Gramellescion

Ci disegnano così


04/03/2014

Ma ti pare possibile, sospirava al telefono un amico dopo l’Oscar a «La Grande Bellezza», che per gli altri noi siamo sempre e soltanto la nostalgia del passato, la decadenza infinita, i monumenti che cadono, i mosaici che si scrostano, l’antica Roma e la Roma dei papi, entrambe manipolate nel ricordo e inscatolate dagli stranieri dentro una sequela di luoghi comuni? Ti pare possibile che di un’Italia senza gladiatori, pizzaioli, pittori, mandolinisti, tenori, sarti, ruffiani, avvelenatori rinascimentali e playboy della mutua non interessi niente a nessuno? Ti rassicura questo rinchiuderci in un eterno cliché per compiacere i pregiudizi degli altri nei nostri confronti?

A tutte e tre le domande di quell’italiano riluttante ho risposto con un semplice monosillabo. Sì. L’autorevolezza in certi ruoli non si improvvisa. Noi per gli altri siamo ciò che venticinque secoli di storia hanno stabilito che fossimo: depositari distratti della grande bellezza e custodi approssimativi della memoria universale. Quando ci riusciamo, anche costruttori di benessere. Anni fa, alla delegazione tricolore che durante la visita a un importante organismo internazionale si lamentava perché nella struttura lavoravano dirigenti di ogni nazionalità tranne che della nostra, il direttore generale replicò sorpreso: «Vi sbagliate. Agli italiani abbiamo affidato un settore assolutamente cruciale: il catering».
 
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L’altra sera in televisione è accaduto qualcosa di inedito. Un premier apparentemente di sinistra, ma di sicuro installato da elettori di sinistra al vertice del principale partito della sinistra, attaccava i sindacati su una rete di sinistra, tra gli applausi incontenibili del pubblico in studio. Ascoltati dal retropalco, quegli applausi erano ancora più impressionanti: molti spettatori battevano addirittura i piedi. E non si trattava di una feroce setta di capitalisti o del fan club di Brunetta, ma di persone normali che avevano appena chiesto l’autografo a Sorrentino e un’ora dopo si sarebbero messe in coda col telefonino per farsi immortalare accanto alla Littizzetto. La cordiale ostilità verso i sindacalisti ricorda quella verso i giornalisti, gli uni e gli altri assimilati ai politici per varie ragioni. Intanto perché li frequentano assiduamente, al punto che talvolta diventano politici anche loro. E poi perché, a torto o a ragione, vengono considerati collusi col potere anziché suoi fieri contraltari.

La difesa dei garantiti ha tolto autorevolezza ai sindacati, vissuti dalle fasce sofferenti della popolazione come una forza conservatrice e ostile al merito, in nome di un concetto asettico di uguaglianza che finisce sempre per deprimere i più volenterosi. L’altro applauso, domenica sera, Renzi lo ha incassato quando ha detto che i cassintegrati andrebbero impiegati nelle biblioteche. A qualcuno sembrerà incredibile, ma a molti italiani persino un cassintegrato sembra un privilegiato. E la Cgil - come Confindustria, del resto - un simbolo dell’ancien régime che ha arrugginito il Paese.
 
Muro di comma

Sulla prima pagina di lunedì scorso Luca Ricolfi ci ha raccontato la sua ultima peripezia burocratica: aveva chiesto all’Inps alcuni dati storici sulla cassa integrazione in Italia e l’ente pensionistico, affabile come sempre, gli aveva risposto in ritardo, con un preventivo di 732 euro per un servizio che a un impiegato fornito di computer avrebbe richiesto pochi secondi di lavoro. Gli ingenui lettori di Ricolfi si aspettavano dall’Inps una lettera di smentita oppure di scuse. Invece, dai bastioni del palazzo presidiato a lungo dal prode Mastrapasqua, esemplare raro di corpo umano con più incarichi che cellule, non si è levato alcun grido di dolore. Anzi, a precisa domanda, ci si è sentiti opporre un silenzio orgoglioso.

Saranno i giornali che non fanno più paura, direte voi. Ma un trattamento analogo viene riservato ogni settimana ai mammasantissima della tivù, da Report alle Iene. Le loro denunce spietate e circostanziate tolgono il sonno a noi telespettatori, ma non ai diretti interessati, che ormai non si prendono più nemmeno la briga di querelare. Le accuse ai burocrati di Stato rimbalzano contro un muro di indifferenza. Maleducazione? Forse. Senso di impunità. Può darsi. Ma ogni tanto mi assale il sospetto che nessuno si faccia avanti perché in un ente pubblico nessuno si sente davvero responsabile di qualcosa. Proprio perché lavora in un posto che è di tutti, il dirigente statale (con rare eccezioni) pensa che a rispondere debba essere sempre qualcun altro. E, al riparo di codicilli e regolamenti, finisce per rispondere soltanto a sé.
 
