La mò
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Benché da tempo orfane di un degno coordinamento politico, le rivendicazioni sui salari e sulla democrazia nei luoghi di lavoro, così come le richieste di attivazione della spesa pubblica a fini sociali avanzate da numerosi settori della società europea, stanno mostrando un radicamento e una persistenza sotto certi aspetti superiori alle attese. La maggior parte dei politici e dei commentatori si affretta a spendere parole di pacata comprensione per le condizioni dei lavoratori meno abbienti e dei soggetti più deboli della società. Ma la musica cambia nel momento in cui ci si deve esprimere sulla effettiva possibilità di venire incontro alle loro richieste. È quello, infatti, il momento in cui prevale l'ordine di contenere la protesta, e in cui si fa forte - quasi unanime, anche a sinistra - il richiamo all'esigenza di rispettare i `vincoli di compatibilità economica' esistenti. E i lavoratori che insistono, alzano la voce e magari passano agli scioperi vengono prontamente ammoniti circa il rischio di cadere in un `conflittualismo ingenuo', privo di sbocchi politici, in un `ribellismo selvaggio', alla lunga insostenibile e quindi autolesionista.
Che questa litania venga ripetuta in tutte le occasioni di scontro sociale è un fatto indiscutibile. Questo però non significa che debba per forza corrispondere al vero. In altri termini, in cosa esattamente consisterebbero i vincoli di compatibilità economica di cui si discute nelle fasi calde della contrattazione politica e sindacale? E inoltre, siamo proprio sicuri che il cosiddetto `conflittualismo' sia necessariamente votato al fallimento e debba pertanto considerarsi ingenuo? Siamo certi cioè che non vi siano declinazioni dello stesso che possano definirsi razionali e dunque praticabili?
2. Per tentare di rispondere a queste domande, si potrebbe forse rivelare utile il recupero di una proposta avanzata da Augusto Graziani nel lontano 1978, a Modena, nel corso di un convegno di economisti piuttosto animato 1. Dopo un attento esame delle posizioni marxiste, sraffiane, keynesiane e neoclassiche sui principali temi di teoria e politica economica, Graziani suggerì di ripartire le scuole di pensiero economico in poche grandi categorie, tra le quali spiccavano quella dei `conflittualisti', per l'appunto, e quella definita dei `compatibilisti'. La schematizzazione, volutamente tranchant, fece molto discutere gli addetti ai lavori: in particolare uno degli attuali supporters del triciclo prodiano, Michele Salvati, dovette reputarla alquanto scomoda, dal momento che vi si oppose con estrema risolutezza.
Comunque, al di là delle polemiche, la proposta di Graziani muoveva da un punto difficilmente contestabile: quello secondo cui sussiste, nel campo dell'economia politica, un'irriducibile contesa tra due opposte visioni del mondo. Da un lato c'è chi ritiene che in un sistema capitalistico il livello, la composizione e soprattutto la distribuzione del prodotto sociale scaturisca dal comportamento di operatori economici indifferenziati, vincolati nella loro azione dal perseguimento di criteri di efficienza del tutto generali, rispetto ai quali un intervento non compatibile da parte di qualsivoglia gruppo sociale o politico rappresenterebbe un'improvvida deviazione (è il caso questo dei `compatibilisti'). Dall'altro lato, invece, c'è chi contesta le basi logiche di quei criteri di efficienza e considera piuttosto la produzione e la distribuzione come il risultato dell'antagonismo tra le classi sociali, dei rapporti di forza tra di esse e del contesto politico e istituzionale che quei rapporti tendono continuamente a plasmare (è la posizione dei `conflittualisti').
Lo scontro tra i due approcci verte evidentemente sulla disponibilità o meno ad associare le leggi di funzionamento del capitalismo a un principio generale di efficienza, e a depurarle in tal modo da qualsiasi riferimento al conflitto sociale e politico. All'epoca del convegno di Modena questo fine ambizioso veniva perseguito dai `compatibilisti' attingendo alle più svariate tradizioni di pensiero. La preferenza ricadeva però quasi sempre sulla teoria neoclassica. Questa teoria determina i prezzi del sistema, e quindi anche i profitti e i salari, sulla base del mero confronto tra le dotazioni esistenti di beni e fattori produttivi e le domande degli stessi che derivano dalle preferenze dei consumatori. Ciò significa che tutti i prezzi debbono essere interpretati come indicatori della scarsità delle risorse disponibili rispetto alle esigenze del sistema. Un fattore più scarso sarà venduto a un prezzo più alto, il che indurrà gli agenti economici a un impiego più efficiente e vantaggioso dello stesso. Un simile meccanismo non ha nulla in sé che possa definirsi `politico'. Esso, infatti, risponde all'esigenza di risolvere un problema meramente tecnico, `naturale', quello di garantire un uso efficiente delle risorse scarse. Opporsi a questa esigenza attraverso interventi sociali e politici ovviamente è possibile, ma provocherebbe inevitabilmente delle deviazioni rispetto all'equilibrio efficiente. Il caso tipico è quello di una situazione in cui i lavoratori, organizzati in sindacato, riescono a strappare un incremento del salario reale rispetto al livello determinato dalle sole forze del mercato. Secondo l'analisi neoclassica, tale incremento indurrà le imprese a un impiego più contenuto del fattore divenuto più costoso: ossia provocherà licenziamenti e disoccupazione, non certo a causa di una banale rappresaglia politica dei capitalisti, ma al contrario quale effetto spontaneo di un meccanismo impersonale, neutro, finalizzato per l'appunto all'utilizzo ottimale delle risorse disponibili.
Nel suo intervento, Graziani fece notare come l'approccio `compatibilista' fosse entrato in crisi a seguito di quella che egli definì «la svolta del 1960», un anno i cui eventi sociali furono dominati dalla forte avanzata dei sindacati, e che nel più modesto ambito teorico vide pure la pubblicazione degli attacchi di Sraffa e di Garegnani alla concezione neoclassica del capitale e della distribuzione del reddito. Non è questa la sede per soffermarsi sul contenuto di tali critiche. Ci limiteremo a ricordare che la più visibile di esse verte su un insanabile `vizio di circolarità' che caratterizza il tentativo neoclassico di assumere come un dato esterno all'analisi la dotazione di capitale espressa in valore, e di pretendere al tempo stesso di determinare all'interno dell'analisi il saggio di profitto, benché a sua volta quest'ultimo rappresenti una componente essenziale per il calcolo del capitale, ossia proprio del dato assunto come esterno.
