SIENA - L'inchiesta su Mps è un faldone che si gonfia sempre di più.
Lo scorso maggio era deflagrata con le maxi-perquisizioni sull' affaire Antonveneta, cioè l'acquisizione da 9 miliardi in contanti dell'istituto padovano e sui modi con cui la banca senese si era finanziata, a cominciare dal misterioso - per certi versi - bond fresh del 2008.
Di recente si è incrociata con un'altra indagine relativa ai derivati sottoscritti da Montepaschi, sviluppatasi contemporaneamente a Siena e a Milano e poi, poche settimane fa, riassunta tutta nel capoluogo toscano.
E il punto di contatto è appunto quell'emissione obbligazionaria da 960 milioni, per metà finita in pancia alla stessa Fondazione Mps, per metà a investitori istituzionali, come si disse allora.
Soggetti mai venuti allo scoperto, nonostante la vita travagliata di quel prodotto finanziario.
I 220 milioni di utili realizzati nel 2009 da Mps grazie ai derivati di Nomura con l'operazione «Alexandria» consentirono allora alla banca di remunerare la pesante cedola del 10% annuo ai sottoscrittori del bond fresh , per poco meno di 100 milioni complessivi. Non è ancora chiaro se «Alexandria» sia stata realizzata proprio per ottenere la provvista per quel dividendo, ma di certo senza quel maquillage contabile pagare sarebbe stato impossibile.
Quell'anno Mps riuscì a distribuire un utile di appena 186 mila euro e solo alle azioni di risparmio, tutte peraltro in mano alla Fondazione Mps: 1 centesimo per azione.
Ma lo stacco di quella cedola fece scattare la clausola che obbligava la banca a remunerare anche i bond «fresh».
Ma perché Mps ricorse a quello strumento così sofisticato? Per finanziare la gigantesca acquisizione di Antonveneta, 9 miliardi in contanti versati nel novembre 2007 alla spagnola Santander - che a sua volta l'aveva rilevata solo pochi mesi prima per poco più di 6 miliardi dalle spoglie dell'olandese Abn Amro - il Monte dei Paschi dovette ricorrere a un aumento di capitale monstre : 5 miliardi, metà dei quali dalla Fondazione Mps, che per questo si svenò.
Alla banca presieduta da Giuseppe Mussari e guidata dal direttore generale Antonio Vigni ne servivano però almeno 6, di miliardi.
Dove trovare quei soldi in più? Anche per agevolare la fondazione presieduta da Gabriello Mancini che non voleva diluirsi sotto il 50% del capitale, venne elaborato con Jp Morgan il «fresh», un prestito che però veniva computato nel patrimonio come se fosse capitale a tutti gli effetti.