Azioni Italia Il trading secondo noi

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Fonte: nexusedizioni.it
Pubblichiamo questo articolo, tratto da Nexus New Times nr. 98, perché riteniamo necessario dare la massima diffusione possibile alle informazioni in esso contenute, consapevoli di quanto la comprensione del passato sia indispensabile per far luce sul presente e, quindi, riscrivere il futuro.

Di fronte allo stupore di molti davanti alla palese e gigantesca manipolazione mediatica, a cui assistiamo ormai da anni, ai danni della nazione ‘canaglia’ di turno (come di recente contro la Libia e ad oggi ancora contro la Siria, la Russia, il Venezuela, l’Iran), abbiamo pensato bene di rispolverare qualche evento passato, per sondarne la conoscenza da parte di chi legge. Come un vecchio disco che, recuperato alla polvere che lo avvolgeva dopo anni di inutilizzo, è in grado di far riaffiorare ricordi sopiti, ma anche di trasmetterci suggestioni che, in precedenza, non avevamo colto. Così è anche per la storia che, sottratta all’erudizione degli esperti e alla propaganda dei vincitori, può ancora oggi essere attuale. Il giornalismo raramente indaga il passato, ma come essere veramente attuali, cioè comprendere il proprio tempo ed agire su di esso, senza quello spirito critico che solo dalla memoria storica ci può giungere? Passati ormai i festeggiamenti per il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, è il caso di approfondire un periodo storico così cruciale e di indagarlo come si farebbe con l’attualità. Sediamoci comodi, allora (ma non troppo!) e torniamo indietro di centocinquant’anni, poco più poco meno.



“La negazione di Dio eretta a sistema di governo”. Con queste parole, scritte nel 1851 dal giovane diplomatico britannico William Ewart Gladstone al Ministro degli Esteri di Londra, Lord Aberdeen, aveva inizio la denigrazione del Regno delle Due Sicilie sulla stampa europea. Riferite alle condizioni delle carceri napoletane, dove Gladstone sosteneva di aver incontrato i membri della setta “Unità d’Italia” (responsabile di alcuni attentati nel 1849), furono smentite sia da parte duosiciliana sia da diplomatici di tutto il mondo, tra cui l’ambasciatore francese Walewski. Ma le smentite, oggi come ieri, non fanno notizia. Fu l’inizio di una campagna di stampa, soprattutto da parte britannica, che contribuì a modificare notevolmente la storia italiana ed europea: da allora l’aggettivo ‘borbonico’ assunse il significato dispregiativo che ancora conserva.

I detenuti politici napoletani, accusati dalla giustizia regia di aver tramato contro la monarchia, divennero presto icone della battaglia anti-borbonica della stampa inglese. Fu il caso di Carlo Poerio, condannato a 24 anni di carcere duro (ridotti a dieci), di cui la stampa britannica descriveva, con raro senso di umanità, le condizioni di salute precarie. Analoghe attenzioni ricevette anche un altro detenuto eccellente, il letterato Luigi Settembrini. Per liberarlo, il primo ministro inglese Palmerston pensò addirittura ad una spedizione navale, in barba alla sovranità duosiciliana. Poco importa se poi sarà lo stesso Settembrini, anni più tardi, ad ammettere che il carcere borbonico gli garantiva diverse comodità (caffè, giornali, libri) e a lamentare l’utilizzo del suo diario come “libello di guerra” contro Ferdinando II di Borbone.

La persuasione dell’opinione pubblica internazionale è indispensabile per preparare il terreno di una futura guerra, esterna od interna. Non ha importanza, in quest’ottica, se si tratti di verità o di menzogne. Un secolo dopo, Roger Mucchielli nella sua Subversion (un manuale pratico per la sovversione politica) teorizzerà la necessità di creare la giusta ‘percezione delle circostanze’ in seno all’opinione pubblica, in modo che questa non solo non si opponga ad un cambio di regime, ma lo favorisca consapevolmente. Secondo Mucchielli, non sono le circostanze ad indirizzare l’opinione pubblica, ma la percezione delle circostanze, veicolata dai mezzi d’informazione. Il compito di ‘creare’ una percezione della realtà spetta proprio ai mezzi di comunicazione, ma anche a quegli intellettuali che oggi si auto-definiscono opinion makers (creatori di opinioni, appunto). Così, a distanza di secoli, la percezione della realtà diventa la realtà stessa e quest’ultima diventa storia.

Lord Palmerston

Poco importa, in vero, se il sistema giudiziario duosiciliano fosse il più avanzato dell’Italia preunitaria, non prevedesse i lavori forzati e solo in casi rari la pena di morte. Nelle sue Memorie documentate, Paolo Mencacci ricordava come, negli anni dal 1851 al 1854, su 42 condanne a morte, 19 furono tramutate da Ferdinando II in condanne all’ergastolo, 11 in 30 anni ai ferri, 12 in altre pene minori. Nessuna esecuzione, quindi. A riprova di ciò, nello stesso periodo il re graziava 2.713 condannati per reati politici e 7.181 per altri reati. L’opposto di quanto accadeva, per esempio, nel Piemonte sabaudo dove, dal 1851 al 1855, venivano eseguite ben 113 esecuzioni capitali. Tanto da spingere il deputato piemontese Angelo Brofferio ad affermare che “i progressi della morte aumentano” nel regno dei Savoia. A conferma della malafede utilizzata contro i Borboni, sarà lo stesso Gladstone nel 1888 ad ammettere di aver “scritto senza vedere” le sue lettere ad Aberdeen, di non esser mai stato in un carcere borbonico e di aver mentito su incarico del primo ministro inglese Palmerston. Perfino l’allora ministro degli esteri di Londra, lord Malmesbury, scriverà nelle sue memorie che Poerio (liberato nel frattempo) godeva di condizioni di salute fin troppo ottimali per aver subito i trattamenti descritti dalla stampa. A giochi fatti, però, le smentite puliscono le coscienze, ma non modificano il racconto storico.



Ma a cosa si deve l’ostilità britannica nei confronti delle Due Sicilie?

Forse alla politica estera di Ferdinando II che, oltre ad aver assunto un deriva filorussa, mirava a fare avere alle Due Sicilie un posto importante tra le potenze europee.

Un indizio in questo senso fu il precoce ritiro dalla guerra di Crimea, nel 1855, che favorì inizialmente i russi ai danni della coalizione occidentale. Ma soprattutto la questione degli zolfi, che portò quasi allo scontro militare tra Roma e Napoli. Nel 1836, infatti, Ferdinando decise di affidare alla compagnia francese Taix e Aycard di Marsiglia agevolazioni per la vendita degli zolfi, di cui il sottosuolo duosiciliano era particolarmente ricco. La società francese offriva il doppio del prezzo pagato dagli inglesi, che acquistavano gli zolfi (utili per la soda artificiale, l’acido solforico e la polvere da sparo) ad un prezzo irrisorio, salvo rivenderlo a cifre assai maggiori ed in condizioni monopolistiche. Ma si trattava di uno strappo al Trattato di Commercio stipulato tra Londra e Napoli nel 1816, che prevedeva una reciproca applicazione della clausola della ‘nazione più favorita’. Così, dopo le rituali proteste diplomatiche, nel 1840 Palmerston inviò una flotta britannica al largo di Napoli, pronta a cannoneggiare. Solo la mediazione francese convinse Ferdinando a non aprire il fuoco contro l’amico-nemico, ma la sua resa lo costrinse ad un doppio indennizzo: all’Inghilterra, per la violazione del trattato, ed alla Francia, che perdeva il contratto. Da allora, il “contegno non servile” (come lo definirà Benedetto Croce) di Ferdinando II divenne una minaccia tangibile per gli interessi commerciali britannici.



In vista della realizzazione del Canale di Suez, i porti dell’Italia meridionale sarebbero stati indispensabili per il commercio delle materie prime e non avrebbero di certo potuto rimanere nelle mani di un governo ostile. Inoltre, un ruolo importante, sia economico sia strategico, era ricoperto dalla Sicilia. L’isola, infatti, non solo era un avamposto militare strategico a presidio delle rotte commerciali inglesi, ma era la sede di numerose attività commerciali britanniche. Diverse le famiglie inglesi che vi si erano trasferite durante il protettorato britannico (che durò dal 1811 al 1815), costruendo in loco una rete imprenditoriale che smistava quantità di denaro significative. È il caso dei Whitaker, ad esempio, che facevano girare dai 4 ai 5 milioni di lire annue, ma anche dei Woodhouse e degli Ingham. Dalla Sicilia, quindi, partì la strategia destabilizzatrice di Londra ai danni di Ferdinando II e del suo regno.

Innanzitutto era necessario mettere la Sicilia contro il governo di Napoli. Approfittando dell’odio popolare contro i baroni latifondisti, vicini al Re, creare delle ‘rivoluzioni guidate’ nell’isola che portassero alla destituzione delle autorità borboniche: ne sarebbe nato uno stato-satellite, che avrebbe mostrato fedeltà alle direttive di Londra e indebolito il governo di Napoli. Un procedimento simile a quello usato di recente in Libia, alimentando la contrapposizione tra Tripoli e Bengasi.
Ferdinando II di Borbone


In quest’ottica si può spiegare la ‘rivoluzione costituzionale’ di Palermo del 1848, impossibile senza i carichi di armi inviate ai rivoltosi dall’esercito inglese, come testimoniato anche dalla lettera scritta a Palmerston dal Governatore di Malta. Il 13 aprile 1848, infatti, il nuovo General Parlamento creato dagli insorti dichiarò decaduta la monarchia borbonica.

