L’altro «spread» che separa Roma da Madrid
«Non c’è soluzione, perché non c’è alcun problema». Più che a precise strategie economiche, le Autorità italiane sembrano essersi ispirate a questo "insegnamento" del pittore francese Marcel Duchamp per affrontare il tema dei crediti deteriorati delle banche: nessun problema. Dunque, nessuna soluzione da cercare insieme. «Le banche italiane sono solide», è lo slogan ripetuto come un disco rotto da anni a tutti i livelli. Eppure, dopo anni di recessione, questa frase è sempre meno vera:
Il problema va dunque affrontato. Perché esiste. Come ha fatto la Spagna: prendendolo per le corna.
Il confronto su questo tema con gli altri Paesi, a partire proprio dalla Spagna, può aiutare a capire perché l’Italia sia ancora nella palude. Innanzitutto il nostro Paese si auto-penalizza con criteri contabili più severi rispetto al resto d’Europa. È la stessa Banca d’Italia a rivelarlo con numeri precisi: se gli istituti italiani iscrivessero in bilancio i crediti andati a male con le regole adottate all’estero, l’incidenza delle partite deteriorate sul totale crediti scenderebbe dal 12,4% attuale a un più tranquillo 8,5% e il tasso di copertura salirebbe dal 37,4% al 54,9%. Per di più l’Italia ha una fiscalità penalizzante su questo fronte (e non solo): attualmente le perdite sui crediti deteriorati possono essere dedotte fiscalmente in 18 anni. Due handicap che negli anni delle "vacche grasse" non pesavano, ma che ora stanno frenando eccessivamente il Paese. Almeno il secondo andrebbe risolto.
Ma per sciogliere veramente il nodo dei crediti deteriorati, bisognerebbe fare come la Spagna: permettere alle banche di smobilizzarli. Di toglierli dai bilanci. La Spagna ha creato, anche con aiuti europei, una Bad Bank proprio con questo scopo. Ma, senza arrivare a soluzioni così estreme, si può ricorrere al mercato: esistono infatti in Europa e nel mondo centinaia di investitori specializzati che, un po’ come degli "spazzini", comprano crediti deteriorati a prezzi di saldo. Se gli istituti di credito riuscissero a venderli, eliminandoli dai bilanci e incassando liquidità, il sollievo toccherebbe l’Italia intera.
Se prima della crisi – secondo i dati di Bain – da un credito in sofferenza le banche recuperavano mediamente il 7-8% del valore nominale all’anno, ora incassano il 4-5% medio. Questo significa che, probabilmente, i crediti in sofferenza incorporano ancora delle perdite potenziali. Perdite che qualcuno, prima o poi, dovrà pur incassare.
In Spagna l’onere se l’è preso il settore pubblico, con soldi europei.
Ecco perché anche in Italia servono soluzioni di sistema. Se non si vuole creare una bad bank sul modello spagnolo, per non chiedere aiuto all’Europa, e se non si vuole caricare sulle spalle dello Stato l’onere delle perdite, esistono soluzioni intermedie. Per esempio si potrebbe permettere alle banche di vendere i crediti in sofferenza al valore di mercato, consentendo però loro di spalmare le perdite su molteplici esercizi: possibilità che era stata data agli istituti di credito alla fine degli anni ’90, per far partire il mercato delle cartolarizzazioni. In questo modo sarebbero le banche a incassare la perdita, ma senza zavorrare un unico bilancio. Qualcosa va fatto, prima che il Paese avvizzisca come una foglia secca per mancanza di credito. Non si tratta di aiutare le banche, ma l’Italia.