Gramellescion

Per risalire la china abbiamo bisogno innanzi tutto di verità. Che si dica come stanno le cose, che si parli dei molti errori che abbiamo commesso e delle vie senza uscita in cui ci siamo cacciati. Che si smascherino le bugie di vario genere che le mille corporazioni italiane, dai magistrati ai giornalisti, ai tassisti, raccontano e si raccontano per mantenere i propri privilegi ai danni dell’interesse generale.
Dobbiamo sapere che da troppo tempo crediamo di poter vivere al di sopra dei nostri mezzi. Bisogna che l’Italia ascolti raccontare per filo e per segno degli sprechi pazzeschi e delle disfunzioni (dal numero degli addetti alle spese vere e proprie) che quasi sempre con la complicità dei sindacati sono divenute la regola nelle amministrazioni pubbliche. Che si dica a voce alta che fare le Regioni come le abbiamo fatte, con i poteri che abbiamo loro dato, è stato una scempiaggine assoluta. Che dalle elementari all’università abbiamo scaricato sul nostro sistema d’istruzione tutto lo sciocchezzaio ideologico e tutte le fumisterie parademocratiche che ci hanno attraversato la mente negli Anni 60-70, in tal modo mandandolo in pezzi. Che le privatizzazioni sono state un’autentica truffa ai danni della collettività. Che troppo spesso il livello professionale del management alla guida del nostro apparato produttivo e bancario è infimo mentre la sua sete di soldi è enorme. Che da noi il merito è messo al bando dovunque ma specie dalla classe dirigente, continuamente a caccia di posti tramite raccomandazione a pro di mogli, mariti, figli e amanti vari. Che le cose stanno così (e quelle ora elencate costituiscono solo un modesto campionario) lo sanno, lo sappiamo tutti. Ma sarebbe una vera rivoluzione se a dirlo fosse il Potere, per bocca del presidente del Consiglio: perché solo a quel punto la verità da tutti conosciuta diverrebbe innegabile. Sarebbe un macigno ineludibile nel nostro discorso pubblico con cui tutti dovremmo fare i conti. Mettendo così a rischio i nostri vizi più inveterati: a cominciare per esempio dalle bugie pietose delle corporazioni di cui dicevo sopra, come quella dei magistrati, con i loro motivi di aria fritta accampati per conservare il privilegio di restare in servizio fino a 75 anni.
Certo, dire la verità è quasi sempre scomodo e difficile. Ma se vuol mantenere fede alle speranze da lui stesso suscitate, se vuole cambiare verso al Paese, Matteo Renzi è atteso a questa prova di lucidità e di coraggio. Per cui serve una cultura politica, una conoscenza della società italiana e della sua storia, un’ispirazione anche morale (sì, quando la politica va oltre la routine, essa s’incontra inevitabilmente con l’etica), che non so se egli abbia. Ma qui è Rodi, e qui egli deve saltare. Senza una grande operazione di verità, di tutta la verità, sul proprio passato e sul proprio presente, l’Italia non potrà mai cambiare strada. E quindi non potrà mai salvarsi.
 
La riforma del Senato, e le tante parole spese, fanno pensare alla massima secondo cui «per ogni problema complesso, esiste sempre una soluzione semplice e sbagliata». Conviene un po’ di umiltà quando si ragiona su complicati cambiamenti che, nel caso specifico, investono gli equilibri istituzionali.

Lasciando da parte quei camaleonti che si travestono da riformatori ma non lo sono, possiamo dire che sul Senato si fronteggino tre «partiti». C’è il partito degli avversari della riforma, dei difensori dello status quo. Usa, per lo più, argomenti inconsistenti: la Costituzione non si tocca, c’è il disegno autoritario, la reazione in agguato, eccetera. È la difesa dell’indifendibile, di quel bicameralismo simmetrico o paritetico che contribuisce a rendere la nostra democrazia parlamentare diversa (in peggio) da tante altre. I più lucidi fra gli avversari della riforma sanno quale sia la vera posta in gioco: quel potere di veto delle microminoranze che condanna all’impotenza i governi e all’immobilismo il Paese. Il bicameralismo simmetrico è il più importante simbolo (e difesa) della democrazia paralizzata, non decidente. Pensano che, se salta tale simbolo (e diga), quei poteri di veto, responsabili dell’immobilismo, per un effetto a cascata finirebbero per indebolirsi ovunque.