L’appoggio di Londra ai ‘rivoluzionari’ siculi, sebbene noto agli ambienti diplomatici, non era però ufficiale e così Palmerston pensò bene di ricattare il neonato governo costituzionale di Palermo, in cerca di un principe italiano disposto a prendere lo scettro dell’isola. L’avvallo ‘ufficiale’ d’oltremanica al cambio di regime sarebbe giunto solo previo affidamento della carica regia ad un membro di casa Savoia. Una famiglia dinastica ben lontana dalle vicende sicule, che non conosceva l’isola, radicata in una regione di confine tra la Francia e il Piemonte, ma che aveva acquisito la corona della vicina Sardegna nel 1720. Ma il 27 agosto, 3 mesi dopo la rivoluzione (o colpo di stato, a seconda del punto di vista), Ferdinando riuscirà a riprendere la città. Ma proprio le vicende legate al ritorno del sovrano diedero nuova linfa alla campagna di stampa anti-borbonica, che passò alla fase successiva: la demonizzazione del nemico. “Mostro coronato”, “Nerone del Sebeto”,“Tigre borbonica”, “Caligola di Napoli”, furono gli appellativi denigratori usati contro Ferdinando II. Ma soprattutto “Re Bomba”con riferimento al presunto bombardamento di Messina nel settembre del 1848. In realtà, gli fu cucito addosso già prima, quando, nel febbraio dello stesso anno, l’esercito borbonico sparò diversi colpi per spaventare gli insorti palermitani e costringerli ad arrendersi, come registrava lo storico Harold Acton. In quell’occasione non vi fu nessuna strage e i civili stessi furono messi al sicuro a Palazzo Normanno dal settimo reggimento borbonico, prima dell’operazione. Sempre Acton ci fornisce una descrizione dei fatti di Messina: i rivoltosi, durante l’assedio del 3 settembre, avrebbero aperto il fuoco contro un vapore napoletano in mare, scatenandone la risposta. Alcuni colpi finirono nei pressi del centro abitato, ma non si trattò affatto di “bombardamento borbonico”. Diverso sarebbe stato, invece, il trattamento mediatico riservato l’anno successivo a Vittorio Emanuele II durante la rivolta di Genova. Il 3 marzo del ’49, la ribellione dei genovesi al governo sabaudo sarebbe costata 500 vittime civili, ma l’evento non intaccherà l’appellativo di “Re galantuomo” gratuitamente concessogli dalla stampa europea. Una diversità di trattamento, quella riservata ai due sovrani, che, unita alla richiesta di Palmerston di cedere ai Savoia lo scettro della Sicilia, è una spia evidente delle preferenze di Londra per la monarchia sabauda. Preferenze che peseranno non poco nella storia d’Italia.


Lo stato sabaudo era la “personificazione dello stato liberale” per Palmerston, che il 21 maggio 1852 ricorda i “grandi interessi politici e commerciali che ha l’Inghilterra per la conservazione dell’indipendenza della Monarchia sarda e della sua prosperità”. Il Regno di Sardegna è lo Stato perfetto agli occhi di Palmerston e della Corona britannica: monarchia costituzionale e governo liberale, con una politica economica liberista ed una politica estera filo-britannica. Ma anche filo-francese. Il 15 agosto 1853, infatti, il duca di Guiche, inviato francese a Torino, scrive al suo Ministro degli Esteri Thouvenel che in Piemonte “il governo è parlamentare e costituzionale in apparenza, in realtà è una macchina difficile a definire ma i cui ingranaggi obbediranno sempre al ministro di Francia se questi vuole darsene la pena e fare uso delle forme”. Per i governi di Londra e Parigi, dunque, un modello da esportare in tutta la penisola italiana.

Di contro, le ostilità tra Napoli e Londra crescono al punto che il Times chiede a gran voce al governo britannico di intraprendere un’azione mirata contro il Regno delle Due Sicilie, definito “un Giappone mediterraneo posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da Marsiglia”, la cui politica non era più tollerabile dal governo britannico. Toni che ricordano quelli dei giornali occidentali contro gli ‘stati canaglia’ di oggi: Iraq, Afghanistan, Libia, Iran, Venezuela, Russia, Siria.

Palmerston prese immediatamente la palla al balzo e si fece carico di tradurre in azione le richieste del Times, che rispecchiavano – a suo avviso – la volontà dell’opinione pubblica. Se la spedizione non ebbe luogo, fu solo per la contrarietà della Regina Vittoria, ma la sintonia e la collaborazione tra la stampa e il governo di Londra la dice lunga sulla funzionalità al potere dei mezzi di comunicazione.
Bombardamento borbonico di Palermo



Contemporaneamente alla sponda offerta alla politica di Palmerston, il giornalismo salariato tesseva le lodi dell’unica monarchia costituzionale d’Italia, contrapposta all’assolutismo dei Borboni, dei Lorena, degli Asburgo e alla teocrazia pontificia. Così la Gazzetta del Popolo del 1° gennaio 1853: “L’Inghilterra riconosce di dovere la sua grande felicità, cioè la sua ricchezza, la sua potenza, la sua moralità alle istituzioni costituzionali; resta sottinteso per contro che i paesi dispotici così miserabili, come gli stati papeschi p. es., devono al despotismo la vergognosa loro inferiorità.” In realtà, la condizione economica e sociale degli ‘stati papeschi’, cioè lo Stato Pontificio e il ‘cattolicissimo’ Regno delle Due Sicilie, poteva difficilmente essere ritenuta ‘miserabile’. A Napoli, infatti, le tasse erano basse, così come il costo della vita, l’emigrazione pressoché nulla, i poveri costituivano solamente l’1,34% della popolazione e il Tesoro era florido. Analoga la situazione dello Stato Pontificio, come testimoniato dalle Memorie documentate di Paolo Meccacci. In entrambi gli Stati, le strutture assistenziali ecclesiastiche, gli ordini monastici, le parrocchie, gli ospedali (spesso gestiti dal clero) garantivano un welfare eccellente rispetto al Piemonte, dove l’abolizione di tali strutture porterà, invece, ad una povertà generalizzata e graverà ulteriormente sul debito, già enorme, della nazione. Finanziariamente, infatti, il debito pubblico piemontese era il più alto tra gli stati preunitari: 1271,43 milioni di lire, contro i 441,22 delle Due Sicilie, che pure avevano una popolazione tripla. La goccia che fa traboccare il vaso delle finanze sardo-piemontesi è la guerra di Crimea, che porta Torino ad indebitarsi ulteriormente con i Rothschild, attraverso le banche inglesi. Il rischio di default èalto. Il deputato piemontese Pier Carlo Boggio dichiarerà che “il Piemonte non può permettersi indugi. Perché? Perché è in vista la bancarotta. La pace ora significherebbe per il Piemonte la reazione e la bancarotta”. È necessaria una guerra, che permetta di rapinare uno stato dalle finanze floride per ripagare parte del debito contratto. Le guerre d’Indipendenza saranno, quindi, guerre di rapina, che permetteranno al Piemonte di ripagare (ma solo nel 1902) il debito contratto con i Rothschild.


Nel frattempo, il 7 agosto 1855, di fronte alla Camera dei Comuni, Palmerston sferra un attacco frontale al regno borbonico, che “aveva dimostrato sfrontatamente la sua ostilità alla Francia e all’Inghilterra vietando l’esportazione di merci che il suo stato di neutrale gli avrebbe consentito tranquillamente di continuare a trafficare”. Una “palese violazione del diritto internazionale”, tanto più grave perché “perpetrata da un governo che si era macchiato di atti di crudeltà e di oppressione verso il suo popolo, assolutamente incompatibili con i progressi della civiltà europea”. Non importa se gli “atti di crudeltà” borbonici non siano mai stati confermati, anzi smentiti (come le lettere di Gladstone), né se fosse stata proprio Londra ad armare i rivoluzionari siciliani. Come non importerà, centocinquant’anni dopo, se Gheddafi avesse veramente bombardato manifestazioni pacifiche di suoi cittadini (fatto smentito dalle rilevazioni satellitari russe); né creato fosse comuni (le foto mostrate erano quelle del cimitero di Tripoli); né assoldato mercenari (come ammesso anche da Amnesty International). La Storia è scritta dai vincitori, con buona pace dei Gheddafi e dei Francesco II.


Il Regno delle Due Sicilie era diventato ufficialmente uno ‘stato-canaglia’ e gli serviva una tirata d’orecchi. Non con un intervento ‘diretto’ di Londra, ma attraverso il Piemonte, debitore della City: una nazione indebitata non è una nazione libera. Non potendo più privatizzare nulla per ripagare parte del debito contratto, per il governo sabaudo era necessario invadere stati sovrani dal Tesoro prospero, come le Due Sicilie, lo Stato Pontificio, i granducati di Toscana, Modena, Parma. Se la sovranità della moneta è nelle mani di banche private, che la emettono a debito, la produzione di altro debito (e il conseguente moltiplicarsi degli interessi) è l’unico modo che un governo possieda per rifinanziarsi. Un circolo vizioso, che rende il debito impagabile sin dalla sua contrazione iniziale, perché il suo pagamento presuppone una quantità di denaro aggiuntiva (l’interesse) di cui lo stato non dispone. Così, come nel Mercante di Venezia di Shakespeare, il debitore che non può pagare si trova nelle mani del creditore, che può disporne come vuole.


Non dovrebbe destare stupore, allora, sostenere che proprio i Rothschild, manovratori della City, furono i veri beneficiari di quella vasta operazione che verrà chiamata dai posteri ‘Risorgimento‘. L’eliminazione di stati sovrani economicamente e politicamente indipendenti dagli influssi d’oltremanica e oltralpe, significò non solo l’eliminazione di potenziali nemici, ma l’estensione in tutta Italia del modello economico piemontese. Il Piemonte era, infatti, non solo l’unico stato completamente nelle mani dei banchieri inglesi, ma anche l’unico ad essersi quasi privato del tallone aureo per l’emissione della moneta. La Banca Nazionale degli Stati Sardi, creata nel 1848 e di proprietà privata, aveva una riserva aurea di 20 milioni di lire, ma emetteva tre lire di carta ogni lira d’oro. Già prima del 1861 l’oro non era più sufficiente: troppe le spese di guerra. Nel 1866 verrà quindi introdotto il corso forzoso, ma sarà l’ufficializzazione di un’abitudine ormai consolidata. Se il Piemonte avesse rispettato la propria copertura aurea, certo non avrebbe potuto disporre della liquidità necessaria per muovere guerra al resto d’Italia e, nello stesso tempo, non avrebbe potuto espandere così tanto il suo debito pubblico. Una situazione simile a quella in cui si trovano oggi gli Stati Uniti, che facendo stampare denaro-debito senza copertura aurea dalla Federal Reserve (privata), si ritrovano con il più grande debito pubblico al mondo e con un bilancio gravato dalle maggiori spese militari della storia. Un ruolo, il loro, simile a quello del Piemonte di allora nella penisola italiana, cioè di poliziotto internazionale per conto terzi.


