CAGLIARI – Perdere il lavoro e finire in cassa integrazione può essere traumatico.
Ma, a volte, c’è di peggio. E il peggio è essere richiamati al lavoro. La pensano, o almeno la pensavano così, due assistenti di volo di Meridiana che, dopo essere stati andati (volontariamente) in
cassa integrazione, hanno fatto causa alla loro azienda, colpevole di averli richiamati al lavoro. Si sono rivolti a un tribunale niente meno, in nome del principio per cui prendere l’ottanta per cento dello stipendio senza lavorare e magari facendone altro di lavoro, è meglio che prendere il 100% dello stesso stipendio dovendo però pure lavorare.
Appena qualche mese dopo i due ‘venivano richiamati in servizio (…) mentre si trovavano negli Usa alla ricerca di una nuova occupazione lavorativa, dopo aver ottenuto la Green Card all’esito di un dispendioso e snervante iter burocratico che ha coinvolto l’intera famiglia composta dagli stessi, quali coniugi, e dai tre figli minori’.
Turbati dal reintegro ed evidentemente dalla possibilità di dover riprendere il loro vecchio lavoro i due, invece di essere contenti come molti altri al loro posto ingenuamente sarebbero, intuiscono la manovra vessatoria della loro azienda che li vuole far lavorare e mettono tutto nero su bianco, rivolgendosi ad un giudice.
Convinti quindi di esser stati richiamati a lavorare ‘senza alcuna reale e concreta necessità e solo per carattere punitivo, ritorsivo e illegittimo’, i due tornano ma, si legge nel ricorso, ‘al loro rientro in Italia si sono recati dal medico di base e successivamente presso il
Policlinico Umberto I di Roma ove è stata loro diagnosticata una ‘sindrome depressivo ansiosa reattiva’ alla quale è seguita la sospensione delle licenze di volo da parte dell’Istituto di medicina legale, con blocco lavorativo di quattro mesi, oltre al mese prescritto dal medico di base’.
A questo punto, racconta ancora il ricorso, l’azienda non paga di averli fatti tornare dagli States, manda per tre volte il medico fiscale a controllare il loro stato di salute. Ragion per cui i due chiedono al magistrato di dichiarare ‘la natura discriminatoria dei comportamenti descritti attuati dalla compagnia aerea nei loro confronti, con ordine di cessazione dei comportamenti antisindacali, discriminatori e vessatori’ e il ritorno, ‘a chiusura della malattia’, in cassa integrazione. Pari all’80% dell’ultimo stipendio.
Che a volte,
nei periodi di punta, grazie al numero di ore di volo, può schizzare fino a 4.000 euro.
Sfiniti, i due, che incidentalmente sono marito e moglie, felici genitori di tre figli e sindacalisti dell’Usb, quella sigla che votò contro il ricorso alla cassa integrazione nel 2011, unica insieme a quella dei piloti, salvo poi aderirvi, chiedono per questo all’azienda il “pagamento delle differenze retributive” pari per quei mesi a “4.000 euro e 4.800 euro, oltre a interessi legali” nonché “del danno biologico e da riduzione della capacità lavorativa sofferti rispettivamente per complessive 92.715,97 euro e 94.363,38 euro, o altra somma, tenuto conto del diniego di rinnovo della licenza di volo”. Che loro stessi, peraltro, avevano forzato con la “sindrome depressiva ansiosa reattiva”.
Sfortunatamente per loro però il giudice del lavoro che affronta il caso gli da torto.