Però, sul Senato, i partiti non sono solo due ma tre. Perché anche coloro che condividono il rifiuto del bicameralismo simmetrico sono divisi. Una parte teme gli effetti di una riforma che faccia del Senato la sede della rappresentanza non elettiva delle Regioni.

In un editoriale assai lucido (Corriere , 6 luglio), Alberto Alesina e Francesco Giavazzi hanno dato voce, con solidi argomenti, a questa posizione, al disagio di chi, sapendo cosa sono le Regioni, teme le conseguenze disfunzionali della riforma. Alesina e Giavazzi hanno segnalato che il ddl in approvazione a Palazzo Madama lascia una possibilità di intervento del Senato delle Regioni in tema di leggi di bilancio. Il rischio è che il Senato, assumendo la difesa corporativa (transpartitica) del potere di spesa delle Regioni, condizioni la Camera dei deputati, spingendola ad approvare bilanci e spese insostenibili.

La tesi è corretta. Ma il tema è più ampio. Anche se la riforma del Senato si ispira al Bundesrat , la Camera alta tedesca (che in quel sistema federale rappresenta gli Stati, i Länder), resta che la Regione italiana non è affatto un Land e che, per giunta, le classi politiche e amministrative regionali non brillano, mediamente, per qualità. Conviene mettere nelle loro mani il nuovo Senato? Ciò non compenserebbe, annullandolo, il vantaggio derivante dalla riforma del Titolo V, dal recupero del controllo statale su materie oggi di competenza regionale?

Tali preoccupazioni non sono infondate. Però è anche vero che lo status quo (nessuna riforma) ci condannerebbe a perseverare in un immobilismo che non possiamo più permetterci. Tra una certezza e un rischio, conviene il rischio. Le riforme hanno sempre conseguenze imprevedibili. Eliminando il bicameralismo simmetrico, si rafforzerebbero i governi, si ridurrebbero alcuni poteri di veto. Ma si rafforzerebbero anche, per contro, i poteri di veto regionali? Lo capiremo quando, approvata la riforma, vedremo i dettagli. Per ora, si può sperare che il bicameralismo simmetrico venga infine cancellato e che, contemporaneamente, chi ha la possibilità di farlo non commetta l’errore di idealizzare le Regioni, di dare loro più fiducia, e più poteri, dello stretto necessario.

29 luglio 2014
 
Alla fine degli anni ottanta, quando gli elettori lombardi sanzionano l’arroganza e la corruzione della classe politica votando per la Lega Nord, essi si fanno sedurre dall’intemperanza anche lessicale di Umberto Bossi. La sua “idiozia” politica, le maschere che di volta in volta indossa diventano le chiavi del suo successo. “Buffone, buffone” era il modo in cui Bossi veniva accolto dai contromanifestanti. Un vocabolo indubbiamente ingiurioso, ma che il comportamento di Bossi in parte giustificava, rievocando nello stile verbale proprio il buffone della tradizione medievale, non rispettando niente e nessuno e deridendo a più riprese sia il papa sia le istituzioni più care al paese. Con lui la pratica politica smarrisce per la prima volta ogni riferimento di senso, diventando una giravolta di annunci, minacce, promesse e intenzioni, in una parola sola “spettacolo”. Da questo punto di vista – argomenta Lynda Dematteo – il suo linguaggio e le sue maniere rimandano ai personaggi della tradizione della Commedia dell’arte: il politico Bossi pertanto si trasfigura nella maschera Bossi, una delle tante che a partire dall’età moderna sono state fulcro dell’elaborazione delle identità collettive del nostro paese. Ma come emerge dal suo approccio etnografico, la Lega Nord non si limita solo a rappresentare le maschere più profonde del nostro immaginario collettivo, attraverso l’invenzione di un linguaggio tutto “suo”, ma ha campo libero per fare politica nel senso più classico del termine, cioè creando miti, manipolando simboli, rielaborando la cultura politica dell’intero paese.