Totalmente diverso, invece, il modello economico duosiciliano. Il Banco delle Due Sicilie, a cui era affidata l’emissione monetaria, emetteva solamente ducati d’oro e d’argento. Non vi erano banconote, ma titoli di fede emessi esclusivamente a fronte di un avvenuto deposito. A unità compiuta, infatti, dei 607,4 milioni di lire a cui equivalevano le riserve auree del neonato Regno d’Italia, ben 443,2 milioni erano rappresentati dalle riserve borboniche e solamente 27 dal Piemonte. Nelle Due Sicilie il tallone aureo andava di pari passo con una politica economica autarchica e protezionistica: la produzione dei beni era funzionale al soddisfacimento della domanda interna e solo il surplus rimanente poteva essere esportato. La popolazione godeva inoltre della rete di strutture assistenziali già nominate. Questo rendeva il Sud borbonico decisamente sgradevole all’alta finanza. Il suo progresso era lento ma sicuro, la borghesia era impegnata nell’attività commerciale ed imprenditoriale (che crea sviluppo) e non in attività finanziarie (che sottraggono ricchezza alla collettività), la politica estera lontana da mire espansionistiche. Il regime ‘costituzionale’ che gli intellettuali europei sbandieravano contro Napoli, Roma e Firenze era, quindi, la copertura ideologica di un sistema economico che garantiva a pochi (i proprietari privati degli istituti di emissione monetaria) il potere su molti (il popolo) attraverso il monarca, il governo, il parlamento e il monopolio della violenza legittima di cui questi disponevano (per conto terzi). Per parafrasare Ezra Pound, non si trattava di una guerra tra stato liberale e monarchia assoluta, ma tra monarchie legittime e usurocrazie o daneistocrazie, ossia regimi in cui il potere è esercitato dai prestatori di denaro.

Filippo Curletti

Una guerra che, però, non fu mai dichiarata. Il governo sabaudo, infatti, non dichiarò mai guerra a nessuno degli stati preunitari, ma soltanto all’Austria. Nella logica di liberazione e unificazione dell’Italia, l’Austria era l’unico nemico ufficiale, perché invasore del Lombardo-Veneto. Non poteva dirsi altrettanto per gli altri stati italiani. Per il Piemonte era indispensabile, quindi, dare all’intervento militare una veste di ‘guerra di liberazione’ o ‘guerra umanitaria’ agli occhi dell’opinione pubblica europea, altrimenti l’ingresso dei soldati piemontesi in territorio straniero sarebbe parso per ciò che era: un’invasione. Le modalità con cui ciò avvenne ci vengono descritte da Filippo Curletti, un agente segreto di Cavour che, incarcerato dal conte quando non più utile, decise di vendicarsi rivelando per iscritto molti particolari scomodi sulle vicende ‘risorgimentali’. Coinvolto nei moti che portarono alla destituzione dei Lorena nel Granducato di Toscana, Curletti descrive la ‘rivoluzione’ fiorentina non come un moto popolare nato spontaneamente, bensì come un’operazione condotta da un gruppo di ottanta carabinieri travestiti da popolani, data l’indisponibilità dei fiorentini a ribellarsi ai Granduchi. Scrive Curletti: “la propaganda secreta dei Piemontesi nelle Romagne e nella Toscana cominciava a produrre i suoi frutti; tutto era pronto per una rivoluzione; i comitati che agitavano gli spiriti in questi due paesi sotto la direzione del Conte Cavour, domandavano al ministro il segnale dell’azione e qualche uomo sicuro per operare il movimento”. Una guerra sotterranea, come si può notare, fondata sulla propaganda e l’organizzazione segreta. Di fatto, i ‘ribelli’ erano armati da una potenza straniera (il Piemonte), come conferma anche l’epistolario dell’ammiraglio Persano, che scriveva a Cavour: “noi continuiamo, con massima segretezza, a sbarcare armi per la rivoluzione, a tergo delle truppe napoletane”. A Napoli come a Firenze, il metodo è lo stesso usato dieci anni prima a Palermo dagli inglesi. Tornando a Curletti, l’agente spiega come le modalità con cui si sarebbero svolti i moti furono decise a tavolino da lui e dall’ambasciatore piemontese. Gli agenti, mascherati da popolani, avrebbero formato una compagine numerosa che, al grido di “Viva l’Indipendenza! Abbasso i Lorena!”, si sarebbe diretta verso Palazzo Pitti. Mentre il clamore così suscitato riusciva a coinvolgere alcuni fiorentini, Curletti ed i suoi uomini correvano a sequestrare le casse pubbliche del Granducato: “alle 4 del pomeriggio Buoncompagni era installato nel palazzo del Sovrano presso il quale era accreditato; alla stessa ora tutte le casse pubbliche erano vuote, senza che una sola lira sia entrata nel tesoro piemontese. Quelli che non avevano potuto prendere parte al saccheggio si installarono chi alle poste chi ai ministeri. (…) Io ricevetti per mia parte dalle mani stesse di Buoncompagni una gratificazione di seimila franchi”. Si è trattato, quindi, di una vera e propria rapina, condotta da agenti cavouriani ai danni del Granducato di Toscana. Ma Firenze non è stato un caso isolato. Curletti fornisce i suoi servigi di stato in stato: Toscana, Parma, Modena, Stato Pontificio, Due Sicilie e le modalità di sovversione e rapina che descrive sono le stesse in ogni stato. Rapine che superano i limiti della decenza se ci si attiene a quanto Curletti testimonia relativamente al ducato di Modena. Qui il plenipotenziario sabaudo La Farina, che aveva sostituito il duca, avrebbe ordinato all’uomo fidato di Cavour di raccogliere tutto l’oro e l’argento del duca e di farlo fondere. Ma non prima di aver scritto un articolo sul quotidiano locale in cui dichiarava che il duca si era portato via tutto, in modo che nessuno si chiedesse che fine avessero fatto i preziosi della nobile famiglia. L’oro e l’argento, assunta una nuova forma, non sarebbero più stati esigibili da parte dei duchi ad un loro eventuale ritorno. Non paghi di ciò, lo stesso Curletti, insieme ad altri, si è reso autore di vere e proprie estorsioni. Usufruendo del nuovo ruolo di tutore dell’ordine pubblico, aveva il dovere di stilare una lista di proscrizione di tutti i fedelissimi del duca. Tra questi vi erano sempre (casualmente?) i personaggi più ricchi della città, ai quali venivano estorte laute somme di denaro in cambio della cancellazione dalla lista (che li avrebbe salvati dall’arresto o dalla confisca dei beni). Vere e proprie azioni banditesche, che trovano paragone solo con quelle di… Giuseppe Garibaldi. Non si può parlare di Risorgimento, infatti, senza citare il Generale dei Mille.


Garibaldi veniva trattato dalla stampa inglese come un vero e proprio idolo: un’icona della libertà dei popoli. The Time lo elogiava come eroe senza macchia e senza paura e la Marina britannica in diverse occasioni si prodigò a suo favore. Come quando, nel 1841, gli fu salvata la vita dal commodoro Pulvis alle foci del River Plate. O quando la flotta britannica intervenne per salvarlo dalle grinfie degli argentini. O a Capo Matapàn, dove un veliero britannico agganciò il suo barcone, ormai privo di viveri e senza timone, dopo un assalto dei pirati berberi. Insomma, ogni volta che l’eroe dei due mondi rischiava la vita, c’era una nave battente bandiera britannica pronta a salvarlo. Sarebbe troppo scontato chiedersi: per chi lavorava Garibaldi?


Forse la risposta ce la può dare lo storico Giulio di Vita, che ci porta a conoscenza dei tre milioni di franchi francesi donati dalla corona britannica a Garibaldi e ai suoi uomini, poi convertiti in piastre d’oro turche: la moneta usata all’epoca per le transazioni finanziarie nel mediterraneo. A cosa servivano quei soldi? Proviamo a rispondere con un altra cifra: 2.300. È il numero di generali borbonici che, dopo la caduta delle Due Sicilie, hanno trovato una collocazione di pari ordine e grado all’interno dell’esercito piemontese. Tra questi c’è anche Guglielmo Acton, comandante della corvetta Stromboli. Acton era di guardia alla costa siciliana quell’11 maggio 1860 in cui i garibaldini sbarcarono a Marsala, protetti dalle cannoniere britanniche Argus e Intrepid. Delle quattro navi duosiciliane, solo lo Stromboli e il Capri (guidato da Marino Caracciolo) si accorsero della presenza del Piemonte e del Lombardo, le due navi di Garibaldi. Cosa fecero? Attesero pazientemente che le navi fossero vuote per poi cannoneggiarle, quando ormai non si correva più il rischio di fermare lo sbarco. Ma tra di essi c’è anche il generale Ferdinando Lanza, che avrebbe dovuto difendere Palermo dall’attacco garibaldino. Invece le porte resteranno sguarnite, lasciando via libera ai 3.000 uomini di Garibaldi (i Mille, più 2.000 ‘picciotti’), mentre i 24.000 soldati agli ordini di Lanza resteranno nel Palazzo Reale. Non contento, Lanza consegnerà nelle mani di Garibaldi le casse del Regio Banco di Sicilia. Casse piene d’oro, dato che giusto l’anno prima i pavimenti dell’edificio erano stati rafforzati appositamente per evitare crolli, a causa dell’eccessivo peso delle riserve. Una rapina in grande stile: 5 milioni 444 ducati e 30 grani, l’equivalente di circa 86 milioni di euro di oggi. Quell’appropriazione indebita, messa agli atti anche dall’ammiraglio inglese Mundy, che sorvegliava le coste sicule a sostegno di Garibaldi, sarà il primo atto della spoliazione del Sud, come vedremo più avanti.



Altrettanto sciagurato sarà il tradimento del generale Landi, che guidava le truppe borboniche a Calatafimi. In quell’occasione, Landi ordinò la ritirata ai suoi 3.000 uomini, nello stupore generale, cedendo la vittoria senza combattere a mille uomini male armati. L’atto di disonore era stato comprato con un titolo di fede di 14.000 ducati, pari a 224mila euro di oggi, ricevuto personalmente da Garibaldi. Quei soldi però non li vedrà mai: il titolo di fede era taroccato e di ducati ne valeva solo 14. Il Regno delle Due Sicilie cadeva per una tangente mai incassata.



Ora forse ci è più chiaro a cosa servissero i tre milioni di franchi francesi convertiti in piastre d’oro turche donate dagli inglesi a Garibaldi. Al suo fianco, Nino Bixio aveva il compito di tenere i contatti con il nemico, per individuare quanti fossero pronti a vendere la propria fedeltà per qualche gruzzolo d’oro. Non solo gli inglesi, attraverso i mercenari garibaldini, si prodigarono nella corruzione. Nell’ottobre 1882, Pietro Borelli scriverà sulla Deutsche Rundschau:“gli iniziati sanno che tutta la rivoluzione in Sicilia fu fatta da Cavour, i cui emissari militari, vestiti da merciaiuoli girovaghi, percorrevano l’isola e compravano a prezzo d’oro le persone più influenti”. Infatti, l’ammiraglio Persano riporterà nei suoi diari: “possiamo ormai far conto sulla maggior parte dell’officialità della marina regia napoletana”. Il modo migliore per vincere contro la seconda flotta militare d’Europa era comprarne i vertici. Con buona pace di quei soldati e marinai che, ricordando la fedeltà giurata al loro sovrano, rifiutarono di combattere contro i propri connazionali: furono fucilati su esplicito ordine di Cavour, sebbene le leggi sabaude non prevedessero la pena di morte per diserzione.