Naufragio del traghetto, si dimette il primo ministro della Sud Corea

«Non sono stato capace di rispondere in modo adeguato» La lettera accettata dal presidente. Nell’incidente morte o disperse trecento persone
 
Si poteva sperare che dopo tutto quello che è accaduto le cose cambiassero. Invece no: ancora una volta qui in Italia la campagna per le elezioni europee si sta svolgendo in una generale indifferenza per la vera sostanza dei problemi in gioco. Su che cosa fare in Europa, infatti, tutti i partiti sono in sostanza d’accordo: alzare la voce, battere i pugni sul tavolo, accapigliarsi con la cancelliera Merkel. È circa il che cosa fare dell ‘Europa, invece, che il silenzio è assoluto. Dei molti candidati a un seggio nel Parlamento europeo quest’ultima cosa non sembra in verità interessare a nessuno.
Nei talk show televisivi tutti parlano a ruota libera di un’Europa «dei cittadini», di un’Europa «più democratica» e così via. Così com’è tutto un coro stucchevole di berci contro l’euro (perlopiù da gente che, si capisce a prima vista, non sa neppure di cosa parla). Ma tutto comincia e finisce qui. Non c’è mai nessuno, infatti, che ponga (e risponda) alla questione politica decisiva, che - proprio perché sempre elusa dalle inette élite fin qui padrone dei vertici di Bruxelles - ha portato alla crisi attuale. E cioè: se è vero che è necessario rafforzare la base schiettamente politica dell’architettura dell’Unione, finora troppo sbilanciata in senso economico, quale carattere deve avere tale base? Verso quale Europa politica, insomma? Una federazione? Una confederazione? Un’Unione come quella odierna ma con poteri più forti? E in questo caso quali? E come?
Nessuno lo sa. A queste domande nessun partito sembra interessato a rispondere. E naturalmente viene da pensare che è perché nessuno ne ha la minima idea o forse neppure ci ha mai pensato. Eppure questa, non altra, è ormai la massima questione all’ordine del giorno, non più rinviabile.
 
invece ...

Grillo: «Renzi è psicologicamente instabile. Se vinciamo, si cambia»

Il leader del M5S in una lunga intervista ribadisce di volere un referendum per l’abolizione dell’Euro. E sugli scontri all’Olimpico: «Me lo vedo Genny ‘a Carogna
al Nazareno per fare una legge contro la violenza negli stadi...»










:rolleyes:
 
Per Piero Pelù il concittadino Matteo Renzi è un piduista. Per Berlusconi il nuovo Hitler è Beppe Grillo (che immagino ricambi volentieri la cortesia). Per l’avvocato Taormina i gay sono malati e geneticamente diversi. Ma dove le trovano, questi formidabili showmen, le loro immarcescibili certezze proclamate ai quattro venti mediatici senza l’ombra di un dubbio o di un sorriso? Risulta a qualcuno che Renzi durante le elementari sia stato iscritto alla P2, che Grillo abbia mai invaso la Polonia o che Saffo e Giulio Cesare fossero geneticamente diversi dall’avvocato Taormina? Immagino che a dare loro la forza di sparacchiare teoremi indimostrabili sia la sensazione di essere nel giusto e di sfidare la morale corrente, cioè il famigerato P.C., che non è un computer portatile né un antico partito franato sotto un muro, ma il Politicamente Corretto. La scorrettezza di cui si sentono alfieri impone di guardare il mondo da un unico punto di vista, il proprio, e di concludere che se l’Altro è diverso da loro significa che è un debosciato o un cretino.

Le sicurezze assolute aiutano a vivere, soprattutto a coprire le proprie insicurezze. E gli insulti restano il modo più rapido per aggregare consenso, perché l’umiliazione del Nemico distrae l’uditorio e lo gratifica, facendolo sentire migliore. Eppure ogni tanto potrebbe essere persino emozionante rinunciare alle scorciatoie e inerpicarsi lungo il sentiero evolutivo, cercando di trasmettere un’idea senza farla passare per forza attraverso la svalutazione degli altri.