Con le dimostrazioni di Sraffa e Garegnani sulla `incoerenza interna' del modello neoclassico l'approccio compatibilista entrava dunque in una fase di evidente difficoltà, laddove invece l'impostazione `conflittualista' traeva nuova linfa e fonti di ispirazione. Nella prima metà del Novecento le tesi `conflittualiste' erano, infatti, state appannaggio di un «filone marxista sotterraneo» - secondo la definizione proposta dallo stesso Graziani in uno scritto del 1982 2 - al quale avevano contribuito principalmente economisti del tutto estranei al marxismo ortodosso, come Wicksell, Schumpeter, Robertson e Keynes. Gli esponenti di questo filone si erano però concentrati principalmente sulla `incoerenza esterna' della teoria neoclassica, che consiste nel fatto che questa teoria mette capo - tuttora - a una rappresentazione del processo economico che ben poco ha a che fare con l'economia capitalistica. Infatti, come ampiamente chiarito dagli studiosi citati, i modelli neoclassici restituiscono la raffigurazione del processo economico di una economia di baratto, nella quale la moneta e le banche non contano, e potrebbero quindi essere del tutto trascurate senza alcun cambiamento fondamentale nei risultati dell'analisi. In questa economia le decisioni di produzione sono prese di comune accordo e su un piano paritario da tutti gli agenti, sulla falsariga di quanto accade in una economia cooperativa. A questa rappresentazione teorica gli esponenti del filone marxista sotterraneo rispondevano proponendo una descrizione del funzionamento dell'economia capitalistica in termini di `circuito monetario' ed evidenziando come la struttura degli agenti - e quindi la divisione in classi - fosse connessa all'accesso esclusivo degli imprenditori-capitalisti alla moneta e al credito bancario 3.
3. I fattori di complementarità tra la critica interna e la critica esterna alla teoria neoclassica appaiono a nostro avviso evidenti. Tuttavia, è curioso notare come in letteratura non si siano fino a oggi sviluppate sufficienti occasioni di interazione tra di esse. Una prima spiegazione di questo mancato connubio può esser forse rintracciata in una tendenza che all'epoca del convegno di Modena era piuttosto diffusa, e che Graziani ha sempre fortemente stigmatizzato: quella di considerare lo scontro fra teorie economiche antagoniste nei soli termini della loro coerenza interna, senza alcun riguardo alla scelta delle premesse da cui le diverse teorie partono, alla capacità di quelle premesse di cogliere i tratti salienti del capitalismo, e anche in definitiva alle implicazioni politiche di quelle stesse premesse (le quali inevitabilmente retroagiranno sulla scelta iniziale) 4. Non è il caso qui di addentrarsi in delicate questioni epistemologiche, ma è interessante notare come già Maurice Dobb fosse giunto a conclusioni in parte simili, proprio nel corso di una comparazione tra la teoria neoclassica e le teorie antagoniste ispirate, tra gli altri, al lavoro di Sraffa 5.
Una spiegazione forse più approfondita della frammentarietà degli scambi tra i due filoni di ricerca potrebbe però rintracciarsi nell'idea che dallo sviluppo della cosiddetta critica interna è emerso, soprattutto ad opera di Garegnani, un progetto di rifondazione della teoria economica del tutto incompatibile a quello della critica esterna. Questo progetto, come è noto, si fonda sull'impiego del principio della domanda effettiva di Keynes per la determinazione del livello del prodotto sociale, e sull'utilizzo del sistema dei prezzi con cui Sraffa criticò la teoria neoclassica al fine costruttivo di delineare una coerente teoria della distribuzione del prodotto tra le classi. Questa teoria rappresenta, secondo la ricostruzione di Garegnani, l'evoluzione logica di una linea di pensiero risalente agli economisti classici e a Marx 6.
Ora, nella sparuta letteratura sul tema, è in effetti vero che l'ipotesi della incompatibilità tra il progetto di Garegnani e il filone definito della critica esterna appare prevalente. Tuttavia è possibile dimostrare che sia sul piano del metodo che della teoria, e sotto ipotesi sufficientemente generali, l'analisi di Garegnani appare sotto molti aspetti compatibile con alcuni recenti sviluppi della cosiddetta critica esterna, a partire dai recenti contributi di Graziani in tema di circuito monetario. Ci pare che questa rappresenti una ragione sufficiente per considerare tuttora aperta la discussione sul grado di compatibilità tra questi due filoni critici della teoria neoclassica, e sulla relativa possibilità di costruire un saldo ponte teorico tra di essi. Anzi, si potrebbe azzardare l'ipotesi che la riluttanza a lanciarsi nella costruzione di ponti come questo abbia in qualche misura contribuito alla riconquista del terreno perduto da parte dei `compatibilisti'.
4. Del resto, di fronte all'avanzata `conflittualista', in campo avverso nessuno era rimasto a guardare. Come Graziani fece notare, alle prime avvisaglie di crisi della teoria neoclassica dominante i `compatibilisti' decisero di rimpiazzarla in via temporanea con altri strumenti analitici, sempre al fine di garantire una giustificazione del profitto basata su criteri di efficienza e quindi una dimostrazione più o meno implicita della `armonia distributiva' del capitalismo. Ad esempio, per contrastare le rivendicazioni salariali, essi non esitarono a richiamare l'attenzione sulla vecchia ipotesi classica secondo cui profitti elevati generano maggiori risparmi e quindi un ritmo più sostenuto di investimenti. Se poi qualcuno avesse obiettato che dopo Keynes una simile ipotesi risultava improponibile, essi volentieri saltavano in sella a un altro cavallo teorico, quale ad esempio l'implicita assunzione di un mark-up fisso sui costi di produzione, e così via, senza mai arenarsi di fronte alle critiche e alle obiezioni.