Ma ci furono anche morti eccellenti. Come quella del garibaldino Ippolito Nievo, affondato, il 4 marzo 1861, insieme al piroscafo Ercole che lo stava trasportando in Sicilia. La sua morte fu subito sospetta: la perdita di contatto del piroscafo con la nave che lo precedeva, il ritardo nei soccorsi, il fatto di essere stato l’unico battello che solcava il Tirreno verso la Sicilia ad affondare. Elementi che puzzano. Soprattutto perché Nievo era Vice Intendente e, come tale, responsabile dell’amministrazione del corpo di spedizione garibaldino. A causa delle critiche malevole nei suoi confronti, fu costretto a redarre un rendiconto meticoloso e dettagliato delle spese sostenute, per difendersi dalle accuse di malagestione o corruzione. Dal documento, sarebbero facilmente emersi i contributi inglesi e piemontesi alla spedizione dei Mille, le tangenti pagate ai generali e funzionari borbonici, i soldi sottratti alle popolazioni meridionali come “spese di guerra” (e mai rimborsati). Tra i compiti dell’Intendenza, infatti, vi era proprio la gestione delle piastre d’oro turche pagate da Londra a Garibaldi. Ma un incendio nelle caldaie dell’Ercole ha trascinato i documenti segreti nel Tirreno.



L’opera di corruzione che abbiamo descritto, però, difficilmente avrebbe potuto, da sola, far crollare il Regno delle Due Sicilie. Serviva un’organizzazione capillare, segreta e parallela alle vie di comunicazione ufficiali. La vedova Whitaker ci informa nei suoi diari delle riunioni che si tenevano nei salotti (anche inglesi) della Sicilia. Come quelle durante le feste settimanali di Pietro Riso, in cui si incontravano i nobili filo-inglesi: al primo piano si ballava e si festeggiava, per deviare l’attenzione, mentre al piano superiore si organizzavano azioni anti-governative. Ma sono le logge massoniche e, più in generale, le società segrete ad avere la migliore struttura di infiltrazione. Molti esponenti del Risorgimento, a partire da Garibaldi e Cavour, ne erano affiliati. L’unità massonica trarrà a sé l’unità politica d’Italia”, diceva Garibaldi, che si era iscritto alla loggia Asile de la Vertu di Montevideo e nel 1864 divenne anche Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia. Una carica ricoperta oggi da Giuliano di Bernardo, che, in un’intervista al Corriere delle Alpi del 16 marzo 2011, ricordava come l’Unità d’Italia sarebbe stata “impossibile senza la Massoneria”, proprio per la capacità di collegamento operativo tra le logge. La fedeltà al Re era quindi messa da parte per una fedeltà più elevata: la fedeltà al Maestro. Quel Maestro era probabilmente Lord Palmerston, primo ministro inglese ma soprattutto fondatore dell’Ordine Reale di Sion, a cui facevano capo (presumibilmente) le logge massoniche italiane e le vendite carbonare. Se le prime erano state represse su volontà di Ferdinando II nel periodo dal 1825 al 1832 e costrette a sopravvivere in segreto, le seconde avevano in passato mostrato fedeltà ai Borboni. Durante la Repubblica Partenopea, infatti, il loro ruolo fu determinante nel 1813-14, quando furono alla base di sollevazioni filo-borboniche in Calabria ed Abruzzo. Ma la fedeltà a Londra era più vincolante. Gli 800mila affiliati alla Carboneria nelle Due Sicilie scelsero, con molta probabilità, di tradire la monarchia e forse fu questo a decretarne la fine. L’organizzazione delle società segrete e delle logge era tale da garantire una sovversione interna, comprando, delegittimando o uccidendo chi ostacolava i loro piani. Il loro progetto è contenuto nell’Istruzione permanente del 1818, redatta dall’Alta Vendita, la direzione strategica della Carboneria. L’azione di propaganda non dissimile da quella, già mostrata, della stampa d’oltremanica. Infatti: “schiacciate il nemico, quando è potente, a forza di maldicenze e di calunnie; […] una parola può, qualche volta, uccidere un uomo […]. Come l’Inghilterra e la Francia, così l’Italia non mancherà mai di penne che sappiano dire bugie utili per la buona causa. Con un giornale in mano, il popolo non avrà bisogno di altre prove”.



Dalle calunnie era necessario, però, passare ai fatti. Alcuni fatti emblematici avvennero nelle Due Sicilie prima dell’aggressione dei mercenari garibaldini. Uno di questi è l’insubordinazione di due dei quattro reggimenti svizzeri, che costituivano la guardia scelta del re, il 7 luglio 1859. “Nelle loro tasche tintinnava più denaro del solito”, scriverà il Barone von Hubner, ambasciatore austriaco a Napoli. Mentre Brenier, suo omologo francese, sarà ancora più chiaro, descrivendo l’ammutinamento come un “sommovimento concordato da ambienti ultra-liberali, che avevano distribuito ai soldati svizzeri ben 100mila franchi svizzeri in oro”. Se la corruzione aveva raggiunto persino la guardia scelta del re, non c’era più scampo per la monarchia di Napoli. Alessandro Nunziante, braccio destro del sovrano, suggerirà il congedo per i soldati svizzeri. Ma questa scelta contribuirà a lasciare Napoli sguarnita all’arrivo del nemico. Ovviamente, ritroveremo Nunziante tra i piemontesi.




Cruciale fu anche la tentata uccisione di Salvatore Maniscalco, il capo della polizia borbonica a Palermo, accoltellato sugli scalini della cattedrale. Siniscalco era l’uomo giusto al posto giusto: aveva informatori in tutta la città, che gli permettevano di essere al corrente di ogni crimine commesso in città, ed avrebbe facilmente scoperto in anticipo i tentativi di corruzione degli alti ranghi dell’esercito. Le ferite lo costrinsero a dodici mesi di convalescenza, che gli impedirono d’interferire con l’invasione garibaldina. Ad accoltellarlo fu il pregiudicato Vito Farina, detto Farinella, per seicento ducati d’oro: sarà il primo esempio di alleanza tra la Mafia siciliana e la finanza anglosassone.



Ma non fu l’unico tentativo di omicidio politico. Il più importante era stato compiuto tre anni prima ai danni dello stesso Ferdinando II, durante la processione dell’8 dicembre. Contro di lui si scagliò Agesilao Milano, un soldato regio di origine albanese, che lo colpì con una baionetta. Non fu grave e la ferita si rimarginò, ma è curioso quanto successe dopo. Il re infatti avrebbe perdonato Milano, tanto che, durante la medicazione della ferita, avrebbe criticato il medico che aveva definito “infame” l’attentatore: «non si deve dir male del prossimo; io ti ho chiamato per osservare la ferita e non per giudicare il misfatto; Iddio lo ha giudicato, io l’ho perdonato. E basta così». Se Ferdinando aveva perdonato il Milano, perché farlo giustiziare, come avvenne pochi giorni dopo? Secondo quanto riporta il Mencacci, contemporaneo agli accadimenti, nella sua Storia della Rivoluzione Italiana, il Milano avrebbe volentieri cantato come un uccellino per evitare la pena capitale ed era pronto a fare i nomi degli affiliati che l’avevano spinto ad agire e che circondavano il sovrano stesso. Meglio, quindi, processarlo subito per direttissima, con la scusa di voler salvaguardare la vita del re. Nel frattempo, le accuse ricadranno su Cavour, che negherà di essere il mandante del tentato regicidio, ma istituirà un fondo per la famiglia di Milano, che sarà riconfermato da Garibaldi al suo arrivo a Napoli.



Casi come quelli di Agesilao Milano e Salvatore Maniscalco non accaddero solo nelle Due Sicilie. Il 26 marzo 1854 il Duca di Parma, Carlo III, era stato accoltellato in strada da uno sconosciuto. Non di poco rilievo il fatto che Parma fosse uno dei centri più importanti della Carboneria riformata. Il 4 marzo, tre settimane prima, era toccata la stessa sorte al sovrintendente alla direzione della pubblica sicurezza. Due settimane prima, la città era stata teatro di un altro attentato, questa volta fallito, ai danni del colonnello Anviti, comandante delle truppe ducali. Poco dopo verrà ucciso però l’ispettore Borgi, che dirigeva le investigazioni sull’attentato ad Anviti. Quale mano dietro questa scia di sangue? Leo Zagami, nelle sue Confessioni di un Illuminato, pubblica una ricevuta che attesta il finanziamento britannico alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Soldi che servivano a finanziare insurrezioni, ma anche omicidi politici. Mazzini era infatti alla guida del Comitato Centrale Democratico Europeo, di cui facevano parte Adriano Lemmi, Lajos Kossuth, Ledru Rollin, Felice Orsini, Alexander Herzen, Michele Bakunin. Di questi, mi limito a ricordare l’Orsini, che il 14 gennaio 1858 tentò di assassinare Napoleone III scagliando una bomba contro la sua carrozza: il regicidio fallì, ma ci furono 12 morti e 156 feriti. Mazzini aveva organizzato anche un altro attentato contro Luigi Napoleone, il 28 aprile del ’55. L’attentatore, Giovanni Pianori Faenza, mancò l’obiettivo, ma anche in quell’occasione i finanziamenti per l’attentato venivano da Londra, con l’intento di spingere Napoleone ad assumere una posizione più decisa sulla ‘questione italiana’.


