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Non si può andare avanti così. O sì?
di Ascanio L. Strinati - 13/10/2009 11.41.50 [/FONT]
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Il quadro generale inizia a presentare qualche ombra ma forse proprio per questo ci conforta. [/FONT]
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Le cose non possono continuare in questo modo. Il mondo della Borsa non può continuare a ignorare che lì fuori, nel mondo reale, la disoccupazione continua a crescere e che in queste settimane non s’è sentita nemmeno una buona notizia al riguardo. Negli Stati Uniti da febbraio a settembre sono stati persi circa 3,4 milioni di posti di lavoro, di cui solo a settembre 254.000 “non farm” (dati del 2 ottobre). Ma non si tratta solo di paura del futuro. È infatti necessario, a questo punto, osservare le cose con un po’ di distacco e domandarsi: in queste condizioni, la correlazione tra aumento della disoccupazione e rally borsistico può continuare ancora a lungo? Fino a quando i titoli azionari correranno prima di rendersi conto che le loro suole sono tutte consumate? Il
decoupling, se così si può dire, potrebbe essere alle porte. Anzi, secondo molti analisti lo scivolone dell’S&P500 del 22 settembre (-4,3%) è stato anzi proprio l’inizio della fine del rally.
Ma quale dei due termini della questione varierà per primo? Crolleranno i mercati o si riprenderà l’occupazione?
Secondo alcuni analisti d’oltreoceano, lo scenario del lavoro potrebbe essere questo: basandosi sull’analisi dei cicli economici precedenti (in particolare del 1991 e del 2001), l’occupazione (numero di occupati) potrebbe ricominciare a salire tra 11 e 21 mesi a partire da giugno 2009, cioè tra marzo 2010 e marzo 2011. Giugno 2009 che a livello federale Usa sarebbe indicato come il punto più basso della recessione. Simili considerazioni tecniche portano a stimare che il tasso disoccupazione (rapporto tra disoccupati e forza lavoro) dovrebbe di conseguenza toccare il picco tra 15 e 19 mesi dopo giugno 2009, cioè tra settembre 2010 e gennaio 2011.
Insomma, la risalita dell’economia reale non avrà impatti concreti prima di un anno e mezzo.
E le Borse? Qui le cose, com’è noto, vanno meglio. Le imprese hanno“riorganizzato” e ottimizzato” il business (leggi: licenziato migliaia di persone, venduto o chiuso pezzi di attività, ridotto gli sprechi e cercato nuovi sbocchi commerciali), e sebbene le prime due trimestrali dell’anno abbiano deluso, con la terza i risultati si sono finalmente visti, a partire dalla classica apripista Alcoa.
Inoltre la scelta delle imprese statunitensi ed europee di puntare sui mercati dei Paesi emergenti (ma a questo punto sarebbe il caso di chiamarli “emersi”) sembra iniziare a dare i suoi frutti. Il che, unito a una lentissima ripresa dei consumi interni, non può che far ipotizzare ulteriori significative entrate. E ancora, con i titoli di Stato che non rendono più nulla e con i cordoni delle banche chiuse, il mercato dei corporate ha ripreso a fare scintille (che altra alternativa hanno gli investitori di medio e lungo?) e ciò consente alle aziende di tornare ad avere capitali freschi a prezzi tutto sommato ragionevoli.
Decoupling, quindi, disaccoppiamento tra Borse e disoccupazione? Sembrerebbe di no. Le imprese potrebbero continuare a correre, mentre la disoccupazione difficilmente si riprenderà a breve.
Tiriamo quindi un sospiro di sollievo e torniamo guardare le aziende: in attesa che si dispieghino per bene tutte le trimestrali (i dati previsti saranno buoni ma, ovviamente, non eccezionali), già s’intravede che i titoli più premiati saranno i tecnologici (sull’S&P500 a +40,2% rispetto ai 12 mesi precedenti e +46,9% da inizio anno, ma utili previsti in calo del 10% a fine 2009 rispetto al 2008), i finanziari e i beni di consumo. In quest’ultimo caso, più che in altri, la positività del momento è data dalla razionalizzazione di cui sopra più che non dall’aumento di utili e fatturati; basti pensare che negli Usa in questo settore, solo a settembre, l’occupazione è calata del 3,2%. Peggio di tutti i settori sono andate però le telecom (-7,3% sui 12 mesi).
L’S&P500, in ogni caso, non smette di tirare: la scorsa settimana ha portato a casa un bel +4,5%, ventunesima settimana di crescita su 31 dai minimi di marzo. Inoltre 9 dei 10 settori (e 109 dei sottosettori su 131) dell’indice Usa sono in forte crescita rispetto ai valori di inizio 2009 e l’indice stesso, sui 12 mesi, ha recuperato il 18,6%.
Tanta è l’euforia (giustificata?) per la fine della recessione che la Reserve Bank (cioè la banca centrale) d’Australia ha aumentato i tassi dal 3% al 3,5%. E il dibattito sulla bontà dell’azione si è scatenato in tutto il mondo. Come pure quello sulla necessità di mantenere il dollaro come moneta di riferimento a livello internazionale. Un grosso rischio per molti Paesi (a partire dalla Cina), vista la situazione di declino politico-economico degli Usa di questi ultimi anni. Per ora, politici di tutto il mondo lanciano la provocazione e ritirano la mano, ma è evidente che prima o poi l’argomento verrà messo in agenda seriamente. Anche perché nessuno, tanto meno Obama, sembra interessato a ridurre lo stratosferico debito pubblico Usa, vero (ma non unico) punto nodale della questione. Il che, a proposito di decoupling, fa riflettere: le imprese statunitensi, come quelle giapponesi, stanno abbandonando la strada del declino intrapresa dai rispettivo governi e sembrano pronte a riprendere la marcia.
D’altronde gli analisti sono ormai da tempo ribassisti sul dollaro, come pure sull’S&P500 (non può andare avanti così, si diceva...). Al contrario, non smettete di tenere d’occhio oro, yen, euro, titoli di Stato statunitensi a 10 anni e greggio.
Un ultimo avvertimento: i trasporti. Il commercio locale e internazionale si sta riprendendo, quindi, lentamente, chi opera con le navi, con i treni, con gli aerei e con le autostrade, ma anche con la logistica, ne trarrà beneficio. E adesso, quasi tutti i sottosettori dell’S&P500 del ramo sono ripartiti dai minimi a passi leggeri, pochi punti percentuali al mese. Per ora, roba da speculatori, quindi. Ma se il trend non viene interrotto diventerà roba da investitori.