:mumble::mumble:

vale il mio thread sugli ass-holes ? :mumble::mumble::mumble:
 
La piazza di Grillo, la corsa di Renzi, il «golpe» secondo Berlusconi


Meno male che la Camera sta per approvare il decreto sul lavoro. C’è voluto il solito voto di fiducia al termine di un percorso travagliato, ma almeno è un provvedimento concreto in mezzo all’inconcludenza della campagna elettorale. Il resto lo vedremo solo dopo il 25 maggio. E fino ad allora prepariamoci a giorni virulenti. Ieri ne abbiamo avuto un esempio con Grillo che vuole fermare i lavori dell’Expo. Naturalmente non è un’ipotesi realizzabile, ma è significativa di una mentalità. Il capo del M5S non è uomo che spreca tempo a spiegare come vorrebbe un giorno governare l’Italia, pur essendo questo, ovviamente, il suo traguardo conclamato. Eppure ieri ecco la proposta di chiudere l’Expo prima di inaugurarla, confessando al mondo che l’Italia è un paese fallito e corrotto. Uno scenario che dal punto di vista politico-elettorale varrebbe oro per Grillo; mentre per il paese sarebbe un disastro economico e di immagine.
S’intende che non è questo che interessa agli elettori via via mobilitati dal M5S (e non sembrano pochi). A loro preme restare sulla cresta dell’onda e rinnovare i fasti del febbraio 2013. Per questo seguiranno il leader carismatico fino in fondo, benché Grillo cominci ad avere difficoltà a rinnovare il repertorio, uscendo dal turpiloquio e dalle invettive. Il fatto è che egli continua a essere percepito come l’anti-sistema, il nemico di ogni potere consolidato. Altro che Expo. Finché Grillo riesce a incarnare la figura epica del vendicatore, i suoi consensi non caleranno: nonostante errori, contraddizioni e falsità.

Questa è la sfida rivolta al premier. Il quale nello psicodramma rappresenta appunto il sistema contro l’anti-sistema. Ed è una difficoltà di non poco conto. Dire "dimostriamo che lo Stato è più forte dei ladri" equivale a esprimere forte volontà istituzionale, ma si presta anche a infinite ironie. Forse perché "il sistema è marcio", come scriveva ieri Stefano Micossi sul sito "InPiù". Il che non significa che siamo alla replica tale e quale di Tangentopoli. Vuol dire tuttavia che l’Italia in vent’anni non ha saputo rinnovarsi. Il "marcio" deriva dalla mancanza di riforme, per cui i buoni propositi di Renzi sembrano arrivare quando i buoi sono già scappati dalla stalla.
Questo contribuisce a spiegare perché in Spagna non esiste un movimento protestatario euro-scettico come i Cinque Stelle e nemmeno nazionalista come il Front National di Marine Le Pen. Perché Madrid ha saputo guidare il rinnovamento in anni difficili, nonostante le asprezze della crisi economica. E oggi sfrutta la brezza della ripresa, cogliendo i frutti del suo coraggio.

Da noi invece si resta con la testa rivolta al passato. Le rivelazioni dell’ex segretario al Tesoro americano, Tim Geithner, circa un complotto europeo nel 2011 contro Berlusconi, non hanno consistenza, ma servono a Forza Italia per tentare di rilanciare una campagna elettorale che ha l’aria di essere compromessa. C’è poco di nuovo nelle memorie di Geithner. Solo la conferma che nell’autunno di quasi tre anni fa Berlusconi era visto in Europa, dove tutto ormai è interconnesso, come l’affossatore dell’Italia e una minaccia per la stessa Unione. Del resto, fu un golpe assai strano se lo stesso Berlusconi dichiarò nel febbraio 2012: "Sono stato io a dimettermi per senso di responsabilità. Ora serve un governo tecnico". E infatti appoggiò Monti a lungo.
 
Ma siamo in campagna elettorale. Non per l'Europa, che pure avrebbe bisogno di cambiare e di tagliare il suo deficit democratico, e che oggi fa la parte della "mosca chiusa in un barattolo, cozzando instancabilmente contro frontiere invisibili, prigioniera delle sue stesse regole e contraddizioni", come ha scritto Yves Mény, presidente della Scuola superiore Sant'Anna di Pisa, sulla rivista "il Mulino".
No, si vota in Italia per l'Europa ma lo si fa rincorrendo obiettivi di politica interna e infilando strumentalmente la moneta unica, che pure di problemi ne ha tanti, nel collo di bottiglia di un sì o un no. Si vogliono in realtà misurare i consensi: quelli del nuovo premier Matteo Renzi, di Beppe Grillo, di Silvio Berlusconi, di Angelino Alfano e così via. Da qui, fatte salve le eccezioni che confermano però la regola, i più svariati annunci e gli impegni programmatici che nulla hanno a che vedere, e fare, con le elezioni europee.
Un'occasione perduta, per di più alla vigilia della presidenza italiana del semestre europeo. L'ennesima prova di una classe politica che del resto sulla stessa appartenenza dell'Italia all'euro ha fornito prove a corrente alternata, senza entrare mai fino in fondo nel merito dei problemi. Nel 2012 tutti "rigoristi" d'acciaio, nel 2013 assai meno rigidi, nel 2014 tutti puntualmente o vagamente eurocritici (anche sugli impegni già assunti e votati a schiacciante maggioranza in precedenza) e comunque più interessati alla "ricaduta" politica domestica dei risultati elettorali. Risultato: il 25 maggio si vota, sì, ma non si sa bene per cosa.
 