Graziani ha sempre teso a sottolinare la straordinaria capacità di reazione dei `compatibilisti' nell'aggirare la critica, e l'assenza di scrupoli con la quale essi facevano e disfacevano le teorie a seconda delle contingenze, abbandonando gli spezzoni teorici sotto attacco per sostituirli con altri, magari altrettanto incoerenti ma meno immediatamente contestabili. Modigliani in questo era un maestro. Ad ogni modo, tutta questa versatilità poteva essere interpretata come una tipica manifestazione dell'influenza politica sul dibattito teorico, che in un certo senso legittimava proprio l'impiego delle categorie `meta-teoriche' del `compatibilismo' e del `conflittualismo', le stesse che avevano così profondamente turbato gli animi degli apologeti del `neutralismo' presenti in accademia.
È bene tener presente, comunque, che nella disputa di quegli anni i `compatibilisti' tentarono in più occasioni di superare lo stato di estrema fragilità teorica in cui versavano. Del resto, con tutto il fermento sociale dell'epoca, non risultava affatto semplice perseverare nell'impiego di teorie dalle cui premesse non si potessero far scaturire deduzioni logicamente coerenti. In tal senso vanno ricordati i tentativi compiuti dai massimi esponenti del pensiero neoclassico per scavalcare l'insormontabile ostacolo sraffiano. Su tutti il più ardito fu senz'altro quello di Frank Hahn, che nel 1982 sostenne non solo che un particolare tipo di equilibrio neoclassico, definito `di breve periodo', risultava del tutto immune alla critica sraffiana, ma addirittura arrivò a dichiarare che la teoria di Cambridge (derivante per l'appunto da un'interpretazione delle analisi di Sraffa e di Keynes) non fosse altro che un mero caso speciale di quell'equilibrio 7.
Ancora una volta, grazie ai contributi di Garegnani e altri, oggi sappiamo che il tentativo di Hahn è fallito, sia dal punto di vista della dimostrazione di quel caso speciale sia da quello più complessivo della difesa della teoria neoclassica nella versione definita di breve periodo 8. Tuttavia i tempi sono cambiati: la svolta politica del 1960 è lontana, e pur con tutte le sue contraddizioni, interne o esterne che siano, l'analisi neoclassica è tornata a rappresentare lo strumento privilegiato dei cosiddetti `compatibilisti', nei dipartimenti universitari come nei simposi organizzati dalle banche centrali. Inoltre, a testimonianza della cupezza dei tempi, vale la pena di notare che le versioni correnti dell'approccio `compatibilista' lasciano al conflitto sociale margini di azione ancora più risicati che in passato. A titolo di esempio, basterà dare un'occhiata al modello macroeconomico di Olivier Blanchard, attualmente tra i più in voga nelle aule universitarie 9. Esso rappresenta uno dei tentativi più accreditati di incorporare nell'analisi neoclassica alcuni contributi di frontiera dedicati alle `imperfezioni' di mercato causate da limiti informativi, dalla concorrenza imperfetta o dalla presenza dei sindacati o di altre istituzioni. Chiaramente, la ricostruzione di Blanchard si adegua all'attuale abitudine di stendere un velo di silenzio sulle critiche degli sraffiani alla teoria neoclassica del capitale. Ma soprattutto è interessante notare come, in questo modello, qualsiasi tentativo da parte dei sindacati di elevare il conflitto per ottenere incrementi salariali provocherà degli effetti ancora peggiori rispetto a quelli previsti dal modello neoclassico standard. Infatti, secondo l'analisi di Blanchard, la maggiore conflittualità sindacale si tradurrà come nel caso standard in un aumento della disoccupazione, ma a differenza del caso standard non avrà alcuna ripercussione positiva sul salario reale. E la ragione è semplice: sulla base di una serie di ipotesi ad hoc relative alla domanda di merci e all'applicazione dei soliti criteri di efficienza in un contesto di concorrenza imperfetta, il modello arriva a raccontare a chissà quanti studenti che il mark-up è fisso, e quindi l'unico salario reale di equilibrio è quello offerto dalle imprese! L'implicazione ha un che di geniale: nemmeno il più ristretto interesse corporativo è in grado di giustificare una forte tendenza alla conflittualità sociale. L'unica cosa ragionevole, per il sindacato, è di far capire ai propri iscritti che occorre adeguarsi al salario offerto dalle imprese, in modo tale che questi si rassegnino, accettino di lavorare alla remunerazione vigente e l'occupazione possa in tal modo aumentare. Insomma, un vero e proprio spot a sostegno di una politica dei redditi particolarmente retriva. Più `compatibilisti' di così si muore.
5. I tempi sono cambiati, dicevamo. Tuttavia è lecito attendersi che gli attuali esponenti dell'approccio definito `conflittualista' sapranno presentarsi attrezzati al prossimo appuntamento con la Storia. Sotto questo aspetto, ribadiamo, è possibile che si riveli fruttuoso il tentativo di costruzione di un ponte tra le analisi di coloro che potremmo forse considerare i maggiori esponenti italiani di quell'approccio, Garegnani e Graziani. A sostegno della praticabilità di un simile tentativo, ci limiteremo qui a precisare che non esiste alcuna irriducibile contrapposizione tra le linee di ricerca dei due autori, né sul piano della determinazione dei salari reali, né su quello della determinazione dei livelli assoluti di produzione - dove entrambi gli autori si pongono in un'ottica keynesiana, e in evidente contrapposizione con il paradigma neoclassico della scarsità - e nemmeno dal punto di vista più generale del metodo di analisi adottato. Il che del resto non dovrebbe sorprendere troppo. Il `nucleo' della teoria di Garegnani verte sulla relazione inversa tra salario reale e profitto, una relazione che può sempre essere incorporata nelle analisi di Graziani. Per il resto il nucleo è dichiaratamente aperto, nel senso che viene dal suo stesso autore reputato insufficiente, bisognoso di continui innesti per consentire una corretta interpretazione del sistema capitalistico.