Ritorniamo ora al Sud, per affrontare una questione che potrebbe lasciare di stucco più di qualcuno. Poco sopra, abbiamo descritto le rapine effettuate da Garibaldi ai danni del Regio Banco di Sicilia, analoghe a quelle di Curletti a Firenze, Parma, Modena e in altre città. Le appropriazioni indebite di Garibaldi provocarono non pochi danni al Banco delle Due Sicilie, che si ritrovò, ad unificazione compiuta, quasi privo di riserve auree o argentee con cui concedere prestiti. Situazione aggravata dal comportamento del neonato governo unitario. L’istituto, infatti, che era l’unico deputato all’emissione monetaria nel regno borbonico, non solo fu scisso in due istituti diversi (Banco di Napoli e Banco di Sicilia), ma gli fu esplicitamente proibito di ritirare dalla circolazione i ducati d’oro e d’argento duosiciliani, che costituivano oltre il 65% della moneta circolante nella penisola. A provvedere ad un loro graduale ritiro ci pensò la Banca Nazionale degli Stati Sardi (poi Banca Nazionale del Regno d’Italia) insieme ad altri istituti di credito nati ad hoc: il Banco di Sconto e Sete (creato nel 1863 attraverso fondi Rothschild), il Credito Mobiliare di Torino, la Cassa di Sconto di Torino e la Cassa Generale di Genova. Insieme, le quattro banche costituirono una cordata guidata da Carlo Bombrini, amico di Cavour e direttore della banca centrale sabauda, che le utilizzerà per spostare al Nord le commesse imprenditoriali meridionali. In pratica, le uniche due banche meridionali si trovarono impossibilitate a fornire credito nel Meridione, non potendo ritirare le monete d’oro e d’argento da loro stesse emesse, che sarebbero servite come garanzia per i prestiti. Tutte le monete borboniche furono invece ritirate da banche settentrionali, fondate proprio negli anni dell’unificazione, che le usarono come garanzia per concedere prestiti ad imprenditori settentrionali. Un perfetto esempio di capitalismo di rapina, che rispondeva ad un piano di spoliazione e spartizione progettato sin nei minimi dettagli. “I napolitani non dovranno essere mai più in grado di intraprendere”, scrisse Bombrini. E così fu.



Tra i beneficiari di questo sciacallaggio, ci fu anche Francesco Cirio, che grazie ai finanziamenti del Credito Mobiliare di Torino diede vita alla prima industria conserviera italiana. Cirio approfitterà dell’impossibilità per le imprese meridionali di usufruire dei prodotti della loro terra per creare un giro d’affari che lo porterà ad ottenere dapprima concessioni ferroviarie agevolate per il trasporto di alimenti all’estero (grazie alla legge Cirio del 1885) e poi addirittura una posizione di monopolio sulla Società Ferroviaria dell’Alta Italia. Contratti agevolati proprio dal Bombrini, che attraverso la cordata bancaria di cui sopra riuscirà ad ottenere almeno tredici concessioni ferroviarie. Un’operazione non da poco se si pensa che il suo stesso amico Cavour era azionista della Società Anonima Molini Anglo-Americani e non poteva non nutrire interesse nell’esportazione del grano tramite via ferrata. Un conflitto d’interessi notevole, che si aggiunge al suo comportamento durante la crisi granaria del 1853. In quell’occasione, mentre l’autarchia borbonica impediva l’esportazione di grano per assicurare il cibo a tutti i cittadini, il Piemonte liberista la favoriva apertamente, mettendo il profitto del primo ministro davanti al sostentamento del popolo.



“Ai napoletani non rimarranno nemmeno gli occhi per piangere”, furono le ultime parole di Francesco II, che resse il trono di Napoli dopo la morte del padre Ferdinando. Profetiche o forse consapevoli di quanto sarebbe accaduto al suo regno. Come consapevoli ne erano, probabilmente, i veneti che, nel 1866, si sarebbero opposti all’invasione sabauda. Contrariamente alla vulgata della storiografia ufficiale, l’esercito ‘asburgico’ si chiamava Austro-Veneto e vide i veneti combattere a difesa degli Asburgo contro i ‘tajani. Come a Lissa, nell’alto Adriatico, quando il 20 luglio 1866 la Imperial Veneta Marina sconfiggerà la Regia Marina italiana. La nave ammiraglia Re d’Italia
Una rappresentazione della battaglia di Lissa


verrà rovinosamente affondata dalla Ferdinand Max, grazie al capotimoniere Vincenzo Vianello di Pellestrina, incitato così dall’ammiraglio Tegetthoff: “Daghe dosso, Nino, che la ciapèmo!”. Gli equipaggi erano infatti veneti, parlavano veneto e festeggiarono quella vittoria urlando “Viva San Marco!”. Come si può, dunque, parlare di ‘guerra d’indipendenza’ e non di ‘guerra d’invasione’? I libri di storia non spiegheranno mai, infatti, come avrebbe potuto una nazione priva di sbocchi al mare come l’Austria sconfiggere l’Italia in campo marittimo: ma la memoria storica è scritta sulla sabbia, lo spirito critico una moda d’altri tempi.

Proprio per abbracciare passato e presente in unico sguardo, concludiamo questo lungo articolo sulla Rivoluzione Italiana, facendo nostre le parole di Curletti: quella che io espongo è la storia di tutte le rivoluzioni. Esse sono quasi sempre l’opera di qualche uomo a cui due o tre funzionari comprati aprono le porte e di cui il popolo, per lo più indifferente alle questioni che si agitano, diventa il complice senza saperlo, prestando loro, per curiosità o per desiderio di rumore, il soccorso imponente delle sue masse”.



Bibliografia

• Angela Pellicciari, L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata, Piemme

• Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia, Piemme

• Angela Pellicciari, I panni sporchi dei Mille. L’invasione delle Due Sicilie nelle testimonianze di Giuseppe La Farina, Carlo Pellion di Persano e Pier Carlo Boggio, Liberal Edizioni

• Filippo Curletti, La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d’Italia, Solfanelli

• Nicola Zitara, L’unità d’Italia: nascita di una colonia, Jaca Book

• Cesaremaria Glori, La tragica morte di Ippolito Nievo. Il naufragio doloso del piroscafo Ercole, Solfanelli

• Marco Della Luna, Basta con questa Italia! Il fallimento dello stato mafio-massonico, Arianna Editrice

• Cristopher Duggan, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, Laterza

• Eugenio Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee (1830 – 1861), Rubettino

• Erminio de Biase, L’Inghilterra contro il Regno delle Due Sicilie, ControCorrente


Articolo di Jacopo Castellini – Tratto da Nexus New Times nr. 98 OH NN SIAMO QUI A PETTINARE LE BAMBOLE . QUI NN C'ERO.NN HO COGNIZIONE,SE QUALCUNO SUL TREDDO ERA PRESENTE AI FATTI. UN CULO DELLA MADONNA X ESSERCI ANCORA E UN COMMENTO SAREBBE GRADITO
 
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Ps. Carl rothschild pero'c'era gia'.quindi desumetene le conseguenze,visto che l'italia fu fatta x unire i debiti stati-regioni;)ricordatevi chi presto' al papato nel 1800 una cariola di note da banco ?bersani? Vendola?di pietro? Zio silvio?pier ferdi? No no , zio carl:ddi cui sopra. Chi gestisce i beni dello ior? Mah.....
 
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4 dicembre 2012 |
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Autore Missione Trasparenza | Stampa articolo
Scritto da Angela Iannone * Link




La notizia è di qualche giorno fa e desta preoccupazioni: il Tribunale dell’Unione europea ha dato ragione alla Banca Centrale Europea che si era opposta alla divulgazione di alcuni documenti ad un giornalista di Bloomberg sulla situazione economica della Grecia.
Il motivo adottato dalla Corte di Giustizia è stato il seguente: il diritto di accesso alle informazioni concernenti la Bce “non può minare la tutela dell’interesse pubblico della politica economica dell’Ue e della Grecia”.
Il fatto risale ad agosto 2010, quando Gabi Thesing, giornalista del quotidiano economico, chiese alla Bce l’accesso a due documenti: “Impatto su deficit e debito pubblici degli swap negoziati fuori borsa. Il caso della Grecia” e “Operazione Titlos e la possibile esistenza di operazioni analoghe con impatto sui livelli di debito e deficit pubblici della zona euro“.
La possibilità di consultare tali files venne negata alla giornalista per garantire la tutela dell’interesse pubblico sulla politica economica europea e greca. Una motivazione che non convinse la giornalista, decisa ad impugnare il ricorso davanti la Corte Europea di Giustizia.

E qualche giorno fa il responso che ha respinto il ricorso della cronista, ricordando come in quell’anno i mercati finanziari europei vertevano in una difficile e vulnerabile situazione proprio a causa del rischio default greco. La Bce, secondo il Tribunale, può quindi rifiutare l’accesso a un documento, quando “la sua divulgazione arrechi in particolare pregiudizio alla tutela dell’interesse pubblico”, nonostante la premessa che “qualsiasi cittadino dell’Unione e qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro ha un diritto d’accesso ai documenti della Banca Centrale europea”.
Secondo il Guardian, questa storica sentenza nega ai contribuenti europei il diritto di sapere se i funzionari dell’Ue erano a conoscenza di irregolarità nei conti nazionali della Grecia prima del 2009, “costringendoli” oggi a pagare il conto per il salvataggio di Atene.
Una situazione che secondo Georg Erber, specialista di regolamentazione dei mercati finanziari presso il German Institute for Economic Research, era già nota da tempo: “I tribunali modificano i regolamenti per legalizzare le politiche delle istituzioni europee e contribuire a garantirne stabilità. Tutto ciò – continua – rivela implicitamente che l’Unione europea era ben informata di quanto stava accadendo e non ha preso provvedimenti per evitare la crisi”.
Secondo Erber, ma anche secondo Bloomberg, la Bce è quindi in possesso di alcuni documenti legati alle transizioni del 2001 che con l’appoggio di Goldman Sachs e di altre banche hanno nascosto fino al 2010 la reale portata del debito greco.
In particolare, la situazione degli swap fuori mercato che avrebbero permesso al Paese di aumentare il debito di 5,3 miliardi di euro, di cui 2,8 miliardi presi in prestito nel 2001 proprio da Goldman Sachs.
PUBBLICATO DOMINIO E POTERE













2 Commenti a “Debito Grecia: il Tribunale Europeo lo occulta per motivi di riservatezza”
















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biancuzzola:
 
Più ti addentri nei suoi meandri e più ti accorgi che è piena di snodi, maglie, matasse, connessioni, correlazioni spesso difficili da districare e dipanare con chiarezza ed efficacia. Per questo motivo, per affrontare meglio l’analisi, gli economisti lavorano quasi sempre utilizzando dei modelli che consentono di semplificare i comportamenti individuali e accorpare le grandezze aggregate (consumi, investimenti, spesa, offerta, domanda, inflazione etc). I modelli hanno la stessa importanza e funzione delle carte geografiche per un esploratore, perché servono ad indicare una rotta, un percorso: maggiore è la scala del modello, il grado di dettaglio e maggiore sarà la visione complessiva di tutte le strade percorribili. Ogni economista inoltre enfatizza nel modello la caratteristica che vuole di più evidenziare, così come i cartografi fanno mappe politiche, geografiche, morfologiche, toponomastiche, stradari, a seconda di quelli che sono gli usi richiesti dai fruitori. Tuttavia, quando gli economisti cercano di costruire modelli basandosi su modelli precedenti e non direttamente sulla realtà avviene il fenomeno di distorsione, di corto circuito e di inarrestabile alterazione dei risultati ottenuti che ben conosciamo: finisce la fase di utile e interessante descrizione dei processi reali e inizia quella della modellizzazione del modello, della mistificazione.




