IL COMMENTO ■ GERARDO MORINA
La Signora che profuma di democrazia
In Myanmar (ex-Birmania) la democrazia ha il profumo di Aung San Suu Kyi.
Ha la fragranza delle bianche orchidee o delle bouganvillee che ama mettersi tra i capelli, l'eleganza nel portamento della sua esile figura, l'inglese oxoniano che molti inglesi le invidiano, la concentrazione di quando si mette al pianoforte e suona Bach, la forza tranquilla delle sue idee.
«È finito un lungo incubo. Ora inizia un lungo cammino» sono state ieri le parole della Signora nell'annunciare la vittoria elettorale del suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, che le consentirà finalmente di sedere in Parlamento. Si è trattato delle prime elezioni da quando, un anno fa, la giunta militare birmana di impronta marxista ha delegato i poteri al presidente Thein Sein mettendolo a capo di uno pseudo-governo civile controllato dagli stessi militari.
L'esito elettorale non scalfirà l'equilibrio del potere, dal momento che si è trattato di elezioni suppletive in cui erano in palio solamente 45 su oltre 1.000 seggi parlamentari. Ma l'elezione di Aung Sang Suu Kyi non solo contribuisce a conferire una legittimazione internazionale al «nuovo corso» lanciato da Thein Sein, ma rappresenta anche un grande passo verso la democrazia e la riconciliazione nazionale del Paese. Per la Signora è soprattutto la (prima) ricompensa di un ventennio di personali sacrifici per la causa birmana.
Aveva solo due anni Aung San Suu Kyi quando il padre,eroe della indipendenza, venne assassinato nel 1947, un atto che destabilizzò il Paese spianando la strada alla presa di potere dell'esercito.
Ne aveva 45 quando il partito della Signora partecipò alle elezioni generali vincendole, per poi vederle successivamente annullate dai militari.
Ne aveva 54 quando la giunta le concesse l'autorizzazione a recarsi in Inghilterra per visitare il marito inglese malato e poi morto di cancro. Suu Kyi ebbe la forza di non accettare, temendo che, al ritorno, le fosse negato il rimpatrio.
Liberata nel novembre 2010 dopo sette anni agli arresti domiciliari (e 15 degli ultimi 22 passati in detenzione), solo negli ultimi mesi il Nobel per la pace 1991 ha finalmente riabbracciato da vicino un popolo che in larga parte la adora.
Nel frattempo, dal regime non si sono fatte attendere aperture, rese evidenti dalle riforme attuate da Thein Sein attraverso la liberazione di centinaia di prigionieri politici, l'allentamento delle restrizioni imposte ai media, la ricerca di un processo di pace teso a risolvere i lunghi conflitti etnici e il varo di leggi che favoriscono la nascita dei sindacati.
Ma dietro tutto questo si scorge sempre la «longa manus» della giunta militare, alla quale interessano due obiettivi: la revoca da parte dell'Occidente delle sanzioni economiche che hanno messo in ginocchio il Paese nonché l'allentamento della sempre più avvolgente influenza cinese, pronta a sfruttare la posizione stragegica del Myanmar e a farne un suddito commerciale ed energetico.
Per Yangon (ex-Rangoon) la vera sfida inizia ora. Forse sventato un tentativo di restaurazione da parte dei militari come avvenne all'indomani delle elezioni del 1990, l'opinione della ora deputata Suu Kyi sarà ascoltata sempre più attentamente da un Occidente desideroso di recuperare influenza in un Paese di cui la Signora si è da tempo fatta tacitamente ambasciatrice, traendo un forte sostegno dalla visita che lo scorso dicembre ha compiuto in Myanmar la segretaria di Stato USA Hillary Clinton.
All'atto pratico, occorrerà vedere se Aung Sang Suu Kyi riuscirà a com piere il grande balzo, passando da icona carismatica degli oppressi all'immagine di una statista in grado di sedere di fronte ai suoi ex-nemici. Per far questo saranno necessarie rivoluzioni istituzionali (non ultima il cambiamento della Costituzione che attualmente assegna d'ufficio il 25 per cento dei seggi parlamentari ai militari) ed economiche, volte a conquistare la fiducia degli investitori. Dovesse vincere le elezioni generali del 2015 - sarà questa la vera prova - per la Signora potrebbero schiudersi le porte della presidenza. Ma per sognare c'è sempre tempo e nessuno si aspetta una rivoluzione da un giorno all'altro. Una primavera birmana? È ancora presto per dirlo, anche se se ne avvertono i primi umori, attraverso un intenso profumo di fiori appena recisi e il deciso frusciare di un sari thailandese indossato da una Signora che i nativi chiamano ormai «nostra madre Suu Kyi».