LA TESI - La tesi dell'antropologa parigina Lynda Dematteo, autrice di L'idiota in politica (Feltrinelli, 2011), è infatti la seguente. Bossi è il giullare che non rispetta niente e nessuno, opera nel registro dell'ambiguità, si muove con disinvoltura nella logica del mimetismo e indossa perennemente una maschera per dissimulare tutto di sé. «Le parole devono sorpassare e snaturare il pensiero», confessa nel lontano 1998 al Corriere della sera. Il giudizio che pervade il saggio è impietoso. Il leader della Lega è un buffone e come tale si comporta. Il suo linguaggio ricorda quello delle marionette, le loro semplificazioni, le loro violenze. Il suo pensiero ha come obiettivo la distruzione del senso: è un antipensiero. Insomma, se la politica della Prima Repubblica è diventata un teatrino, nella Seconda Bossi «carnevalizza» la politica, perché un Carnevale non è altro che un luogo dove è lecito sospendere le regole sociali o addirittura sovvertirle. Solo così, del resto, si spiegano tante cose. E tutte passate sostanzialmente inosservate o stancamente censurate su qualche prima pagina.


Umberto Bossi nei panni di Totò (Daniela Pergreffi) LESSICO BOSSIANO - A cominciare, volendo limitarsi alle cronache di questi giorni, dal quel «Nano di Venezia» bofonchiato all'indirizzo del ministro Brunetta; o da quel giudicare il discorso di ... sulla manovra anticrisi niente più che «una rottura di coglioni»; o, ancora, dalla replica a Formigoni sintetizzata in una sonora e teatrale pernacchia. Attenzione. È dunque una roboante pernacchia che accomuna Bossi e Totò? Non proprio, o meglio: non del tutto. Il nesso è, semmai, il teatro dell'arte, quel teatro che come aveva già intuito Antonio Gramsci, e come ripete Dario Fo, costituisce uno degli strumenti più potenti di diffusione delle idee del popolo. Da Arlecchino in poi, maschere e marionette hanno una funzione catartica: denunciano ciò che non può essere ascoltato, poiché ciò che dicono non ha alcuna conseguenza su quelli che ascoltano e che tacitamente approvano. Da Arlecchino fino al turco napoletano, fino all'imperatore di Capri, fino al maresciallo italiano che manda a quel paese il colonnello Kessler. Fino a Totò, appunto. Perché «negli anni sessanta lo scemo del villaggio torna di nuovo, ma questa volta sugli schermi cinematografici», scrive Dematteo. E spiega: «Il figlio illegittimo di un principe napoletano, mai riconosciuto dal padre, diventa un eroe popolare attorno a cui si gioca la rivincita degli umili sugli arroganti. Come nella tradizione del teatro di figura, questa rivincita assume la forma di una feroce derisione». ECCO PERCHE' UN SINDACO LEGHISTA VOLLE IL BUSTO DI TOTO' - Ora è più chiaro anche il perché sia stato un sindaco leghista, negli anni passati, a volere il busto di Totò nei giardini di Alassio, e sia ora, invece, un sindaco fuoriuscito dal movimento, ed eletto con i voti del partito democratico, a decretarne lo sfratto. In fondo, anche se inconsapevolmente, i leghisti doc avevano avuto una sorta di felice intuizione su certe affinità elettive. Ma è tollerabile dare a Totò la patente di scemo del paese? E possono la nascita e la cultura francese dell'autrice di tale affronto essere accettate come attenuanti? Anche qui il discorso di Dematteo è più robusto di quanto appaia. Perché, in realtà, nel suo ragionamento lo scemo del paese sta all'idiota del titolo del suo saggio. E idiota, in senso etimologico, significa «uomo del luogo».
