Val
Torniamo alla LIRA
Ma perchè tutto questo desiderio da parte di Renzi a riaprire il dossier sulle banche popolari, e scatenare così un attacco che è arrivato da più parti? La verità è che Renzi doveva rispondere ai piani alti del mondo della finanza, ovvero al Fondo Monetario Internazionale, che aveva chiesto espressamente una riforma su tale tipologia di banche. Anche la Commissione europea voleva una riforma, così come anche Bankitalia e l'Antitrust.
La banche coinvolte nella riforma sono le 10 principali banche popolari italiane. Stando a quanto fa notare il Corriere della Sera, "la classifica mostra ai primi posti Ubi, Banco Popolare, Bpm e Bper tutte quotate così come le valtellinesi Creval e Popolare di Sondrio. Quotata anche Banca Etruria, mentre fuori dal listino restano le due big venete: Popolare di Vicenza e Veneto Banca. La decima, con attività tangibili per oltre 9 miliardi, è la più grande popolare del Mezzogiorno: la Popolare di Bari".
Il nodo da sciogliere però non è indifferente. La riforma di un settore, di norma, viene spiegata con l'inefficienza dello stesso.
In questo caso, invece, il comparto funziona bene. C'è poi tutta una serie di interessi che gravitano attorno a questi istituti, di natura ovviamente localistica. L'altro elemento identificativo del settore è il forte radicamento sul territorio, elemento che ha permesso di andare avanti in sei anni di crisi.
Ma è innegabile che il modello delle popolari, in questi anni di crisi, ha resistito. Basti pensare che l'intero settore delle banche (non popolari) ha perso in cinque anni 30.000 dipendenti e migliaia di sportelli. Nel caso delle popolari, invece, nell'arco di tempo compreso tra il 2006 e il 2014 è vero che il numero degli istituti è sceso da 93 a 70, ma parallelamente gli sportelli sono aumentati da 7.700 a quasi 9.300 (con una quota che rappresenta il 25% del mercato); il numero dei dipendenti è passato da 73.000 a 81.000, i soci da 1,045 milioni a 1,340 milioni, i clienti da 8,1 milioni a oltre 12 milioni e il totale dell'attivo da 387 a 450 miliardi.
Proprio questo scatena le critiche del presidente di Confartigianato Giorgio Merletti, che afferma che "Il sillogismo grande banca-grande credito non sembra aver funzionato. Gli imprenditori non registrano miglioramenti nell’accesso al credito con gli istituti di grandi dimensioni. Al contrario, il localismo bancario ha contribuito allo sviluppo del sistema produttivo italiano rappresentato per il 95% da piccole imprese. È il modello di sviluppo fatto di intreccio dell’economia con il territorio, idoneo a reggere la sfida dell’economia globale. Per questo siamo contrari alle ipotesi di riforma delle banche popolari all’attenzione del Governo", dice il presidente di Confartigianato, secondo il quale "il modello dell’economia globalizzata va coniugato con i sistemi di economie locali che hanno fatto la storia e il successo del made in Italy".
La banche coinvolte nella riforma sono le 10 principali banche popolari italiane. Stando a quanto fa notare il Corriere della Sera, "la classifica mostra ai primi posti Ubi, Banco Popolare, Bpm e Bper tutte quotate così come le valtellinesi Creval e Popolare di Sondrio. Quotata anche Banca Etruria, mentre fuori dal listino restano le due big venete: Popolare di Vicenza e Veneto Banca. La decima, con attività tangibili per oltre 9 miliardi, è la più grande popolare del Mezzogiorno: la Popolare di Bari".
Il nodo da sciogliere però non è indifferente. La riforma di un settore, di norma, viene spiegata con l'inefficienza dello stesso.
In questo caso, invece, il comparto funziona bene. C'è poi tutta una serie di interessi che gravitano attorno a questi istituti, di natura ovviamente localistica. L'altro elemento identificativo del settore è il forte radicamento sul territorio, elemento che ha permesso di andare avanti in sei anni di crisi.
Ma è innegabile che il modello delle popolari, in questi anni di crisi, ha resistito. Basti pensare che l'intero settore delle banche (non popolari) ha perso in cinque anni 30.000 dipendenti e migliaia di sportelli. Nel caso delle popolari, invece, nell'arco di tempo compreso tra il 2006 e il 2014 è vero che il numero degli istituti è sceso da 93 a 70, ma parallelamente gli sportelli sono aumentati da 7.700 a quasi 9.300 (con una quota che rappresenta il 25% del mercato); il numero dei dipendenti è passato da 73.000 a 81.000, i soci da 1,045 milioni a 1,340 milioni, i clienti da 8,1 milioni a oltre 12 milioni e il totale dell'attivo da 387 a 450 miliardi.
Proprio questo scatena le critiche del presidente di Confartigianato Giorgio Merletti, che afferma che "Il sillogismo grande banca-grande credito non sembra aver funzionato. Gli imprenditori non registrano miglioramenti nell’accesso al credito con gli istituti di grandi dimensioni. Al contrario, il localismo bancario ha contribuito allo sviluppo del sistema produttivo italiano rappresentato per il 95% da piccole imprese. È il modello di sviluppo fatto di intreccio dell’economia con il territorio, idoneo a reggere la sfida dell’economia globale. Per questo siamo contrari alle ipotesi di riforma delle banche popolari all’attenzione del Governo", dice il presidente di Confartigianato, secondo il quale "il modello dell’economia globalizzata va coniugato con i sistemi di economie locali che hanno fatto la storia e il successo del made in Italy".