Si consideri a questo proposito il recente intervento di Cavalieri, Garegnani e Lucii, apparso sul numero di marzo 2004 della «rivista del manifesto» 10. In quell'articolo gli autori propongono una chiave di lettura altamente istruttiva - e del tutto controcorrente rispetto alla vulgata teorica dominante - in merito all'andamento dell'occupazione e dei salari fatto registrare nei principali paesi capitalistici dal dopoguerra ad oggi. Ebbene appare evidente che, in stretta connessione con il rifiuto del paradigma neoclassico della scarsità, l'unico caposaldo teorico realmente indispensabile alla interpretazione degli autori è rappresentato proprio dalla relazione inversa tra le variabili distributive. Non è un caso, del resto, che nel medesimo articolo gli autori si cimentino in una critica senza appello a un tentativo che in ambito accademico riscosse un certo interesse nei primi anni '90: esso consisteva nel negare l'esistenza di una relazione inversa tra salario reale e saggio di profitto per sostenere che, sotto date ipotesi, si potrebbe ottenere una crescita simultanea e prolungata di entrambe le variabili distributive. Tale possibilità conteneva più o meno implicitamente un invito ad attuare forme di capitalismo `collaborativo', ossia modalità di cooperazione tra le classi sociali che potessero dar luogo a incrementi di benessere per tutti. Cavalieri, Garegnani e Lucii evidenziano l'inconsistenza delle ipotesi su cui quel tentativo si fonda. Essi quindi ribadiscono la relazione inversa tra salari reali e profitti e con essa anche il carattere irriducibilmente `conflittuale' del sistema capitalistico 11. Una volta confermata la relazione teorica fondamentale, però, l'analisi dei tre autori presenta delle evidenti esigenze di ampliamento e di approfondimento, che a nostro avviso potrebbero scaturire proprio dalla integrazione con i più recenti sviluppi della teoria del circuito monetario 12. Solo per citare un esempio, si considerino le ultime due fasi storiche esaminate dagli autori: la terza, tra il 1973 e i primi anni '80, in cui la reazione temporanea del sistema capitalistico all'esplosione delle rivendicazioni salariali consiste nello sciogliere ogni laccio monetario e istituzionale alla dinamica dei prezzi; e la quarta fase storica, che inizia nei primi anni '80 e continua tuttora, in cui la classe capitalista spinge i governi ad abbandonare definitivamente le politiche di pieno impiego al fine di sostituire lo strumento dell'inflazione con quello della disoccupazione, disciplinare in tal modo i lavoratori e riprendere quindi il controllo definitivo del sistema.
Appare evidente che un'accurata analisi di entrambe queste svolte richiederebbe un esame approfondito della dinamica di tutti i flussi monetari, dai canali e dai vincoli di finanziamento dei salari monetari alle condizioni politico-istituzionali che dopo il 1973 consentirono lo sfogo dei salari sui prezzi. Tutte questioni sulle quali la letteratura internazionale sul circuito monetario, a partire dai contributi di Graziani, offre risposte precise, alcune delle quali in perfetta sintonia con l'interpretazione di Cavalieri, Garegnani e Lucii, e potenzialmente in grado di fissare le basi per la costruzione di un valido ponte teorico.
6. Per concludere, può essere interessante per i lettori della «rivista» domandarsi se dai contributi di Garegnani e Graziani si possa già individuare una posizione `conflittualista' ben definita in materia di spesa pubblica e salari. Sulla spesa pubblica la risposta è agevole. Sia nelle analisi di Garegnani che in quelle di Graziani, non sussiste nessuna relazione necessaria tra i tassi d'interesse nominali e il tasso di crescita del reddito nominale, né sussiste un vincolo di scarsità capace di preludere a un problema di livello `ottimale' del debito pubblico. Questi due elementi, apparentemente innocui, rivelano di fatto una verità inconfessabile: che non vi è alcun criterio di efficienza politicamente neutrale che sia in grado di legittimare il Trattato di Maastricht e l'intero palinsesto macroeconomico europeo. Quel Trattato resta dunque agganciato per aria, o forse sarebbe meglio dire che resta agganciato agli interessi politici che l'hanno sostenuto. Ed è bene aggiungere che nelle analisi di Garegnani e di Graziani la questione dei vincoli alla politica macroeconomica e alla spesa pubblica assume un rilievo tutto particolare, considerato che dagli autori si evince che i fondamentali interessi dei lavoratori, dalla piena occupazione, alla sicurezza e al controllo del proprio lavoro, fino a una generale distribuzione del reddito e del potere, potranno trovare pieno riconoscimento solo attraverso un massiccio intervento politico sull'intera struttura del sistema.
Infine, sui salari. A questo proposito, qualcuno potrebbe forse esser tentato dal credere che sull'analisi delle rivendicazioni salariali l'approccio `conflittualista' suggerisca una risposta uguale e contraria a quella del modello `ultra-compatibilista' di Blanchard. Si potrebbe cioè ritenere che i conflittualisti attribuiscano alle rivendicazioni sui salari monetari il potere assoluto di aumentare senza limiti il salario reale, magari fino all'azzeramento dei profitti e alla conquista dell'intero prodotto netto. Se davvero così fosse si potrebbe in effetti parlare di una specie di sofisticazione accademica del famoso `vogliamo tutto' gridato dagli operai Fiat durante l'autunno caldo. Per qualche strana ragione, derivante dall'ignoranza o forse dall'autolesionismo, questa interpretazione di tanto in tanto riaffiora, soprattutto a sinistra. Eppure basterebbe poco per comprendere che non è affatto così. Sulla questione dei salari appare, infatti, evidente che le analisi di Garegnani e di Graziani risultano aperte. Garegnani in effetti esclude che dalle condizioni di equilibrio macroeconomico debbano per forza scaturire degli ostacoli alla capacità dei salari monetari di cambiare la distribuzione. Graziani, invece, individua un possibile vincolo nel fatto che spetta alle imprese decidere la quota del prodotto sociale spettante ai consumi, il che potrebbe in linea di principio rendere inefficaci le rivendicazioni sui salari monetari. Ad un esame più accurato, però, i due modelli risultano in merito altamente flessibili. Per parte sua Garegnani non esclude che in linea di principio l'avanzata salariale possa temporaneamente incontrare un limite superiore di tipo post-keynesiano, legato essenzialmente al massimo grado di utilizzo della capacità produttiva. Quanto a Graziani, è possibile dimostrare che, immettendo nel suo modello i consumi dei capitalisti e ammettendo sotto date ipotesi una certa dinamica nella composizione della produzione, la spinta salariale potrebbe rivelarsi molto efficace. Il tutto ovviamente sotto un limite ben definito, che riguarda entrambi gli autori e che per la verità attiene a questioni che valicano gli angusti confini della teoria, e che spaziano invece nel campo estesissimo dell'economia politica e al limite della lotta politica. Si tratta del fatto che, come ben evidenziato dall'articolo di Cavalieri, Garegnani e Lucii, la classe capitalista le proverà tutte pur di costringere le rivendicazioni dei lavoratori entro i vincoli di compatibilità che essa stessa definisce. Ma a questo proposito la questione, squisitamente conflittualista, è una e una sola: esiste un motivo valido per cui i lavoratori dovrebbero rinunciare ad uno dei pochissimi strumenti con i quali essi possono affermare la loro indisponibilità a rendersi compatibili a questo sistema? Esiste un motivo credibile per cui essi dovrebbero rinunciare alla lotta salariale?