QUELL'IDIOTA ETIMOLOGICO - Per gli antichi greci idiota era colui il quale non aveva accesso alla dimensione universale, quello che viveva ancora nella caverna. Secondo gli ateniesi i più stupidi erano i loro vicini più prossimi, quelli che abitavano ai margini della polis, ma «idioti» erano anche i cinici. «Idiota è dunque il soggetto votato alla più irriducibile autoctonia e al ripiego identitario». Bossi porta l'idiotismo in politica. Sia in senso greco, sia in senso più moderno, come suggerisce, ad esempio, l'antropologa Margarita Xanthakou, secondo cui l'idiota non è altro che «l'agente di una funzione sociale quasi istituzionalizzata». In altre parole, lo scemo del paese. Tutto questo aiuta a decifrare tanti personaggi, costantemente sopra le righe, che affollano il panorama leghista. Come Borghezio, ora momentaneamente sospeso per carità di patria, o come il generale Zanga, patetico capo delle camicie verdi. Ma non solo. La carnevalizzazione della politica permette alla Lega, da un lato, di disintegrare il politichese e la ritualità istituzionale; e, dall'altro, di superare i confini del lecito, di varcare la soglia del tollerabile, di alludere. E, dunque, di creare sogni, prospettive rivoluzionarie e scene fantasmatiche fatte di stati inesistenti come la Padania, di eserciti disarmati e di parlamenti indipendenti senza poteri.
IDIOTISMO E NEOGUELFISMO - L'idiotismo come strategia politica ha permesso alla Lega di mettere insieme il neoguelfismo dei cattolici intransigenti e il federalismo repubblicano delle élite culturali; di dare voce al popolo diffidente e individualista delle valli bergamasche e di entrare in giacca e cravatta nel più sontuoso dei Palazzi, quello del Potere. Una politica che, contrariamente a quanto si vuol far credere per proiettare la figura di Bossi in una dimensione mitica, viene da lontano. E non è opera di un uomo solo. È invece il prodotto di una ideologia che risale almeno all'opposizione cattolica all'unificazione nazionale e si spinge fino al movimento autonomista di Guido Calderoli, nonno del ministro Roberto, che si presentò alle elezioni amministrative del 1956; o all'Unione autonomisti padani di Ugo Gavazzani, che approvò uno statuto di Pontida già nel 1967. Una politica che, per passaggi progressivi e al netto di molte inversioni ad «u», è fatta di antistatalismo e di comunitarismo, di autonomismo e di etnofederalismo. E che ha visto costantemente crescere, almeno fino ad oggi, e proprio in virtù di una furbesca tattica carnevalesca, la forza elettorale della Lega.
MA TOTO' SI NASCE, NON SI DIVENTA - Ora, si può discutere se una visione così fortemente e volutamente caricaturale dia per intero l'idea di che cosa sia stata la Lega in questi decenni e di come abbia cambiato il sistema politico italiano. E pur prendendo per buona la battuta di Indro Montanelli, secondo cui avrebbe trasformato «un dramma potenziale in cartone animato», resta da valutare se Lega abbia oppure no controllato le spinte centrifughe del Nord a vantaggio di una sostanziale unità del Paese. Ma comunque sia, e pur apprezzando l'originalità e la profondità dell'analisi della Dematteo, su un punto non si discute: Totò si nasce, non si diventa. E Bossi non lo nacque.
 