Le mappe economiche basate su modellizzazioni successive portano quasi sempre fuori strada, sia perché partono spesso da premesse iniziali sbagliate, sia perché le direzioni, diramazioni, destinazioni di arrivo hanno davvero pochi riscontri con ciò che accade intanto nella realtà o si evince dai dati sperimentali. In un precedente articolo, abbiamo visto per esempio come la correlazione che molti esploratori sprovveduti (definiti come dei veri e propri automi che ripetono meccanicamente sempre gli stessi concetti senza mai prendersi la briga di ragionare prima di parlare) fanno fra svalutazione e inflazione è nella maggior parte dei casi infondata e trova davvero pochi agganci con i dati sperimentali della realtà. Senza dubbio possiamo dire che entrambe queste grandezze influiscono a definire il “prezzo” o il valore di una certa moneta, ma partendo da presupposti diversi: l’inflazione misura il valore interno della moneta tramite il potere di acquisto, la svalutazione (o rivalutazione) serve invece a quantificare il valore esterno della moneta tramite il tasso di cambio (esiste poi una terza variabile, il tasso di interesse, che identifica il valore intertemporale di una moneta). Basterebbe già riflettere a fondo su queste definizioni per capire che fra svalutazione e inflazione c’è in mezzo un oceano di elementi, fattori, variabili, caratteristiche produttive di un certo sistema paese che impediscono la postulata e quanto mai assurda relazione diretta di causa effetto fra svalutazione e inflazione. Ma per capire meglio quanto già detto e dimostrato, ricorriamo ad un semplice esempio.






Immaginiamo di trovarci all’interno dell’azienda italiana X che produce un certo prodotto Y. Senza addentrarci troppo nelle caratteristiche produttive dell’azienda, ipotizziamo che la struttura dei costi all’interno dell’azienda sia quella descritta dalla tabella sotto, dove viene fatta una prima importante distinzione fra i costi variabili, che cambiano in base alla quantità di beni prodotti, e costi fissi di struttura, che non cambiano al variare della quantità di produzione ma soltanto quando l’azienda effettua degli investimenti per aumentare o diminuire l’insieme dei suoi fattori produttivi (capitale e lavoro). Immaginiamo adesso che l’Italia decida di uscire dalla zona euro e di ritornare alla lira, che come abbiamo già dimostrato con l’applicazione della teoria della parità relativa del potere d’acquisto dovrebbe subire una svalutazione complessiva del 20% circa rispetto all’euro. Cosa cambierà effettivamente all’interno dell’azienda, nella struttura dei costi e dei profitti? Vediamolo utilizzando dei numeri volutamente semplificati.









Immaginiamo che l’azienda X produca a regime 100 prodotti X in un anno con un costo di produzione complessivo pari a 100 distribuito nella seguente maniera: 20 da imputare alle materie prime, 20 al costo del personale e 10 a tutte le altre voci di costo. Il costo unitario per prodotto è uguale ad 1 e ipotizzando un rendimento atteso da parte dell’imprenditore pari al 10%, il prezzo di vendita del bene sarà di 1,1, con un margine operativo lordo pari a 10 (l’utile netto si ricava dopo il pagamento delle imposte, che per il momento consideriamo ininfluenti in quanto fattore esogeno e non endogeno alla produzione). La svalutazione della lira provocherà evidentemente per l’azienda un aumento di prezzo soltanto per quella parte di costi riferita ai beni e servizi importati dall’estero, che ragionando per assurdo potranno essere i seguenti: materie prime, lavorazioni esterne e acquisto servizi produttivi. Ripetiamo che stiamo ragionando per assurdo, immaginando che l’azienda importi tutte le materie prime, appalti le lavorazioni esterne e acquisti i servizi produttivi, come per esempio l’energia, dall’estero. Nella realtà sappiamo che non è così, perché nessuna azienda italiana avrà mai una così forte dipendenza dall’estero, potendo acquistare parte delle materie prime e dei servizi anche in suolo nazionale. Facendo però questa approssimazione per eccesso, avremo che il costo delle materie prime sarà aumentato da 20 a 24 (+20% di svalutazione), il costo delle lavorazioni esterne da 10 a 12, il costo dei servizi produttivi da 10 a 12. Il costo complessivo per produrre la stessa quantità 100 di beni Y sarà adesso pari a 108. Immaginando che l’imprenditore voglia ricavare dalla vendita lo stesso rendimento del 10%, avremo che il valore del fatturato sarà pari a 118,8 e il prezzo unitario di vendita sarà salito a 1,188. L’incremento di prezzo unitario risulterà quindi di 0,088, ovvero l’8% in più rispetto al prezzo iniziale di 1,1. Ciò significa che anche in presenza di ipotesi forti l’effetto della svalutazione monetaria della lira del 20% non si è tradotto in un aumento del 20% dei prezzi come postulano gli automi scriteriati, provocando appunto un’inflazione del 20% (almeno su quello specifico bene prodotto), ma già in condizioni tanto estreme ed assurde la correlazione si è praticamente più che dimezzata.




Capite bene che se invece ragioniamo su ipotesi più realistiche, l’aumento previsto dei prezzi interni dei beni e servizi prodotti in Italia, causato da una svalutazione del 20%, sarà molto inferiore all'8%. Inoltre l’imprenditore potrebbe rispondere all’aumento dei costi delle materie prime, lavorazioni esterne e servizi produttivi acquistati all’estero, rimodulando la stessa struttura dei costi dell’azienda (per esempio potrebbe decidere di acquistare parte delle materie prime e dei servizi da aziende italiane, subendo un aumento dei costi molto inferiore rispetto al 20%, come dimostrato prima) oppure diminuendo il rendimento atteso del suo investimento dal 10% all’8% o al 7%. In aggiunta a queste modifiche interne all’azienda, l’uscita dall’Italia dalla zona euro potrebbe comportare dei cambiamenti istituzionali importanti, come il recupero della sovranità monetaria e la possibilità per lo Stato Italiano di diminuire discrezionalmente il livello insostenibile di tassazione che grava sulle piccole e medie imprese italiane (che oggi arriva a sfiorare cifre impressionanti del 65% della tassazione complessiva in rapporto al reddito imponibile), consentendo all’imprenditore di mantenere invariato il ritorno economico del suo investimento.




Ma c’è anche un altro fattore da considerare: la svalutazione della lira dovrebbe ragionevolmente comportare un aumento delle vendite e delle esportazioni grazie al recupero della competitività di prezzo delle aziende italiane rispetto a quelle estere e ad un miglioramento della domanda interna. Immaginando un aumento delle vendite del 10%, avremo che l’azienda X adesso produrrà 110 prodotti Y al costo complessivo di 113,8 (la componente di costi fissi di struttura non cambia ed è pari a 50, mentre aumenta la componente dei costi variabili fino a 63,8) e con il rendimento previsto del 10%, avremo che il valore del fatturato sarà di 125,18 e un prezzo unitario fissato dall’imprenditore di 1,138 (stiamo volutamente semplificando e ipotizzando che le condizioni di mercato consentano all’imprenditore di fissare liberamente il prezzo e il rendimento desiderato, ma sappiamo bene che non sempre è così e bisogna tenere conto del comportamento delle aziende concorrenti). Ovvero in questo caso l’incremento marginale di prezzo rispetto all’iniziale 1,1 sarà di 0,038 e avrà un impatto ancora minore pari al 3,45%, perché entrano in gioco i meccanismi di efficienza delle cosiddette economie di scala (più produco, meno incidenza avranno i costi fissi di struttura sui costi unitari del prodotto).




Questa descrizione serve quindi a smontare definitivamente il collegamento diretto fra svalutazione e inflazione, perché è evidente che chi la suggerisce non abbia mai lavorato in un’azienda o analizzato seriamente la struttura dei costi di produzione riportata sul conto economico di un normale bilancio d’esercizio: i soliti automi lobotomizzati insomma, che cercano di spaventare la gente con le paure e le superstizioni di medievale memoria. Se l’ignoranza non è spesso una colpa, la malafede è invece sempre un’aggravante e la conoscenza, o quantomeno la ricerca di conoscenza, chiarezza, consapevolezza, rimane ancora oggi l’unica via da seguire per liberarsi dalle catene dell’oscurantismo imperante. L’inflazione, fuori da essere un mostro diabolico da esorcizzare con strani rituali, è un semplice fenomeno economico che risiede molto di più tra le maglie della cosiddetta economia reale, nei processi microeconomici interni alle aziende, dalle dinamiche di domanda e offerta di un certo bene fino ai contratti del mercato del lavoro, rispetto alle grandi manovre macroeconomiche e monetarie messe a punto per esempio da una Banca Centrale, che come abbiamo detto più volte, stante l’attuale organizzazione del sistema bancario e finanziario, può incidere solo in modo indiretto e molto limitato sui livelli di inflazione desiderati. Prima arriviamo a metabolizzare meglio questi concetti e prima usciremo fuori sani e salvi dai pantani.




Avendo chiaro dunque che fra svalutazione e inflazione non esiste affatto una correlazione diretta ma al massimo indiretta, provvisoria e marginale, vediamo adesso di analizzare punto per punto altri due fattori su cui insiste molto la propaganda di regime con il solito scopo di disorientare, confondere, terrorizzare l’opinione pubblica, in relazione all’uscita dall’euro e al provvidenziale recupero della nostra moneta sovrana lira:




<!--[if !supportLists]--> 1) <!--[endif]-->I tassi di interesse schizzerebbero alle stelle




<!--[if !supportLists]--> 2) <!--[endif]-->Chi ha un mutuo in euro, avrebbe un aumento della rata del 30%-50% in più






<!--[if !supportLists]--> 1) <!--[endif]-->Tassi di interesse


Partiamo subito da un concetto. Il tasso di interesse di riferimento fissato periodicamente dalla Banca Centrale serve a regolare principalmente gli scambi interbancari fra gli istituti finanziari che hanno accesso a quel tipo di mercato, ma è spesso poco indicativo per indirizzare gli andamenti dei tassi nei circuiti commerciali e ciò che sta accadendo oggi nell’eurozona è un esempio molto calzante per capire quanto detto: il tasso principale di riferimento della BCE è al minimo da qualche mese (0,75%), mentre i tassi di interesse applicati dalle banche ai prestiti è ancora molto alto nei paesi della periferia, dove si paga innanzitutto l’elevato spread dovuto ai titoli di stato. In questo caso quindi sono essenzialmente le aspettative di sostenibilità dei singoli paesi ad influenzare i tassi di interesse e non certo le decisioni ribassiste della BCE, che offrono sostegno soltanto al settore bancario disastrato e poco altro. Questa politica dei tassi che potremmo definire espansiva della BCE, in linea con le strategie attuate dalle altre banche centrali mondiali, non ha avuto alcun effetto sull’inflazione, perché appunto non si è tradotta in maggiori investimenti, produzione, occupazione, domanda, rimanendo confinata al solo settore bancario.