grazie x la gentile attenzione
Che questa litania venga ripetuta in tutte le occasioni di scontro sociale è un fatto indiscutibile. Questo però non significa che debba per forza corrispondere al vero. In altri termini, in cosa esattamente consisterebbero i vincoli di compatibilità economica di cui si discute nelle fasi calde della contrattazione politica e sindacale? E inoltre, siamo proprio sicuri che il cosiddetto `conflittualismo' sia necessariamente votato al fallimento e debba pertanto considerarsi ingenuo? Siamo certi cioè che non vi siano declinazioni dello stesso che possano definirsi razionali e dunque praticabili?
2. Per tentare di rispondere a queste domande, si potrebbe forse rivelare utile il recupero di una proposta avanzata da Augusto Graziani nel lontano 1978, a Modena, nel corso di un convegno di economisti piuttosto animato 1. Dopo un attento esame delle posizioni marxiste, sraffiane, keynesiane e neoclassiche sui principali temi di teoria e politica economica, Graziani suggerì di ripartire le scuole di pensiero economico in poche grandi categorie, tra le quali spiccavano quella dei `conflittualisti', per l'appunto, e quella definita dei `compatibilisti'. La schematizzazione, volutamente tranchant, fece molto discutere gli addetti ai lavori: in particolare uno degli attuali supporters del triciclo prodiano, Michele Salvati, dovette reputarla alquanto scomoda, dal momento che vi si oppose con estrema risolutezza.
Comunque, al di là delle polemiche, la proposta di Graziani muoveva da un punto difficilmente contestabile: quello secondo cui sussiste, nel campo dell'economia politica, un'irriducibile contesa tra due opposte visioni del mondo. Da un lato c'è chi ritiene che in un sistema capitalistico il livello, la composizione e soprattutto la distribuzione del prodotto sociale scaturisca dal comportamento di operatori economici indifferenziati, vincolati nella loro azione dal perseguimento di criteri di efficienza del tutto generali, rispetto ai quali un intervento non compatibile da parte di qualsivoglia gruppo sociale o politico rappresenterebbe un'improvvida deviazione (è il caso questo dei `compatibilisti'). Dall'altro lato, invece, c'è chi contesta le basi logiche di quei criteri di efficienza e considera piuttosto la produzione e la distribuzione come il risultato dell'antagonismo tra le classi sociali, dei rapporti di forza tra di esse e del contesto politico e istituzionale che quei rapporti tendono continuamente a plasmare (è la posizione dei `conflittualisti').
Lo scontro tra i due approcci verte evidentemente sulla disponibilità o meno ad associare le leggi di funzionamento del capitalismo a un principio generale di efficienza, e a depurarle in tal modo da qualsiasi riferimento al conflitto sociale e politico. All'epoca del convegno di Modena questo fine ambizioso veniva perseguito dai `compatibilisti' attingendo alle più svariate tradizioni di pensiero. La preferenza ricadeva però quasi sempre sulla teoria neoclassica. Questa teoria determina i prezzi del sistema, e quindi anche i profitti e i salari, sulla base del mero confronto tra le dotazioni esistenti di beni e fattori produttivi e le domande degli stessi che derivano dalle preferenze dei consumatori. Ciò significa che tutti i prezzi debbono essere interpretati come indicatori della scarsità delle risorse disponibili rispetto alle esigenze del sistema. Un fattore più scarso sarà venduto a un prezzo più alto, il che indurrà gli agenti economici a un impiego più efficiente e vantaggioso dello stesso. Un simile meccanismo non ha nulla in sé che possa definirsi `politico'. Esso, infatti, risponde all'esigenza di risolvere un problema meramente tecnico, `naturale', quello di garantire un uso efficiente delle risorse scarse. Opporsi a questa esigenza attraverso interventi sociali e politici ovviamente è possibile, ma provocherebbe inevitabilmente delle deviazioni rispetto all'equilibrio efficiente. Il caso tipico è quello di una situazione in cui i lavoratori, organizzati in sindacato, riescono a strappare un incremento del salario reale rispetto al livello determinato dalle sole forze del mercato. Secondo l'analisi neoclassica, tale incremento indurrà le imprese a un impiego più contenuto del fattore divenuto più costoso: ossia provocherà licenziamenti e disoccupazione, non certo a causa di una banale rappresaglia politica dei capitalisti, ma al contrario quale effetto spontaneo di un meccanismo impersonale, neutro, finalizzato per l'appunto all'utilizzo ottimale delle risorse disponibili.
Nel suo intervento, Graziani fece notare come l'approccio `compatibilista' fosse entrato in crisi a seguito di quella che egli definì «la svolta del 1960», un anno i cui eventi sociali furono dominati dalla forte avanzata dei sindacati, e che nel più modesto ambito teorico vide pure la pubblicazione degli attacchi di Sraffa e di Garegnani alla concezione neoclassica del capitale e della distribuzione del reddito. Non è questa la sede per soffermarsi sul contenuto di tali critiche. Ci limiteremo a ricordare che la più visibile di esse verte su un insanabile `vizio di circolarità' che caratterizza il tentativo neoclassico di assumere come un dato esterno all'analisi la dotazione di capitale espressa in valore, e di pretendere al tempo stesso di determinare all'interno dell'analisi il saggio di profitto, benché a sua volta quest'ultimo rappresenti una componente essenziale per il calcolo del capitale, ossia proprio del dato assunto come esterno.