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Più credibili con un sì in tempi brevi


URGENZA ECONOMICA La politica ha il dovere di creare quanto prima le condizioni di contesto per il ritorno degli investimenti stranieri
Il ritmodel tempo, tanto implacabile quanto monotono, in realtà, determina quotidianamentecambiamenti in noi, maanche nelle cose da noi create. A questa regola, nulla sfugge; così il temposiriverbera anchesul diritto, sugli ordinamenti e sulle istituzioni che, intrise di temporalità, sono soggette al suo scorrere che, così come fa su tutte le altre cose, appunto, le consuma e le corrode. Eppure, ad ascoltare quanto sta avvenendo in Senato intorno alla prima lettura della riforma costituzionale sembra che del tempo si possa fare a meno; quasi che il tempo non abbia un valore.





Così non è. Il tempo ha un valore. Lo ha in sé ma lo ha – ed è bene ricordarlo – anche in quanto esprime, nel modo in cui viene usato, princìpi, convincimenti, scelte, personali o collettive, che per loro natura arricchiscono quel valore, poiché lo presentano, appunto, in modo più denso e intenso di quanto il suo naturale scandire non mostri. Nonrendersi conto, quindi, degli effetti derivanti dal fatto che la riforma costituzionale in discussione in Senato, a quasi quattro mesi dal suo inizio, ancora non vede la luce nella sua prima lettura, è certamente un’evidente miopia politica; che travalica, per certi aspetti, anche alcuni punti di merito del testo.



Ci sono, infatti, almeno tre ragioni che dovrebbero spingere a nonsprecarel’occasione di arrivare, entro fine agosto, al massimo i primi di settembre, ad approvare questa prima lettura di revisione costituzionale.



La prima è di metodo. Infatti, tutto si può dire del testo in discussione, tranne che sia stato presentato dal Governo e dalla sua maggioranza come un testo autoritariamenteblindato; sordo alle sollecitazioni o agli emendamenti provenienti dalla politica, dagli esperti e dalle forze sociali e intellettuali del Paese. Piuttosto, si può registrare l’opposto, a partire dalla scelta iniziale – e dalle differenze che si possono notare – tra il testo pubblicamentepresentato dal Governoil 12 marzo, quello poiapprovato quasi un mese dopo dal Consiglio dei ministri, per arrivare infine al testo adottato dalla prima commissioneAffari costituzionali del Senato (con gli emendamenti approvati l’8 luglio), che è poi il testo oggi in discussione in Aula. Dunque, comeharilevato innanzitutto il Capo dello Stato nella recente cerimonia del Ventaglio, di sicuro «non c'è stata improvvisazione né improvvida frettolosità». Tutt’altro, appunto.




Poi, il merito. Il testo che si sta discutendo raccoglie molto sia di quello che, negli ultimi trenta-quarant’anni, la dottrina giuridica ha avutomodo di evidenziare per superare l’anomalia di un bicameralismo perfetto, unicum nel panoramamondiale, sia di quello che la politica ha avuto modo di proporre – e non di rado approvare – almenoin tre Commissioni bicamerali istituite ad hoc e in quattro tra Comitati di esperti, Commissioni e Gruppi di studio che, nei decenni, sono stati istituiti proprio per proporre soluzioni per riformare la Costituzione.
Sottolineare, quindi, che si tratta di un testo che, per le sue novità, abbisognadi untempo lungo di discussionerischia di essere unesercizio che può far apparire gli oltre ottomila emendamenti presentati in Aula più dei pretesti per non decidere, che dei testi per decidere meglio (a maggior ragione se si pensa che si è ancora nella prima di quattro letture, con un politicamente inevitabile referendum confermativo).



