Journal to portfolio afterlife (1 Viewer)

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too fast for love
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L’analisi si riferisce ai nati fra il 1965 e il 1980 (escludendo, però, per comparabilità fra coorti, chi è entrato in attività dopo i 25 anni) e ai loro primi 15 anni di carriera di cui si rilevano due fondamentali indicatori di successo: gli anni effettivi di contribuzione e il montante accumulato in base alle regole del contributivo, entrambi sintetizzati dai loro valori medi.
Il quadro che emerge è conforme a quello indicato da altri studi simili ed è preoccupante, dato che, in media, l’anzianità contributiva è ben inferiore a 15 anni e la frequenza dei “buchi” è più alta nelle generazioni più giovani. In media, la coorte 1965 versava contributi per circa 10 anni e 4 mesi, quella 1980 per 9 anni e 11 mesi. Quindi, in media, una vita attiva di 45 anni darebbe luogo a meno di 30 anni di versamenti effettivi.
Solo il 43,1 per cento di coloro che sono entrati in attività tra il 1996 e il 1998 a venti anni di distanza ha un’anzianità contributiva di almeno 16 anni e – dato molto preoccupante – il 51,1 per cento, sempre dopo venti anni, ha accumulato meno del 60 per cento di quanto avrebbe fatto una persona sempre dipendente con retribuzione lorda annua mediana (circa 19.500 euro). Chi guadagnasse tutta la vita, come dipendente, il 60 per cento della mediana (un salario simile a quello di molti dipendenti part time) otterrebbe a 69 anni, dopo 45 di lavoro, una pensione di importo in linea con la soglia di povertà relativa per un single calcolata da Eurostat: la quota di lavoratori che – se la carriera futura non dovesse migliorare sensibilmente – rischiano al pensionamento di ricevere una prestazione di importo molto limitato appare dunque drammaticamente elevata.
 

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