I tassi di interesse andrebbero poi opportunamente divisi per tipologia e durata: i mercati finanziari dei capitali applicano diversi tassi per le varie forme di investimento e ovviamente in un clima di incertezza diffusa mantengono tassi più bassi per le operazioni di breve o brevissimo termine, mentre richiedono rendimenti più alti per gli investimenti di medio-lungo periodo, come possono essere i nostri famigerati titoli di debito pubblico BTP a dieci anni che vengono utilizzati per misurare la febbre del sistema Italia. In generale comunque le Banche Centrali mondiali stanno adottando una politica monetaria di bassi tassi di interesse non tanto per rilanciare i consumi e gli investimenti, ma per consentire al settore bancario di ridurre la loro sproporzionata leva finanziaria e il saggio di indebitamento. Scelta che purtroppo si sta rivelando piuttosto infelice, perché le banche non ci hanno pensato nemmeno un attimo ad interrompere il loro carosello impazzito di investimenti finanziari fuori controllo: prendono soldi in prestito a basso tasso di interesse dalla Banca Centrale e vanno a cercare in giro per il mondo i rendimenti più alti e spesso molto rischiosi.




In uno scenario di uscita dell’Italia dall’euro e ritorno alla lira, con tutto ciò che comporta in termini di ripristino di una corretta e normale politica monetaria da parte della “nostra” Banca Centrale (qualora si riuscisse a nazionalizzare finalmente la Banca d’Italia, come è giusto che sia), non si capisce bene il motivo per cui l’autorità monetaria nazionale dovrebbe subito procedere ad un aumento dei tassi di interesse: la nostra bilancia commerciale è pressoché in pareggio e con la svalutazione della nuova lira dovrebbe andare rapidamente in surplus, mentre come già sappiamo il perdurante deficit delle nostre partite correnti è dovuto soprattutto agli interessi sul debito estero da corrispondere agli investitori stranieri e ai redditi da lavoro e profitti da investimento diretto che fuggono all’estero. Il surplus commerciale servirà quindi a pagare interessi, redditi e profitti agli operatori stranieri e a tamponare inizialmente l’emorragia in corso delle partite correnti, consentendo al settore bancario con opportuni controlli sui movimenti dei capitali in uscita dal paese di ricreare le necessarie riserve di valuta estera. Quando la lira comincerà di nuovo ad apprezzarsi come è logico che sia in un regime flessibile di cambio e in una prospettiva di progressivo consolidamento delle partite correnti, le riserve di valuta estera serviranno ad arginare eventuali nuovi deficit nei bilanci con l’estero. Consideriamo anche che il debito estero consolidato è alto (30% circa del PIL) ma non ha raggiunto i livelli di allarme tipici dei casi di default da debito estero e quindi può essere sostenibile soprattutto se la Banca Centrale riesce a mantenere più a lungo possibile nel tempo un regime di bassi tassi di interesse per consentire a tutti gli agenti economici italiani, sia pubblici che privati, di rinnovare i loro debiti a condizioni più favorevoli.




Se analizziamo in particolare la situazione del debito pubblico detenuto da operatori stranieri, possiamo notare che nell'ultimo anno la quota si è ridotta dal 45% al 30% circa attuale, che potrebbe ancora ridursi qualora parte di questo debito denominato in euro venisse convertito in lire (bisognerebbe verificare in questo caso quale sia la giurisdizione sotto la quale è stato stipulato il contratto) e la Banca Centrale riprendesse a sostenere direttamente i deficit pubblici come avveniva prima dello sciagurato divorzio fra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro del 1981, agendo da acquirente residuale dei titoli invenduti e calmierando adeguatamente i rendimenti. Sulla parte di debito estero denominato in altra valuta straniera diversa dall’euro (tipicamente dollari) e sottoscritto secondo una giurisdizione estera o il diritto internazionale si potrebbe fare ben poco, oltre a richiedere un’opportuna ristrutturazione e dilazione di pagamento sia degli interessi che della quota capitale. In tal caso sarebbe compito del nuovo governo di transizione far valere le proprie ragioni sovrane presso i consessi internazionali e in particolar modo nei confronti del FMI, che si occupa di gestire queste relazioni finanziarie intrecciate tra paesi diversi.




Insomma, stante l’abbondanza attuale di capitali internazionali a buon mercato e la situazione ancora gestibile del bilancio estero dell’Italia, non esiste alcun motivo fondato che giustifica il timore di innalzamento dei tassi di interesse causato dall’uscita dell’Italia dalla zona euro e dall’esigenza di attirare nuovi capitali dall’estero. Ma qui ritorniamo sempre al punto di partenza, nel campo delle suggestioni e delle superstizioni mistiche, perché con il medesimo riflesso condizionato con cui gli automi associano la parola inflazione a svalutazione, avviene a livello subliminale e inconscio l’associazione di idee tra svalutazione, inflazione e tassi di interessi: se andrete più a fondo indagando negli oscuri meandri della loro coscienza scoprirete che non c’è alcun ragionamento logico a sostenere questo legame sinottico tra parole dal significato molto diverso (benché queste grandezze siano tutte connesse ad una certa moneta hanno origini e cause difficilmente assimilabili) e se scaverete ancora più giù troverete che la maggior parte degli automi non sa neppure lontanamente il significato di queste parole. Immaginate dunque cosa accade quando tentano di associarle insieme: un guazzabuglio inestricabile in cui chi alza di più la voce imprime negli altri la litania da seguire e da ripetere meccanicamente.




E’ stato più volte rimarcato da economisti come Alberto Bagnai e Claudio Borghi come il miglior modo per tagliare la testa al toro sia riferirsi direttamente ai fatti e ai dati che abbiamo a disposizione e in particolare agli eventi precedenti e successivi all’uscita della lira dallo SME (Sistema Monetario Europeo), avvenuta per l’esattezza il 18 settembre del 1992 e alla conseguente svalutazione nominale della lira del 25% in un anno. Abbiamo un esempio vivido, recente e affidabile su quali siano i reali effetti della svalutazione e perché non sfruttarlo? Come si può vedere nel grafico riportato sotto, riferito ai tassi di interesse a tre mesi nel mercato interbancario, questi non solo non aumentarono (schizzarono alle stelle, secondo le immaginifiche descrizioni degli automi) per chissà quale assurda alchimia teologica, ma cominciarono a diminuire proprio a partire dalla data di inizio della libera fluttuazione e della svalutazione della lira. E il motivo di un simile fenomeno è abbastanza semplice: la Banca d’Italia non era più costretta a tenere alti i tassi di interesse fino al 18%, poco prima della svalutazione, per attirare capitali dall’estero e mantenere la parità di cambio con l’ECU (ma in particolare con il marco tedesco, che era la moneta più forte del paniere) prevista dallo SME. Una volta uscita dallo SME, la Banca d’Italia poteva tranquillamente allentare i tassi di interesse e lasciare libera di fluttuare la lira nel mercato dei cambi, cosa che come sappiamo consentì un rapido recupero di competitività di prezzo delle nostre esportazioni e il passaggio della nostra bilancia commerciale dal deficit al surplus, che continuò a crescere fino al 1996, anno in cui l’Italia rientrò nello SME e la nostra ritrovata competitività commerciale andò a farsi benedire.












Se restringiamo il periodo di osservazione e entriamo ancora di più nel dettaglio (grafico sotto), ci accorgiamo che la caduta dei tassi di interesse successiva alla svalutazione ha coinvolto non solo il mercato monetario (Money Market Rate), ma anche il regime degli interessi collegato all’attività creditizia delle banche (Lending Rate) e i rendimenti dei titoli di stato sia a breve che a lungo termine (Treasury Bill Rate e Government Bond Yield). Quindi non si è trattato di un fenomeno puramente monetario, ma anche di un processo reale, effettivo che per intenderci ha inciso anche sulle rate dei nostri mutui, prestiti, investimenti in titoli. Quando poi l’Italia si è agganciata definitivamente all’euro nel 1999, delegando la politica monetaria e in particolare la decisione sul tasso di riferimento alla BCE, il mercato interno aveva già raggiunto per conto suo un livello di tassi di interesse basso, intorno al 4%, anche perché la situazione internazionale influenzata principalmente dalla politica espansiva della Federal Reserve americana (il famoso Greenspan put, che anticipò e favorì la crisi dei mutui subprime del 2007) garantiva l’ottimismo, buone prospettive di crescita economica e un’abbondanza di capitali a buon mercato. L’altra storiella secondo cui l’ingresso nell’euro ci ha assicurato un dividendo annuale di circa 100 miliardi all’anno di risparmio in interessi è quindi una bufala colossale, perché anche se fosse rimasta con la sua moneta sovrana lira l’Italia non avrebbe avuto alcun problema a finanziarsi con i bassi tassi di interesse che vigevano a livello internazionale.











Con l’uscita dall’euro le cose non dovrebbero andare tanto diversamente da allora, con una svalutazione iniziale abbastanza rapida, seguita da una graduale rivalutazione della nostra valuta dovuta principalmente al rilancio delle nostre esportazioni, alle ridotte importazioni e al miglioramento complessivo della bilancia commerciale con l’estero. L’inflazione potrebbe salire di qualche punto percentuale, ma non sfiorerà mai i livelli a due cifre paventati dai soliti noti della propaganda di regime, per i motivi che ci siamo detti sopra. I tassi di interesse potranno essere invece gestiti tranquillamente da Banca d’Italia, adeguandosi al basso regime di tassi di interesse, che al momento viene adottato un po’ dovunque da tutte le Banche Centrali del mondo e consente un abbondante afflusso di denaro, quanto meno nel settore bancario. E tutto questo discorso può essere sintetizzato molto bene dal grafico sotto, che mette insieme l’andamento delle tre grandezze in questione nei mesi immediatamente precedenti e successivi alla svalutazione del 1992.








