENI
DUBAI, LA CRISI
E WOODY ALLEN
DUBAI ha fatto tremare le Borse per un paio di giorni. Poi, tutti di nuovo a comperare, ritenendolo un fatto ininfluente. Invece, è un segnale che la crisi del debito non è risolta e può ancora riservare sorprese; che ristrutturazioni e default continueranno; e che gran parte del problema è stato solo rinviato, sotto forma di un accumulo di debito pubblico mai visto in tempo di pace. Cifre impressionanti: il Fondo Monetario
stima che la crisi porterà il debito del G20 dal 75% del Pil al 120% nel 2014 (era 64% nel 2000). Ma una crisi di debito non si risolve con altro debito. Poco importa che sia pubblico o privato: bisogna smaltirlo nel tempo, aumentando il risparmio.
E se il debito è pubblico, più tasse e meno spese. In ogni caso, i postumi della sbornia sono un prolungato periodo di bassa crescita,
maggiore risparmio e pressione fiscale. Né si può sperare che bastino le economie emergenti, Cina in testa, a trainare l’espansione economica
di un Occidente che ha accumulato la gran parte del debito: non si può risolvere infatti l’eccesso di capacità produttiva di auto in Europa vendendo fabbriche agli indiani; né spostare in Cina i centri commerciali americani in dissesto; né ridurre il debito pubblico greco vendendo l’Acropoli al fondo sovrano di Singapore.
Questo scenario dovrebbe privilegiare le azioni di società capaci di generare stabilmente flussi di cassa. Sta succedendo l’opposto: i titoli più rischiosi e colpiti dalla crisi sono esplosi dai minimi (banche, +145%; costruzioni, +94%; materiali di base, +121%); mentre telefonici,
farmaceutici e servizi di pubblica utilità non sono andati oltre +46%. Più delle prospettive, conta la voglia di profitti rapidi (e bonus a fine anno),
puntando acriticamente su tutto quanto era caduto di più.
Ma non è l’unica incongruenza.
La corsa dei capitali verso i paesi emergenti produce risultati paradossali: in molti posti dell’Asia già si parla di bolla immobiliare, con la
crescita a due cifre dei prezzi delle case; in Brasile i capitali affluiscono massicciamente, nonostante una Borsa così poco liquida che due soli titoli rappresentano un terzo della capitalizzazione del mercato.
E continua la corsa al junk bond: il differenziale di rendimento delle obbligazioni con rating singola B, rispetto ai titoli di stato, si è chiuso di 10
punti percentuali negli Usa, e di 18 in Europa; riportandosi intorno al valore medio degli ultimi 20 anni. Per non parlare
della corsa all’oro.
Sintomi da fame di rendimenti. Creata dalle banche centrali che hanno azzerato i tassi, offerto liquidità senza limiti e acquistato titoli di stato
per calmierarne i rendimenti, allo scopo di far tornare agli investitori l’appetito per il rischio.
Il prezzo da pagare per limitare i costi sociali della crisi.
Ma ora, insistono: la politica monetaria è appropriata; i tempi per un significativo rialzo dei tassi saranno lunghi perché ci vorranno anni per
recuperare la capacità produttiva inutilizzata; non esistono segnali di inflazione o di bolle nei mercati. Un quadro che concilia un regime prolungato di tassi bassi con la montagna del debito pubblico.
Un po’ come in Giappone, che da 10 anni ha il debito pubblico più alto del mondo, ma anche tassi a lunga sotto l’1,5%; possibile solo perché il
costo della vita è diminuito costantemente nel decennio.
Per i profitti, però, un vero incubo: anche contando dividendi e deflazione, la Borsa è sotto del 38% rispetto ai massimi di 20 anni fa. È questo il
dilemma attuale dei mercati:
o ci aspettano anni “giapponesi”,
e allora stiamo sottostimando il rischio azioni e junk bond; oppure prima o poi arriva una crisi del debito pubblico.
Qualche giorno fa, il Financial Times illustrava magistralmente il dilemma, citando il famoso economista Woody Allen: «Mai come oggi
l’umanità è a un bivio. Una strada porta alla disperazione. L’altra all’estinzione.
Speriamo di saper scegliere quella giusta».
IL MERCATO
ALESSANDRO PENATI
ogni commento è superfluo .
