Torna lo spettro della crisi dei “too big to fall”
Dopo la crisi di Lehman si è continuato a riempire il sistema di liquidità e oggi, complici le Banche centrali, si rischia una crisi profonda
Giovanni Passali
Pubblicato 12 Agosto 2024
Quello che stiamo vedendo sui mercati finanziari sembra un déja-vù di quanto visto precisamente diciassette anni fa,
nell’agosto nel 2007, quando la caduta dei mercati finanziari iniziò quella che poi divenne nota come
crisi del 2008; io insisto a chiamarla crisi del 2007, non solo perché altrimenti si rischia di non comprenderne le radici, ma anche perché nel settembre 2007 si verificò la tanto temuta “corsa agli sportelli” (la banca colpita allora fu l’inglese Nothern Rock) che iniziò a mettere in fibrillazione tutto il sistema bancario mondiale, poiché in quel settore tutti si resero conto che quella banca non aveva fatto nulla di speciale rispetto a quanto facevano allora (e stanno facendo tuttora) le altre banche.
E mentre tutti dicevano che era solo un caso isolato, che il sistema bancario era solido, che i fondamentali erano solidi, che non vi sarebbero stati problemi, io e pochi altri dicevamo che invece tutta l’architettura bancaria e finanziaria era entrata in una crisi profonda, una crisi strutturale e che quindi tale crisi sarebbe durata a lungo.
Nel febbraio 2008 la Nothern Rock venne nazionalizzata, ma la storia non finì li. I mercati ormai erano in allarme rosso e i titoli di tutte le maggiori banche mondiali continuarono a scendere, fino
al collasso della Lehman Brothers (ottobre 2008) che fece temere il collasso dell’intero sistema bancario americano e mondiale; a quel punto intervenne direttamente la Fed, che mise in atto l’unica ricetta che conosceva: iniezioni mostruose di liquidità per impedire la fuga dei capitali e il collasso del sistema.
L’operazione non fu indolore dal punto di vista politico e ideologico, perché nella mentalità americana, nella mentalità ultraliberista, il fallimento è un fatto strutturale ma non catastrofico, cioè viene considerato come parte del sistema economico e finanziario, un elemento che serve a far “chiudere” ciò che è inefficiente e a far crescere e lasciar spazio a ciò che è efficiente. Ogni intervento statale volto a impedire un fallimento veniva e viene considerato, anzi bollato, come “comunista”. Chi fallisce, deve essere lasciato fallire: questo è stato il mantra di sempre di quella ideologia.
Ora, qual è il cuore del problema? Il cuore del problema è la combinazione di due elementi cruciali, entrambi riguardanti la moneta:
il primo è che ogni singolo dollaro (e ogni singolo euro) nasce come debito, cioè viene creato dal nulla ma contabilmente viene inserito tra i passivi della banca centrale che lo ha creato;
il secondo è che, sia per colmare tale debito sempre crescente sia per permettere la crescita dell’economia,
l’unica ricetta nota e praticata è la continua stampa di altra moneta (e quindi altro debito!). Quest’ultimo dato è indiscutibile, basta vedere i dati storici dell’aggregato monetario M2 (vale sia per il dollaro che per l’euro).
Tale stampa di moneta era già eccessiva prima della crisi, dopo è divenuta mostruosa. Ma la stampa di moneta senza mettere mano al cuore del problema è come nascondere la polvere sotto il tappeto: prima o poi i nodi vengono al pettine, prima o poi i problemi esplodono, con la differenza che poi esplodono ancora più grossi e con effetti incontrollabili.
Allora, nel 2008, i politici ed esperti di ogni categoria (nessuno dei quali però aveva previsto la crisi) si spesero a dire che c’erano alcune grandi banche che erano troppo grandi per lasciarle fallire
(“too big to fail” si disse allora) e che quindi era un dovere intervenire per salvarle.
E oggi?
A che punto siamo?
Allo stesso punto di prima, solo che il problema è oggi più grosso e potenzialmente fuori controllo.
Apple, Microsoft, Nvidia, Alphabet (Google), Amazon, Meta (Facebook) e Tesla hanno una capitalizzazione mostruosa: circa 13 mila miliardi di dollari,
un valore che è superiore (per fare un confronto improprio ma efficace)
al Pil di tutta la zona euro.