Se i modelli economici come abbiamo detto sono delle mappe, cosa c’è di meglio di consultare una mappa che ripercorre esattamente gli stessi passi che dobbiamo fare adesso? Invece di sparare numeri a caso e terrorizzare la gente con suggestioni surreali, perché non si invita la gente a verificare con dati e numeri alla mano, quali sono in Italia gli effetti reali della svalutazione? Non sarebbe questo un onesto servizio di informazione e non uno dei soliti tentativi di depistaggio teosofico? Certo la situazione internazionale non è più rosea e ottimista come dieci anni fa, ma è facile dimostrare come in Italia la riduzione di una certa quota di domanda estera potrebbe essere compensata con il recupero della domanda interna che ormai precipita sempre di più verso il basso. Fermo restando tutti i fenomeni che abbiamo descritto fin qui. A questo punto c’è solo da ricordare che chi ha ancora i mezzi e la voglia di ragionare ha tutti gli elementi per farlo, mentre chi è soltanto obnubilato dai messaggi contorti e fideistici della propaganda di regime o si lascia facilmente sospingere dallo spirito cameratesco di appartenenza (vedi per esempio i piddini e il loro strampalato sogno astutamente insufflato degli Stati Uniti d’Europa), arriverà lo stesso a queste conclusioni, ma quando ormai sarà troppo tardi per rimediare.




<!--[if !supportLists]--> 2) <!--[endif]-->Mutui


Il discorso sul maggiore costo dei mutui in euro, conseguente ad un ritorno alla lira e tirato in ballo ripetutamente dagli automi come controprova del disastro catastrofico di un’eventuale uscita dalla zona euro, risulta in effetti l’argomento più facile da smontare e in un certo senso quello più esilarante. Secondo i ridicoli e caracollanti ragionamenti (?) degli automi, chi ha contratto un mutuo in euro vedrebbe aumentare il costo del debito e della corrispondente rata del 20% circa, in seguito alla svalutazione dello stesso ordine di grandezza della lira. Ma se questo nuovo debito venisse denominato in nuove lire, con un rapporto di cambio di 1:1 con l’euro, di quale perdita stiamo parlando? I mutuatari pagheranno il loro debito con la nuova moneta, senza accorgersi minimamente del passaggio (la svalutazione nei confronti delle monete estere non entra affatto in gioco in questo caso, perché stiamo parlando di un processo tutto interno alla giurisdizione nazionale) e anzi, qualche punto di inflazione in più, li aiuterebbe a ripagare con meno affanni il debito ancorato invece al vecchio valore della moneta (l’inflazione aumenta sia i prezzi dei beni che dei salari, mentre il valore nominale del debito non viene modificato, diventando più gestibile nel corso del tempo).



La questione quindi non riguarda tanto l’aumento del costo del debito per i mutuatari, che non avverrebbe mai per le ragioni spigate sopra, ma capire quale parte di debito pubblico e privato italiano è stato contratto in conformità alla normativa nazionale e quale invece è da riferirsi ad una giurisdizione estera o internazionale, che imporrebbe ai mutuatari di continuare a pagare le rate, le cedole e gli interessi in euro (qualora l’euro continuasse a sopravvivere come moneta di conto dopo l’eventuale uscita dell’Italia: cosa assai improbabile) o in altra valuta estera. Bisognerebbe capire quindi emissione per emissione, come sono stati sottoscritti i contratti e se per i mutui ipotecari per l’acquisto di immobili sul territorio nazionale il rischio sarebbe abbastanza limitato, altra cosa sarebbe verificare i debiti/crediti commerciali con l’estero delle aziende italiane, comprese le emissioni obbligazionarie, nei confronti di residenti esteri.




In questo caso, dovrebbe essere lo Stato Italiano, nella titolarità di Banca d’Italia, Consob, Ministero dell’Economia e degli Affari Esteri, ad effettuare questa attività di verifica, a sostenere con qualche forma di facilitazione i debitori nazionali e a stipulare accordi internazionali con i paesi creditori per alleggerire le condizioni di rimborso. Per intenderci, l’unico problema per il comune cittadino che ha stipulato un mutuo per l’acquisto della casa potrebbe verificarsi nel caso in cui il mutuo sia stato stipulato con una banca straniera o con una succursale di una banca straniera in territorio nazionale (Deutsche Bank, Allianz, BNP Paribas, Barclays etc) e siccome l’uscita dall’euro comporta automaticamente e preventivamente l’uscita dall’Unione Europea, compito dello Stato sarebbe anche quello di rivedere tutta le normativa comunitaria riguardante le concessioni di apertura di succursali e filiali transfrontaliere e l’enorme libertà di domicilio di cui ha potuto agevolarsi in questi ultimi anni in particolar modo il settore bancario. Insomma con qualche decreto legge d’urgenza e accordo diplomatico con i paesi membri dell’Unione Europea, il problema dovrebbe essere presto risolto: tutte le operazioni finanziarie effettuate in territorio nazionale da banche o filiali estere nei confronti dei residenti potrebbero essere così facilmente ridenominate in nuove lire, tranne nei casi di evidenti controversie o clausole esplicite di non convertibilità presenti nei contratti.




Molto più bizzarra e impraticabile mi sembra invece l’ipotesi di continuare a mantenere i depositi e i contratti di debito/credito in euro, consentendo allo Stato di immettere gradualmente le nuove lire nel circuito interno tramite la spesa pubblica. In questo caso, oltre alla complessità ulteriore di mantenere un doppio sistema dei pagamenti, i mutuatari avrebbero sicuramente una perdita effettiva determinata dal fatto di dover pagare un debito in euro cominciando invece a ricevere stipendi, compensi, incassi, profitti in lire. Inoltre la circostanza di avere dei debiti contratti in moneta estera renderebbe molto inique le condizioni di rimborso fra chi magari avrebbe ancora la possibilità di ricevere pagamenti in euro (un’azienda italiana esportatrice per esempio) e chi invece non ha alcuna scelta sulla moneta in cui viene pagato (un dipendente pubblico o un lavoratore stipendiato in genere), facendo ricadere su questi ultimi il costo maggiore della svalutazione. Senza considerare il fatto che la provvidenziale e quanto mai auspicabile uscita dell’Italia dalla zona euro comporterebbe una probabile frantumazione a catena dell’intera unione monetaria, facendo finalmente scomparire dai mercati la peggiore e più oligarchica moneta mai introdotta nella storia dell’uomo (almeno dall’avvento dei moderni stati democratici). Quindi ipotizzare un ritorno alla lira e contemporaneamente una permanenza dell’euro risulta uno scenario assai difficile da prevedere.




In supporto della maggiore convenienza a propendere decisamente per la prima idea di conversione totale dei sistemi di pagamento in nuove lire potrebbe aiutarci la storia recente, che insegna come tutti gli stati coinvolti in un default o in una violenta crisi di debito estero o domestico (ricordando che per quanto riguarda l’euro è sempre difficile distinguere fra queste due categorie, essendo l’euro per l’Italia una moneta straniera a tutti gli effetti, come il dollaro, la sterlina o lo yen giapponese) hanno sempre preferito convertire forzosamente in valuta nazionale la quota giuridicamente gestibile di debiti esteri o domestici denominati in valuta straniera, anche attraverso la decisione di sganciamento dalla parità rigida di cambio e adozione di un regime di tassi flessibili. Un caso esemplare è quello del quasi default del Messico del 1994, quando il governo decise di rimborsare i famigerati tesobonos, costituiti prevalentemente da titoli di debito pubblico a breve termine rimborsabili in pesos agganciati al dollaro americano (quindi indirettamente denominati in dollari), sempre in pesos ma sganciandoli dal cambio rigido con il dollaro. Stessa cosa accadde poco dopo in Bolivia, Perù e Argentina. A dimostrazione del fatto che quando uno Stato riacquisisce la sovranità sulle decisioni di politica monetaria è sempre un passo molto imprudente ed azzardato quello di mantenere i propri debiti esteri o domestici denominati in una valuta straniera, almeno nei casi in cui la giurisdizione prevalente di riferimento sia quella nazionale.




Certo se questa delicata fase di transizione e di passaggio valutario venisse gestita da conclamati governanti mercenari come i vari Monti, Prodi, D’Alema, Bersani, Casini non avremmo dubbi su quali interessi sarebbero indotti a privilegiare a danno del benessere dei propri concittadini e della stabilità del proprio paese. Ma qui il discorso dovrebbe ormai essere chiaro a tutti: la fine dell’euro comporterebbe automaticamente l’esilio o la citazione in giudizio per alto tradimento della Costituzione Italiana per la maggior parte dei criminali protagonisti dell’attuale classe dirigente italiana. Tolto il male (l’euro), gli italiani dovrebbero essere sufficientemente decisi e determinati ad eliminare anche i malfattori (gli eurocrati e gli europeisti di spicco in genere, non quelli di traino, perché se no si tratterebbe di una vera e propria deportazione di massa), per impedire preventivamente che approfittando della prevedibile situazione di disordine e confusione istituzionale possano rendersi colpevoli di altri crimini e misfatti.






Dopo avere così smontato per bene le prime 4 tesi infondate degli automi, adesso rimane il classico ragionamento sulle materie prime e il costo della benzina alla pompa, che per la complessità dell’argomento è meglio trattare a parte in un articolo dedicato. Sicuramente possiamo però anticipare che anche qui tutte le stravaganti visioni apocalittiche prospettate dagli automi sono prive di fondamento scientifico, economico, geopolitico e frutto di ataviche suggestioni mistiche abilmente indotte dalla propaganda. Ripeto, cominciamo a preparare la carriola che alcuni beceri politicanti del regime europeista indicano come contenitore delle banconote in lire da utilizzare per l’acquisto della benzina, come strumento utile per accompagnare queste mummie ipocrite o imbesuite al confine. Forse in Bosnia, Svizzera, Croazia, Svezia, Giappone, Corea si accorgeranno che il mondo va avanti lo stesso anche senza l’euro e senza il tanto agognato petrolio, perché questi paesi hanno saputo meglio valorizzare l’operosità e la creatività della propria popolazione rispetto alle invenzioni della finanza e alle ricchezze del sottosuolo. Perché le persone mediocri che non hanno né operosità né creatività sono spesso portate istintivamente a pensare che anche gli altri ne siano privi, affidandosi ai ben noti vincoli esterni: prima i generosi finanziamenti provenienti dall’URSS, poi gli Stati Uniti, la moneta unica, il sistema bancario e finanziario, l’Unione Europea, l’euro, la Germania e immancabile anche il petrolio. Concittadini ingrati ed esterofili di cui faremmo tranquillamente a meno, sempre concentrati a farci sentire in colpa per ciò che ci manca e mai interessati a valorizzare quello che abbiamo in abbondanza.





Pubblicato da PIERO VALERIO a
 
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