Con le dimostrazioni di Sraffa e Garegnani sulla `incoerenza interna' del modello neoclassico l'approccio compatibilista entrava dunque in una fase di evidente difficoltà, laddove invece l'impostazione `conflittualista' traeva nuova linfa e fonti di ispirazione. Nella prima metà del Novecento le tesi `conflittualiste' erano, infatti, state appannaggio di un «filone marxista sotterraneo» - secondo la definizione proposta dallo stesso Graziani in uno scritto del 1982 2 - al quale avevano contribuito principalmente economisti del tutto estranei al marxismo ortodosso, come Wicksell, Schumpeter, Robertson e Keynes. Gli esponenti di questo filone si erano però concentrati principalmente sulla `incoerenza esterna' della teoria neoclassica, che consiste nel fatto che questa teoria mette capo - tuttora - a una rappresentazione del processo economico che ben poco ha a che fare con l'economia capitalistica. Infatti, come ampiamente chiarito dagli studiosi citati, i modelli neoclassici restituiscono la raffigurazione del processo economico di una economia di baratto, nella quale la moneta e le banche non contano, e potrebbero quindi essere del tutto trascurate senza alcun cambiamento fondamentale nei risultati dell'analisi. In questa economia le decisioni di produzione sono prese di comune accordo e su un piano paritario da tutti gli agenti, sulla falsariga di quanto accade in una economia cooperativa. A questa rappresentazione teorica gli esponenti del filone marxista sotterraneo rispondevano proponendo una descrizione del funzionamento dell'economia capitalistica in termini di `circuito monetario' ed evidenziando come la struttura degli agenti - e quindi la divisione in classi - fosse connessa all'accesso esclusivo degli imprenditori-capitalisti alla moneta e al credito bancario 3.
3. I fattori di complementarità tra la critica interna e la critica esterna alla teoria neoclassica appaiono a nostro avviso evidenti. Tuttavia, è curioso notare come in letteratura non si siano fino a oggi sviluppate sufficienti occasioni di interazione tra di esse. Una prima spiegazione di questo mancato connubio può esser forse rintracciata in una tendenza che all'epoca del convegno di Modena era piuttosto diffusa, e che Graziani ha sempre fortemente stigmatizzato: quella di considerare lo scontro fra teorie economiche antagoniste nei soli termini della loro coerenza interna, senza alcun riguardo alla scelta delle premesse da cui le diverse teorie partono, alla capacità di quelle premesse di cogliere i tratti salienti del capitalismo, e anche in definitiva alle implicazioni politiche di quelle stesse premesse (le quali inevitabilmente retroagiranno sulla scelta iniziale) 4. Non è il caso qui di addentrarsi in delicate questioni epistemologiche, ma è interessante notare come già Maurice Dobb fosse giunto a conclusioni in parte simili, proprio nel corso di una comparazione tra la teoria neoclassica e le teorie antagoniste ispirate, tra gli altri, al lavoro di Sraffa 5.
Una spiegazione forse più approfondita della frammentarietà degli scambi tra i due filoni di ricerca potrebbe però rintracciarsi nell'idea che dallo sviluppo della cosiddetta critica interna è emerso, soprattutto ad opera di Garegnani, un progetto di rifondazione della teoria economica del tutto incompatibile a quello della critica esterna. Questo progetto, come è noto, si fonda sull'impiego del principio della domanda effettiva di Keynes per la determinazione del livello del prodotto sociale, e sull'utilizzo del sistema dei prezzi con cui Sraffa criticò la teoria neoclassica al fine costruttivo di delineare una coerente teoria della distribuzione del prodotto tra le classi. Questa teoria rappresenta, secondo la ricostruzione di Garegnani, l'evoluzione logica di una linea di pensiero risalente agli economisti classici e a Marx 6.
Ora, nella sparuta letteratura sul tema, è in effetti vero che l'ipotesi della incompatibilità tra il progetto di Garegnani e il filone definito della critica esterna appare prevalente. Tuttavia è possibile dimostrare che sia sul piano del metodo che della teoria, e sotto ipotesi sufficientemente generali, l'analisi di Garegnani appare sotto molti aspetti compatibile con alcuni recenti sviluppi della cosiddetta critica esterna, a partire dai recenti contributi di Graziani in tema di circuito monetario. Ci pare che questa rappresenti una ragione sufficiente per considerare tuttora aperta la discussione sul grado di compatibilità tra questi due filoni critici della teoria neoclassica, e sulla relativa possibilità di costruire un saldo ponte teorico tra di essi. Anzi, si potrebbe azzardare l'ipotesi che la riluttanza a lanciarsi nella costruzione di ponti come questo abbia in qualche misura contribuito alla riconquista del terreno perduto da parte dei `compatibilisti'.
4. Del resto, di fronte all'avanzata `conflittualista', in campo avverso nessuno era rimasto a guardare. Come Graziani fece notare, alle prime avvisaglie di crisi della teoria neoclassica dominante i `compatibilisti' decisero di rimpiazzarla in via temporanea con altri strumenti analitici, sempre al fine di garantire una giustificazione del profitto basata su criteri di efficienza e quindi una dimostrazione più o meno implicita della `armonia distributiva' del capitalismo. Ad esempio, per contrastare le rivendicazioni salariali, essi non esitarono a richiamare l'attenzione sulla vecchia ipotesi classica secondo cui profitti elevati generano maggiori risparmi e quindi un ritmo più sostenuto di investimenti. Se poi qualcuno avesse obiettato che dopo Keynes una simile ipotesi risultava improponibile, essi volentieri saltavano in sella a un altro cavallo teorico, quale ad esempio l'implicita assunzione di un mark-up fisso sui costi di produzione, e così via, senza mai arenarsi di fronte alle critiche e alle obiezioni.
Graziani ha sempre teso a sottolinare la straordinaria capacità di reazione dei `compatibilisti' nell'aggirare la critica, e l'assenza di scrupoli con la quale essi facevano e disfacevano le teorie a seconda delle contingenze, abbandonando gli spezzoni teorici sotto attacco per sostituirli con altri, magari altrettanto incoerenti ma meno immediatamente contestabili. Modigliani in questo era un maestro. Ad ogni modo, tutta questa versatilità poteva essere interpretata come una tipica manifestazione dell'influenza politica sul dibattito teorico, che in un certo senso legittimava proprio l'impiego delle categorie `meta-teoriche' del `compatibilismo' e del `conflittualismo', le stesse che avevano così profondamente turbato gli animi degli apologeti del `neutralismo' presenti in accademia.