E WOODY ALLEN
DUBAI ha fatto tremare le Borse per un paio di giorni. Poi, tutti di nuovo a comperare, ritenendolo un fatto ininfluente. Invece, è un segnale che la crisi del debito non è risolta e può ancora riservare sorprese; che ristrutturazioni e default continueranno; e che gran parte del problema è stato solo rinviato, sotto forma di un accumulo di debito pubblico mai visto in tempo di pace. Cifre impressionanti: il Fondo Monetario
stima che la crisi porterà il debito del G20 dal 75% del Pil al 120% nel 2014 (era 64% nel 2000). Ma una crisi di debito non si risolve con altro debito. Poco importa che sia pubblico o privato: bisogna smaltirlo nel tempo, aumentando il risparmio.
E se il debito è pubblico, più tasse e meno spese. In ogni caso, i postumi della sbornia sono un prolungato periodo di bassa crescita,
maggiore risparmio e pressione fiscale. Né si può sperare che bastino le economie emergenti, Cina in testa, a trainare l’espansione economica
di un Occidente che ha accumulato la gran parte del debito: non si può risolvere infatti l’eccesso di capacità produttiva di auto in Europa vendendo fabbriche agli indiani; né spostare in Cina i centri commerciali americani in dissesto; né ridurre il debito pubblico greco vendendo l’Acropoli al fondo sovrano di Singapore.
Questo scenario dovrebbe privilegiare le azioni di società capaci di generare stabilmente flussi di cassa. Sta succedendo l’opposto: i titoli più rischiosi e colpiti dalla crisi sono esplosi dai minimi (banche, +145%; costruzioni, +94%; materiali di base, +121%); mentre telefonici,
farmaceutici e servizi di pubblica utilità non sono andati oltre +46%. Più delle prospettive, conta la voglia di profitti rapidi (e bonus a fine anno),
puntando acriticamente su tutto quanto era caduto di più.
Ma non è l’unica incongruenza.
La corsa dei capitali verso i paesi emergenti produce risultati paradossali: in molti posti dell’Asia già si parla di bolla immobiliare, con la
crescita a due cifre dei prezzi delle case; in Brasile i capitali affluiscono massicciamente, nonostante una Borsa così poco liquida che due soli titoli rappresentano un terzo della capitalizzazione del mercato.
E continua la corsa al junk bond: il differenziale di rendimento delle obbligazioni con rating singola B, rispetto ai titoli di stato, si è chiuso di 10
punti percentuali negli Usa, e di 18 in Europa; riportandosi intorno al valore medio degli ultimi 20 anni. Per non parlare
della corsa all’oro.
Sintomi da fame di rendimenti. Creata dalle banche centrali che hanno azzerato i tassi, offerto liquidità senza limiti e acquistato titoli di stato
per calmierarne i rendimenti, allo scopo di far tornare agli investitori l’appetito per il rischio.
Il prezzo da pagare per limitare i costi sociali della crisi.
Ma ora, insistono: la politica monetaria è appropriata; i tempi per un significativo rialzo dei tassi saranno lunghi perché ci vorranno anni per
recuperare la capacità produttiva inutilizzata; non esistono segnali di inflazione o di bolle nei mercati. Un quadro che concilia un regime prolungato di tassi bassi con la montagna del debito pubblico.
Un po’ come in Giappone, che da 10 anni ha il debito pubblico più alto del mondo, ma anche tassi a lunga sotto l’1,5%; possibile solo perché il
costo della vita è diminuito costantemente nel decennio.
Per i profitti, però, un vero incubo: anche contando dividendi e deflazione, la Borsa è sotto del 38% rispetto ai massimi di 20 anni fa. È questo il
dilemma attuale dei mercati:
o ci aspettano anni “giapponesi”,
e allora stiamo sottostimando il rischio azioni e junk bond; oppure prima o poi arriva una crisi del debito pubblico.
Qualche giorno fa, il Financial Times illustrava magistralmente il dilemma, citando il famoso economista Woody Allen: «Mai come oggi
l’umanità è a un bivio. Una strada porta alla disperazione. L’altra all’estinzione.
Speriamo di saper scegliere quella giusta».
IL MERCATO
ALESSANDRO PENATI
ogni commento è superfluo .