Val
Torniamo alla LIRA
Bastava una parola, una parolina soltanto: bavaglio.
È la parola che da decenni faceva irruzione sulle pagine dei giornali, Repubblica in testa - commenti, titoloni, editoriali, retroscena - ogni qualvolta qualche sciagurato di politico si sognava di invocare un argine alla diffusione di intercettazioni che nulla avevano a che fare con le inchieste, e che invece venivano zelantemente trascritte, puntualmente depositate, immediatamente consegnate ai giornali e spudoratamente pubblicate.
«Legge bavaglio», veniva definito qualunque tentativo di mettere argine alla gogna.
Ecco, quella parola oggi è tabù.
Adesso che alla gogna finiscono gli uomini di Matteo Renzi, gli stessi giornali e gli stessi giornalisti che fino all'altro ieri gridavano al bavaglio hanno rimosso la parola dal dizionario.
Per rendersene conto basta dare un'occhiata alla rassegna stampa di questi giorni, e in particolare alla stampa più vicina al premier. Ieri sul tema si esibisce una cronista che alla parola bavaglio è affezionata: negli ultimi anni i suoi articoli hanno contenuto questa parola la bellezza di 360 volte, e sempre con riferimento ai tentativi di mettere argine alle intercettazioni irrilevanti.
Quasi un tic lessicale, verrebbe da dire.
Ebbene, adesso che si tratta di parlare dell'inchiesta di Potenza, e di come fatti privati siano finiti invano ai giornalisti, e di come si potrebbe combattere questo malcostume - e l'articolo lo fa, va detto, con precisione e buon senso - la parola «bavaglio» non compare mai, nemmeno una volta.
Quando i brogliacci servivano a dileggiare i nemici, chi si opponeva era marchiato come il sicario di un nuovo Minculpop.
Adesso che la stessa sorte tocca ai ministri renziani, della possibilità di imporre per legge un filtro al diluvio si parla laicamente, magari cautamente, un colpo al cerchio dei pm e uno alla botte dei politici amici.
Ma quella parola-anatema, «bavaglio», non compare più.
È la parola che da decenni faceva irruzione sulle pagine dei giornali, Repubblica in testa - commenti, titoloni, editoriali, retroscena - ogni qualvolta qualche sciagurato di politico si sognava di invocare un argine alla diffusione di intercettazioni che nulla avevano a che fare con le inchieste, e che invece venivano zelantemente trascritte, puntualmente depositate, immediatamente consegnate ai giornali e spudoratamente pubblicate.
«Legge bavaglio», veniva definito qualunque tentativo di mettere argine alla gogna.
Ecco, quella parola oggi è tabù.
Adesso che alla gogna finiscono gli uomini di Matteo Renzi, gli stessi giornali e gli stessi giornalisti che fino all'altro ieri gridavano al bavaglio hanno rimosso la parola dal dizionario.
Per rendersene conto basta dare un'occhiata alla rassegna stampa di questi giorni, e in particolare alla stampa più vicina al premier. Ieri sul tema si esibisce una cronista che alla parola bavaglio è affezionata: negli ultimi anni i suoi articoli hanno contenuto questa parola la bellezza di 360 volte, e sempre con riferimento ai tentativi di mettere argine alle intercettazioni irrilevanti.
Quasi un tic lessicale, verrebbe da dire.
Ebbene, adesso che si tratta di parlare dell'inchiesta di Potenza, e di come fatti privati siano finiti invano ai giornalisti, e di come si potrebbe combattere questo malcostume - e l'articolo lo fa, va detto, con precisione e buon senso - la parola «bavaglio» non compare mai, nemmeno una volta.
Quando i brogliacci servivano a dileggiare i nemici, chi si opponeva era marchiato come il sicario di un nuovo Minculpop.
Adesso che la stessa sorte tocca ai ministri renziani, della possibilità di imporre per legge un filtro al diluvio si parla laicamente, magari cautamente, un colpo al cerchio dei pm e uno alla botte dei politici amici.
Ma quella parola-anatema, «bavaglio», non compare più.