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http://www.corriere.it/politica/14_...f90-de57-11e3-a788-0214fd536450.shtml#votoEmo









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Ieri, nel suo comizio a Torino, Beppe Grillo ha fatto qualcosa di più che insultare, attività che peraltro non gli è nuova. Ha invece officiato il rito dell’insulto assoluto, dell’aggressività senza limiti e senza risparmio. Le campagne elettorali spesso sono il teatro della virulenza polemica, e forse non può essere diversamente. Ma la differenza è che Grillo non vuole vincere le elezioni incendiando i toni nei comizi, come si fa di solito, ma annichilire il nemico con un lessico deliberatamente oltraggioso, davanti a una folla plaudente e sempre più numerosa. Non conquistare più voti, ma mandare un messaggio ultimativo a chi si oppone alla sua marcia trionfale. Non un lessico rivoluzionario, ma una fraseologia insurrezionale, minacciosa. Fisicamente minacciosa, quando ha invitato la Polizia a non proteggere più i politici: «Alla Digos sono già con noi, alla Dia sono già con noi, ai Carabinieri sono già con noi: non date più la scorta a questa gente». Lasciateli soli e inermi di fronte alla folla inferocita. La strategia della paura, altro che toni troppo elevati.

A Torino Grillo ha oltrepassato una soglia. Ha premuto tutti i tasti del linguaggio cruento. Ha saggiato l’umore della sua gente, che ama queste performances così teatralmente prive di autocontrollo. Dopo aver provato nei giorni precedenti incursioni insensate sulla Shoah, ieri ha insistito sull’ingiuria dal sapore storico, per cui Martin Schulz, se non «ci fosse stato Stalin, oggi sarebbe con una croce uncinata al braccio». Per poi passare, tra gli sghignazzi dei seguaci, all’oscenità esplicita, appena appesantita da una goliardia senile, accusando Renzi di essere andato a «dare due linguate a quel c...one tedesco della Merkel». Per poi andare agli improperi minacciosi contro l’inno di Mameli, in cui i fratelli d’Italia sono solo «i piduisti, i massoni, la camorra» e perciò meritevole di essere fischiato negli stadi di Genny ‘a carogna. Per finire con la promessa solenne che in futuro verranno celebrati processi sommari («processo pubblico», popolare) contro i «giornalisti, i politici, gli imprenditori che hanno rovinato questo Paese». Per ora, per carità, solo un «verdetto virtuale»: «uno sputo». Virtuale, certo. Come se fosse diverso il messaggio, l’ingiunzione a «sputare» sui nemici in una gogna che, nei casi migliori, mima una condanna esemplare da offrire in pasto al popolo in collera, nei casi peggiori anticipa condanne più corpose e meno virtuali.



Nel linguaggio della campagna elettorale, le parole torinesi di Grillo segnano un salto, inaugurano qualcosa di decisamente più brutale e feroce di tutti gli insulti più consueti e che oramai hanno creato uno stato di quasi assuefazione. È una promessa di purificazione, da attuare attraverso un uso politico della rabbia in cui i bersagli vengono indicati al pubblico ludibrio, «processati» come responsabili e addirittura venduti allo straniero, criminalizzati in blocco e dunque additati come obiettivo da colpire. Senza scorta, perché chi tra le forze dell’ordine dovrebbe tutelarne l’integrità si sarebbe già schierato con i rivoltosi. Un linguaggio da insurrezione, non un linguaggio da campagna elettorale. Un linguaggio in cui non si vince una normale competizione, ma si combatte in un Armageddon finale che non può non risolversi con la disfatta, anche fisica, di chi soccombe e viene sottoposto alla giustizia spietata dei vincitori. Qualcosa che va al di là delle intemperanze verbali che abbiamo conosciuto (e di cui, per esempio, la Lega è stata in passato campione assoluto). Una dismisura ricercata e perseguita con freddezza. Una sintonia con un’opinione pubblica esasperata e che accoglie, come si vede nei comizi sempre più affollati di questi giorni, le sparate di Grillo con entusiasmo e parossismo. In una spirale che andrà sicuramente oltre il 25 maggio, in cui le elezioni sono solo una tappa di una guerra senza fine .
 

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