È bene tener presente, comunque, che nella disputa di quegli anni i `compatibilisti' tentarono in più occasioni di superare lo stato di estrema fragilità teorica in cui versavano. Del resto, con tutto il fermento sociale dell'epoca, non risultava affatto semplice perseverare nell'impiego di teorie dalle cui premesse non si potessero far scaturire deduzioni logicamente coerenti. In tal senso vanno ricordati i tentativi compiuti dai massimi esponenti del pensiero neoclassico per scavalcare l'insormontabile ostacolo sraffiano. Su tutti il più ardito fu senz'altro quello di Frank Hahn, che nel 1982 sostenne non solo che un particolare tipo di equilibrio neoclassico, definito `di breve periodo', risultava del tutto immune alla critica sraffiana, ma addirittura arrivò a dichiarare che la teoria di Cambridge (derivante per l'appunto da un'interpretazione delle analisi di Sraffa e di Keynes) non fosse altro che un mero caso speciale di quell'equilibrio 7.
Ancora una volta, grazie ai contributi di Garegnani e altri, oggi sappiamo che il tentativo di Hahn è fallito, sia dal punto di vista della dimostrazione di quel caso speciale sia da quello più complessivo della difesa della teoria neoclassica nella versione definita di breve periodo 8. Tuttavia i tempi sono cambiati: la svolta politica del 1960 è lontana, e pur con tutte le sue contraddizioni, interne o esterne che siano, l'analisi neoclassica è tornata a rappresentare lo strumento privilegiato dei cosiddetti `compatibilisti', nei dipartimenti universitari come nei simposi organizzati dalle banche centrali. Inoltre, a testimonianza della cupezza dei tempi, vale la pena di notare che le versioni correnti dell'approccio `compatibilista' lasciano al conflitto sociale margini di azione ancora più risicati che in passato. A titolo di esempio, basterà dare un'occhiata al modello macroeconomico di Olivier Blanchard, attualmente tra i più in voga nelle aule universitarie 9. Esso rappresenta uno dei tentativi più accreditati di incorporare nell'analisi neoclassica alcuni contributi di frontiera dedicati alle `imperfezioni' di mercato causate da limiti informativi, dalla concorrenza imperfetta o dalla presenza dei sindacati o di altre istituzioni. Chiaramente, la ricostruzione di Blanchard si adegua all'attuale abitudine di stendere un velo di silenzio sulle critiche degli sraffiani alla teoria neoclassica del capitale. Ma soprattutto è interessante notare come, in questo modello, qualsiasi tentativo da parte dei sindacati di elevare il conflitto per ottenere incrementi salariali provocherà degli effetti ancora peggiori rispetto a quelli previsti dal modello neoclassico standard. Infatti, secondo l'analisi di Blanchard, la maggiore conflittualità sindacale si tradurrà come nel caso standard in un aumento della disoccupazione, ma a differenza del caso standard non avrà alcuna ripercussione positiva sul salario reale. E la ragione è semplice: sulla base di una serie di ipotesi ad hoc relative alla domanda di merci e all'applicazione dei soliti criteri di efficienza in un contesto di concorrenza imperfetta, il modello arriva a raccontare a chissà quanti studenti che il mark-up è fisso, e quindi l'unico salario reale di equilibrio è quello offerto dalle imprese! L'implicazione ha un che di geniale: nemmeno il più ristretto interesse corporativo è in grado di giustificare una forte tendenza alla conflittualità sociale. L'unica cosa ragionevole, per il sindacato, è di far capire ai propri iscritti che occorre adeguarsi al salario offerto dalle imprese, in modo tale che questi si rassegnino, accettino di lavorare alla remunerazione vigente e l'occupazione possa in tal modo aumentare. Insomma, un vero e proprio spot a sostegno di una politica dei redditi particolarmente retriva. Più `compatibilisti' di così si muore.
5. I tempi sono cambiati, dicevamo. Tuttavia è lecito attendersi che gli attuali esponenti dell'approccio definito `conflittualista' sapranno presentarsi attrezzati al prossimo appuntamento con la Storia. Sotto questo aspetto, ribadiamo, è possibile che si riveli fruttuoso il tentativo di costruzione di un ponte tra le analisi di coloro che potremmo forse considerare i maggiori esponenti italiani di quell'approccio, Garegnani e Graziani. A sostegno della praticabilità di un simile tentativo, ci limiteremo qui a precisare che non esiste alcuna irriducibile contrapposizione tra le linee di ricerca dei due autori, né sul piano della determinazione dei salari reali, né su quello della determinazione dei livelli assoluti di produzione - dove entrambi gli autori si pongono in un'ottica keynesiana, e in evidente contrapposizione con il paradigma neoclassico della scarsità - e nemmeno dal punto di vista più generale del metodo di analisi adottato. Il che del resto non dovrebbe sorprendere troppo. Il `nucleo' della teoria di Garegnani verte sulla relazione inversa tra salario reale e profitto, una relazione che può sempre essere incorporata nelle analisi di Graziani. Per il resto il nucleo è dichiaratamente aperto, nel senso che viene dal suo stesso autore reputato insufficiente, bisognoso di continui innesti per consentire una corretta interpretazione del sistema capitalistico.