Infine, non meno importante, è la stessa dimensione della situazione sociale ed economica che dovrebbe spingere oggi più di ieri la politica al dovere di precostituire quanto prima le condizioni di contesto – regole e strumenti ma anche fiducia e credibilità rispetto al fatto che è stato superato lo stallo pressoché assoluto nel quale il nostro sistema politico-istituzionale si è ritrovato lo scorso anno– per favorire il ritorno degli investimenti stranieri oltre che europei, e dar mododiaggredire meglio i nostri mali endemici, dal debito pubblico alla pressione fiscale. Per cui, più che un dibattito, strumentale e sterile, sulla tecnica del "canguro", sarebbero ben altre le ragioni per approvare la prima lettura in tempi brevi. E il riconoscerlo peraltro, già aiuterebbe la credibilità della politica, oltre che quella delle scelte operate.















ma ormai è troppo tardi temo
inutile discutere sulla bontà del chirurgo: la cancrena è troppo avanzata
ammenocchè si chiami adesso il famoso chirurgo tetesko
quello che oltre al braccio toglierà anche i cogl... e affitterà a terzi l'uso del kul :rolleyes:


ringrazio tutti i partecipanti alla farsa
avverto che da oggi la simpatica scenetta di sparare un colpo in aria di avvertimento, prima di mirare all'uomo, è sospesa fino a nuova comunicazione (sine die)




ogni piccolo movimento spara, prima che l'altro faccia lo stesso con te
ogni piccolo movimento spara, meglio non chiedersi niente, neanche sapere l'altro chi è
 
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Il primo trombone








L’unico capolavoro da sempre in cartellone all’Opera di Roma è l’ottusità di certi sindacati. Pur di difendere privilegi di casta, il partito del demerito è riuscito a fare perdere il posto a duecento orchestrali e coristi. L’Opera è l’Alitalia dei teatri: ha costi da Metropolitan e produttività da banda di paese (con molte scuse alle bande di paese). Appena il piatto ha cominciato a piangere, ci si è trovati a scegliere tra l’aumento dei concerti e la riduzione degli stipendi. Ma i burocrati dello spartito hanno optato per una terza soluzione: ridurre i concerti, lasciando inalterati gli stipendi. E poi si chiedono perché Muti è scappato ululando. Perlomeno non hanno preteso l’aumento, anche se si vocifera di un braccio di ferro con l’amministrazione del teatro sulla diaria giornaliera per le trasferte: 190 euro tra pranzo e cena. I contabili volevano ridurlo a 160, appena sufficienti per un pieno di champagne, ma la proposta è stata respinta come un attentato alla cultura.

Saputo dei licenziamenti, un sindacalista che per ironia della vita occupa lo scranno di primo trombone ha intonato la solita romanza del complotto contro l’arte, confondendo la sacralità di quest’ultima con le bizze da divo di chi talvolta impugna il suo strumento come una pratica d’ufficio da sbrigare con il minore dispendio possibile di energie. Ora i martiri del posto comodo hanno due possibilità. Pretendere da qualche giudice compiacente la restaurazione di un mondo che non tornerà. Oppure fondare una cooperativa e mettersi a lavorare il doppio. Come succede nei teatri di mezza Europa. In giro ci sono troppi diritti da difendere per potersi ancora occupare dei capricci.
 
Filo di Scozia








C’è poco da dire: usata bene, nel contesto giusto, la democrazia funziona ancora meglio di qualsiasi altro sistema inventato dall’uomo. Si prenda la Scozia: alle elezioni il partito indipendentista chiede i voti su un programma che pone al primo posto un referendum per separarsi dal Regno Unito. Ebbene, cosa fa il partito indipendentista subito dopo la vittoria? Esattamente ciò che aveva detto: chiede a Londra il referendum. E Londra, che potrebbe negarglielo o ritardarlo con una di quelle tattiche dilatorie in cui i politici sono maestri, a sorpresa glielo concede: mettendo a repentaglio le coronarie della Corona e la carriera del premier Cameron. In campagna elettorale ci si divide con passione e a volte con durezza, ma senza insulti né incidenti. Il primo ministro inglese promette: se il Sì perde, darò comunque più potere agli scozzesi. Il primo ministro scozzese ribatte: se il Sì perde, un minuto dopo mi dimetto. In cabina tutto fila liscio e sulla scheda il quesito è indicato con una frase breve, semplice e chiara: «Vorresti che la Scozia fosse una nazione indipendente?». Il Sì perde, seppure di poco: 55 a 45. E un minuto dopo il primo ministro scozzese si dimette, invece di accampare scuse o cantare vittoria esibendo una percentuale di consensi più alta di quella ottenuta alle precedenti consultazioni da Braveheart.
Perché le idee sono importanti, ma le persone che le applicano di più. Ci rifletta, il Renzi, quando a proposito di diritto del lavoro ciancia di modello danese. Per realizzare il modello danese ci vogliono i danesi.