Ma il Pil della zona euro è valore vero, quello di queste aziende è solo ipotetico, perché basato su modelli di crescita presunti. Ora si scopre che tali previsioni di crescita sono in dubbio (o che i modelli non erano proprio corretti) e quindi tali aziende calano tutte insieme (dopo essere cresciute tutte insieme in questi anni).
Tutti sanno da anni che le borse mondiali “sono cresciute troppo”, ma ora che calano, tutti iniziano a impallidire. Infatti, le azioni di questi colossi della tecnologia (e non solo) si sono gonfiate anche perché sono state acquistate da un gran numero di fondi di investimento e di banche, le quali ora si trovano in profonda crisi per la caduta di questi valori. Hanno iniziato a vendere, ma questo non ha fatto altro che a
ccelerare la caduta.
Ora il problema è sempre lo stesso, sono “too big to fail”: se falliscono queste (o sono brutalmente ridimensionate) trascinano al ribasso una tale quantità di aziende
da provocare una catastrofe per il Pil, una catastrofe per l’occupazione, una catastrofe per i debiti dei Paesi coinvolti, cioè tutto il mondo occidentale.
Una visione troppo “catastrofista”? Può essere, ma difficile pensare che gente come
Biil Gates (Microsoft), Jeff Bezos (Amazon) e Zuckerberg o lo speculatore Soros si siano tutti sbagliati: eppure proprio loro hanno venduto quote importanti delle loro stesse aziende. È difficile pensare che si siano sbagliate le maggiori Banche centrali del mondo, le quali negli ultimi anni hanno accumulato importanti quantità di oro, soprattutto
quella cinese e quella russa. Sarà un caso?
Quello che non è un caso è il comportamento miope delle
Banche centrali.
Prima hanno tenuto i tassi bassi per troppo tempo, favorendo la liquidità, finita nei mercati finanziari cresciuti in questi anni in maniera abnorme.
Poi, scoppiata l’inflazione (che per oltre un anno e mezzo hanno negato)
hanno innalzato bruscamente i tassi, deprimendo quindi l’economia. Con la depressione economica, l’inflazione ha smesso di crescere e ha iniziato una breve discesa. Ma il problema è che questa inflazione non era dovuta da eccesso di moneta (l’eccesso di moneta c’era, ma sui mercati finanziari); era dovuta a fattori esogeni (la ripresa economica dopo la pandemia, la crescita dei prezzi delle materie prime, poi lo scoppio del conflitto in Ucraina).
In ogni caso, con l’inflazione in discesa, le banche centrali hanno iniziato a far scendere i tassi, molto piano, perché tutti sapevano e sanno che
una nuova fiammata inflattiva è dietro l’angolo. Quindi, hanno messo in pausa la discesa dei tassi, pianificando un prossimo taglio per settembre. Ora una serie di dati negativi ha accelerato la caduta dei mercati e messo in crisi il piano, tanto che ora si ipotizza un taglio più robusto, forse dello 0,50%.
Ho fatto questo breve riassunto delle recenti mosse delle Banche centrali per evidenziare un semplice fatto: questo è
il vicolo cieco delle Banche centrali, per cui qualsiasi mossa compiono, fanno dei danni.
Se alzano i tassi, fanno male all’economia e crollano i mercati; se li abbassano, danno benzina all’inflazione e fanno soffrire i grandi capitali e pure l’economia.
La foglia di fico che stanno sventolando è che “seguono i dati”, ma se i dati cambiano ogni volta, ecco che le banche centrali sbattono la testa contro i muri del vicolo cieco, perché “seguono i dati”.
Ovviamente la via d’uscita c’è ed è il ritorno di una moneta sovrana per gli Stati, una moneta con la quale gli Stati non si indebitano e non sono costretti a chiedere il denaro in prestito. La Bce è nata proprio per impedire questo; tornare alle monete nazionali segnerebbe di fatto la fine della Bce. Anzi, io sono convinto che prima o poi questo succederà.
Resta solo da capire quanto ci faranno soffrire prima di arrendersi all’inevitabile.