Si consideri a questo proposito il recente intervento di Cavalieri, Garegnani e Lucii, apparso sul numero di marzo 2004 della «rivista del manifesto» 10. In quell'articolo gli autori propongono una chiave di lettura altamente istruttiva - e del tutto controcorrente rispetto alla vulgata teorica dominante - in merito all'andamento dell'occupazione e dei salari fatto registrare nei principali paesi capitalistici dal dopoguerra ad oggi. Ebbene appare evidente che, in stretta connessione con il rifiuto del paradigma neoclassico della scarsità, l'unico caposaldo teorico realmente indispensabile alla interpretazione degli autori è rappresentato proprio dalla relazione inversa tra le variabili distributive. Non è un caso, del resto, che nel medesimo articolo gli autori si cimentino in una critica senza appello a un tentativo che in ambito accademico riscosse un certo interesse nei primi anni '90: esso consisteva nel negare l'esistenza di una relazione inversa tra salario reale e saggio di profitto per sostenere che, sotto date ipotesi, si potrebbe ottenere una crescita simultanea e prolungata di entrambe le variabili distributive. Tale possibilità conteneva più o meno implicitamente un invito ad attuare forme di capitalismo `collaborativo', ossia modalità di cooperazione tra le classi sociali che potessero dar luogo a incrementi di benessere per tutti. Cavalieri, Garegnani e Lucii evidenziano l'inconsistenza delle ipotesi su cui quel tentativo si fonda. Essi quindi ribadiscono la relazione inversa tra salari reali e profitti e con essa anche il carattere irriducibilmente `conflittuale' del sistema capitalistico 11. Una volta confermata la relazione teorica fondamentale, però, l'analisi dei tre autori presenta delle evidenti esigenze di ampliamento e di approfondimento, che a nostro avviso potrebbero scaturire proprio dalla integrazione con i più recenti sviluppi della teoria del circuito monetario 12. Solo per citare un esempio, si considerino le ultime due fasi storiche esaminate dagli autori: la terza, tra il 1973 e i primi anni '80, in cui la reazione temporanea del sistema capitalistico all'esplosione delle rivendicazioni salariali consiste nello sciogliere ogni laccio monetario e istituzionale alla dinamica dei prezzi; e la quarta fase storica, che inizia nei primi anni '80 e continua tuttora, in cui la classe capitalista spinge i governi ad abbandonare definitivamente le politiche di pieno impiego al fine di sostituire lo strumento dell'inflazione con quello della disoccupazione, disciplinare in tal modo i lavoratori e riprendere quindi il controllo definitivo del sistema.
Appare evidente che un'accurata analisi di entrambe queste svolte richiederebbe un esame approfondito della dinamica di tutti i flussi monetari, dai canali e dai vincoli di finanziamento dei salari monetari alle condizioni politico-istituzionali che dopo il 1973 consentirono lo sfogo dei salari sui prezzi. Tutte questioni sulle quali la letteratura internazionale sul circuito monetario, a partire dai contributi di Graziani, offre risposte precise, alcune delle quali in perfetta sintonia con l'interpretazione di Cavalieri, Garegnani e Lucii, e potenzialmente in grado di fissare le basi per la costruzione di un valido ponte teorico.
6. Per concludere, può essere interessante per i lettori della «rivista» domandarsi se dai contributi di Garegnani e Graziani si possa già individuare una posizione `conflittualista' ben definita in materia di spesa pubblica e salari. Sulla spesa pubblica la risposta è agevole. Sia nelle analisi di Garegnani che in quelle di Graziani, non sussiste nessuna relazione necessaria tra i tassi d'interesse nominali e il tasso di crescita del reddito nominale, né sussiste un vincolo di scarsità capace di preludere a un problema di livello `ottimale' del debito pubblico. Questi due elementi, apparentemente innocui, rivelano di fatto una verità inconfessabile: che non vi è alcun criterio di efficienza politicamente neutrale che sia in grado di legittimare il Trattato di Maastricht e l'intero palinsesto macroeconomico europeo. Quel Trattato resta dunque agganciato per aria, o forse sarebbe meglio dire che resta agganciato agli interessi politici che l'hanno sostenuto. Ed è bene aggiungere che nelle analisi di Garegnani e di Graziani la questione dei vincoli alla politica macroeconomica e alla spesa pubblica assume un rilievo tutto particolare, considerato che dagli autori si evince che i fondamentali interessi dei lavoratori, dalla piena occupazione, alla sicurezza e al controllo del proprio lavoro, fino a una generale distribuzione del reddito e del potere, potranno trovare pieno riconoscimento solo attraverso un massiccio intervento politico sull'intera struttura del sistema.
Infine, sui salari. A questo proposito, qualcuno potrebbe forse esser tentato dal credere che sull'analisi delle rivendicazioni salariali l'approccio `conflittualista' suggerisca una risposta uguale e contraria a quella del modello `ultra-compatibilista' di Blanchard. Si potrebbe cioè ritenere che i conflittualisti attribuiscano alle rivendicazioni sui salari monetari il potere assoluto di aumentare senza limiti il salario reale, magari fino all'azzeramento dei profitti e alla conquista dell'intero prodotto netto. Se davvero così fosse si potrebbe in effetti parlare di una specie di sofisticazione accademica del famoso `vogliamo tutto' gridato dagli operai Fiat durante l'autunno caldo. Per qualche strana ragione, derivante dall'ignoranza o forse dall'autolesionismo, questa interpretazione di tanto in tanto riaffiora, soprattutto a sinistra. Eppure basterebbe poco per comprendere che non è affatto così. Sulla questione dei salari appare, infatti, evidente che le analisi di Garegnani e di Graziani risultano aperte. Garegnani in effetti esclude che dalle condizioni di equilibrio macroeconomico debbano per forza scaturire degli ostacoli alla capacità dei salari monetari di cambiare la distribuzione. Graziani, invece, individua un possibile vincolo nel fatto che spetta alle imprese decidere la quota del prodotto sociale spettante ai consumi, il che potrebbe in linea di principio rendere inefficaci le rivendicazioni sui salari monetari. Ad un esame più accurato, però, i due modelli risultano in merito altamente flessibili. Per parte sua Garegnani non esclude che in linea di principio l'avanzata salariale possa temporaneamente incontrare un limite superiore di tipo post-keynesiano, legato essenzialmente al massimo grado di utilizzo della capacità produttiva. Quanto a Graziani, è possibile dimostrare che, immettendo nel suo modello i consumi dei capitalisti e ammettendo sotto date ipotesi una certa dinamica nella composizione della produzione, la spinta salariale potrebbe rivelarsi molto efficace. Il tutto ovviamente sotto un limite ben definito, che riguarda entrambi gli autori e che per la verità attiene a questioni che valicano gli angusti confini della teoria, e che spaziano invece nel campo estesissimo dell'economia politica e al limite della lotta politica. Si tratta del fatto che, come ben evidenziato dall'articolo di Cavalieri, Garegnani e Lucii, la classe capitalista le proverà tutte pur di costringere le rivendicazioni dei lavoratori entro i vincoli di compatibilità che essa stessa definisce. Ma a questo proposito la questione, squisitamente conflittualista, è una e una sola: esiste un motivo valido per cui i lavoratori dovrebbero rinunciare ad uno dei pochissimi strumenti con i quali essi possono affermare la loro indisponibilità a rendersi compatibili a questo sistema? Esiste un motivo credibile per cui essi dovrebbero rinunciare alla lotta salariale?
grazie x la gentile attenzione