( ci sarebbe da vedere adesso cosa fa Cameron... ma sono fiducioso :) )
 
Non starò a farvi venire il mal di testa con il rimpallo di accuse che ha contraddistinto il comportamento delle autorità alluvionate di ogni ordine e grado durante la giornata di ieri, mentre i genovesi erano per strada in silenzio a spalare. La solita catena burocratica in cui un potere scarica le colpe su un altro potere al fine di allontanare da sé ogni responsabilità.
Se ho capito bene, ma credo che non l’abbiano capito nemmeno loro, chi avrebbe dovuto dare l’allarme lo ha dato in ritardo, chi avrebbe dovuto reagire all’allarme non aveva preparato alcun piano d’azione, chi avrebbe dovuto ripulire e fortificare i torrenti già esondati in un passato fin troppo recente non ha potuto farlo per un impedimento amministrativo che però il tribunale competente sostiene essere stato superato da mesi.

La sensazione è la solita: quella di un Paese non governato e forse ingovernabile, dove i cittadini sono abbandonati a se stessi, la prevenzione è una parolaccia, tutti pensano soltanto a pararsi il fondoschiena e nessuno chiede mai scusa. Pressappochismo, disorganizzazione e paralisi burocratica, il tutto condito con una spruzzata di arroganza. Cambiano le generazioni e, purtroppo, la frequenza delle alluvioni, ma il menu di Genova ricorda desolatamente quelli di Firenze, del Polesine, di Messina. Di ogni tragedia «imprevedibile» che da secoli mette prevedibilmente in ginocchio questa specie di Stato.









i soldi ci sono, da 4 anni...
il problema, qui e altrove, non sono i soldi della PA, ma come la PA lavora


chi non fa le riforme, muore :(:(
 
lla fine che cosa ci colpisce della sentenza sudcoreana che ha condannato a 36 anni di carcere il comandante di un traghetto colato a picco con il suo allegro carico di studenti in gita? La durezza della pena, certo, specie se rapportata all’età di un imputato quasi settantenne, e benché giustificata agli occhi dell’opinione pubblica dal suo comportamento vile. Il capitano abbandonò la nave in incognito, mentre con atto abominevole i suoi sottoposti invitavano i passeggeri ad andare sotto coperta e nel frattempo calavano in acqua le scialuppe per mettersi in salvo. Poi ci sconvolge l’efficienza a noi ignota della giustizia asiatica, capace di concludere un processo di questa complessità ad appena sette mesi dagli eventi.
Eppure l’aspetto che, almeno a me, sorprende di più è la faccia del comandante Lee Jun-Seok. Il suo sguardo colmo di imbarazzo e di vergogna. Perché forse ce lo siamo dimenticati, ma altrove può ancora succedere che un condannato si senta colpevole. Da Totò Riina all’ultimo ladro di polli, qui tutti si considerano innocenti. Anche e soprattutto dopo la sentenza definitiva, quando cominciano a chiedere la revisione del processo e, se non più per la verità giudiziaria, si battono per la verità storica, cioè per l’assoluzione alla memoria, indossando i panni della vittima incompresa e del capro espiatorio. Lo sdoppiamento dell’italiano davanti al naturale esito dei suoi gesti irresponsabili è un fenomeno che affascina da sempre la psicanalisi, come non mancherà di spiegarci in una delle sue prossime lezioni universitarie a piede libero il professore emerito Francesco Schettino.
 
Erdogan e il disprezzo per le donne Ma nessuno chiederà sanzioni

L’Europa tace e non reagisce alle parole del presidente turco



Si dice sempre così, per tenere le donne zitte e subalterne: che sono diverse dall’uomo. Ma perché il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha dovuto sottolineare enfaticamente una simile ovvietà? Per dire che nella gerarchia della diversità le donne stanno a un gradino sotto: «Non si possono mettere sullo stesso piano una donna che allatta un bambino e un uomo». A un piano di sopra, l’uomo. La donna a quello inferiore. In Europa, felicemente sradicata da se stessa, c’è di tutto ormai. Potrebbe esserci anche una Turchia il cui onnipotente presidente sta sempre più scivolando verso l’integralismo religioso, la resa di ogni parvenza di laicità, l’accomodamento con i guardiani della fede, l’odio per l’«entità sionista», il disprezzo per le donne sancito dai testi sacri.
C’è posto per tutti. Per Erdogan no? Sarebbe meglio di no, sempre che l’Europa sia in grado di dire una qualsiasi cosa, ciò che appare sempre più problematico. Sono passati i tempi in cui la Turchia, avamposto dell’Occidente nel punto geopoliticamente più delicato, di confine tra due mondi sempre più dissimili, chiedeva il biglietto d’ingresso dell’Europa. Quei legami si stanno sciogliendo, solo la minaccia dell’Isis impedisce a Erdogan di proseguire nella deriva islamista in cui voleva trascinare la Turchia con un ruolo di leadership.


Ma per ribadire la sua nuova fedeltà ai princìpi religiosi la strada più semplice per Erdogan è di confinare le donne nei ruoli ancillari in cui tanta parte del fondamentalismo islamista le relega, anche con le percosse, la violenza fisica per chi vuole andare a scuola, lo stupro legalizzato attraverso la consegna delle bambine a mariti-padroni.
 
La lupara di Silvio










massimo gramellini




Mi ero ripromesso di non occuparmi più delle gaffe di Berlusconi, a meno che l’anziano entertainer si fosse esibito in un numero inaudito persino per lui. Che so, raccontare una barzelletta sulla mafia al ricevimento di un Presidente della Repubblica che ha avuto un fratello ammazzato da Cosa Nostra. Ebbene, l’ha fatto. L’ha raccontata. Lì, nel salone delle feste del Quirinale, dove la sua presenza all’incoronazione di Mattarella aveva già suscitato tante polemiche. Un mafioso viene fermato dalle forze dell’ordine che gli chiedono cosa nasconda nel bagagliaio. Una calcolatrice, risponde lui. E quando gli trovano una lupara, si giustifica: «Noi i conti in Sicilia li facciamo così».

Il talento di Berlusconi per l’inopportuno è proverbiale. Riuscirebbe a elogiare il brasato al barolo durante una cena di vegani. Come sempre, ma forse meno di un tempo, l’opinione pubblica si dividerà. Qualcuno ne loderà la freschezza sbadata, la volontà deliberata di calpestare le regole della convenienza e della buona educazione. Qualcun altro, per le stesse ragioni, si indignerà, rimarcando che certe spiritosaggini sulla mafia arrivano da chi ospitava in casa un mafioso come stalliere. Lo sfibrante bipolarismo etico ed estetico della Seconda Repubblica. Ma ora che si entra nella Terza rinculando fino alla Prima, la barzelletta dell’impunito gaffeur consente di comprendere meglio il senso di sollievo con cui è stato accolto l’incedere democristiano di Mattarella. Il garbo e il tatto, persino quando sconfinano nell’ipocrisia, restano una difesa straordinaria contro lo sdoganamento del cattivo gusto e la volgarità degli uomini. Di certi, in particolare.
 

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