NON SI GUARISCE MAI DA CIO' CHE CI MANCA... CI SI ADATTA

Campagna mediatica molto ben orchestrata ....eheheheheh è un dato di fatto che da fastidio a molti.

“Non è stato Trump a licenziare Comey”
Ma al netto di cosa accadrà nel prossimo futuro, quali sono le reali responsabilità politiche di Trump? Ha davvero commesso un errore clamoroso? Interessante l’analisi del professor Michel Chossudovsky pubblicata su Global Research: «La volontà di licenziare Comey non è arrivata dalla Casa Bianca. Si tratta di un’iniziativa del procuratore generale americano Jeff Sessions e del vice procuratore generale Rod Rosenstein, i quali hanno preparato un memorandum di tre pagine dove hanno criticato James Comey per la sua gestione dell’indagine sulle e-mail di Hillary Clinton. L’ufficio del procuratore generale ha agito in maniera evidente contro la Casa Bianca. La campagna propagandistica ha contribuito abbastanza deliberatamente a scatenare divisioni personali tra Trump e Comey» – sostiene il professore emerito di economia all’Università di Ottawa.

L’obiettivo? Colpire Trump

Secondo Chossudovsky, si è trattata di una mossa per danneggiare direttamente Trump: «Il licenziamento di Comey aveva lo scopo di indebolire il presidente e dare respiro alla campagna diffamatoria contro di lui. Il tentativo di equiparare Richard Nixon a Donald Trump è strumentale perché non è stato Trump a volere il licenziamento di James Comey. Inoltre, la presunta collusione tra Mosca e Trump è totalmente falsa. Questo caso non può essere ragionevolmente confrontato con l’indagine Watergate, che Nixon tentò di insabbiare». Come andrà a finire, è ora difficile a dirsi. Ma Trump rischia clamorosamente di finire nell’angolo e gli Stati Uniti potrebbero presto avere un nuovo presidente. E Mike Pence sembra essere pronto a sostituirlo.
 
...e poi sotto sotto ci sono pure questi che agiscono nella melma, per alimentarla.

Continuano gli attriti tra Stati Uniti e Russia in Siria, dopo che, ieri, i caccia della coalizione internazionale anti-Isis, guidata dagli Usa,
hanno colpito un convoglio dell’esercito di Damasco nel sud del Paese, al confine con l’Iraq e la Giordania.

Il raid sul convoglio di miliziani pro-Assad
Ad essere colpiti sono stati miliziani sciiti iraniani, secondo quanto riporta l’agenzia Reuters, che stavano minacciando le posizioni dei ribelli addestrati dagli Stati Uniti.
Secondo la ricostruzione fatta dalla stessa agenzia di stampa, sulla base delle dichiarazioni dei miliziani del gruppo ribelle Maghawir al Thawra,
sostenuto dagli Usa e dalla Gran Bretagna, la coalizione internazionale sarebbe intervenuta su richiesta dello stesso gruppo per neutralizzare il convoglio,
composto da quattro carri armati, che si stava avvicinando alle posizioni dei ribelli anti-Assad al confine con la Giordania.
I caccia statunitensi hanno lanciato alcuni colpi di avvertimento, prima di colpire il convoglio, che viaggiava sulla strada di at-Tanf, nella sua parte iniziale.
L’agenzia di stampa siriana Sana ha confermato che l’attacco ai miliziani governativi ha avuto luogo alle 16.30 di giovedì e che ha provocato diversi morti e danni materiali.
Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani, vicino all’opposizione, i morti sarebbero otto, per la maggior parte non di nazionalità siriana.

La reazione di Mosca: “Attacco inaccettabile”
Il vice ministro degli esteri russo, Gennady Gatilov, ha definito “del tutto inaccettabile” l’attacco della coalizione a guida americana.
Il raid mostra che gli Stati Uniti hanno "passato il segno violando la sovranità" della Siria, ha continuato il vice ministro degli Esteri.
Il raid degli Stati Uniti, inoltre, secondo Gatilov, “non è favorevole al processo politico".
Secondo quanto riferisce l’agenzia russa Tass, infatti, il bombardamento statunitense è avvenuto all’interno di una delle quattro zone di de-escalation istituite all’inizio maggio.
Secondo l’accordo raggiunto da Russia, Turchia e Iran durante l’ultimo round di colloqui di pace ad Astana, in Kazakhstan, in queste zone sono vietate le attività militari, incluse le operazioni aeree.
Anche il governo di Damasco ha condannato il raid, definendolo un attacco "impudente", che mostra "le falsità della coalizione internazionale riguardo alla sua volontà di combattere il terrorismo”.

Il Pentagono: “Difendiamo le nostre truppe”
Nella giornata di ieri il capo del Pentagono, il generale James Mattis, aveva sottolineato, dal canto suo, che gli Stati Uniti "non stanno intensificando il loro impegno in Siria”.
Lo scopo del raid, ha chiarito il Pentagono, è stato semplicemente quello di difendere le proprie truppe.
"Se qualcuno ci attacca, ci difendiamo, è stata la nostra politica per lungo tempo", ha evidenziato Mattis, affermando che gli Usa non intendono allargare il loro ruolo in Siria
ma che intendono agire in maniera difensiva laddove ce ne fosse bisogno.
Secondo la coalizione internazionale anti-Isis, infatti, l’attacco è stato lanciato perché i mezzi dei miliziani filo-governativi
“si stavano avvicinando troppo” alle unità della coalizione e, “nonostante gli avvertimenti, non si erano fermati".
 
A Trieste l'Ordine dei Giornalisti, a cui Grilz era iscritto, ignora da 30 anni la richiesta d'accogliere
una lapide con il suo nome accanto a quelle per l'inviato Rai Marco Luchetta
e gli operatori Alessandro Ota, Dario D'Angelo e Miran Hrovatin, morti tra Bosnia e Somalia.

Fuori da Trieste non va meglio. Grilz oltre ad aver raccontato guerre e guerriglie tra Afghanistan, Libano, Etiopia, Mozambico, Filippine, Cambogia e Birmania
scriveva per il Sunday Times e firmava reportage trasmessi da Cbs ed Nbc negli Stati Uniti, da Channel4 in Inghilterra e dal Tg1 Rai qui in Italia.
Eppure nonostante quel curriculum, nonostante sia stato il primo caduto su un campo di battaglia dal 1945 Almerigo Grilz
continua ad essere un «inviato ignoto» per gran parte dei giornalisti italiani.

Una damnatio memoriae sconcertante per una categoria che annovera con orgoglio colleghi come Adriano Sofri,
condannato per l'omicidio Calabresi, Bernardo Valli, orgoglioso dei 5 anni trascorsi nella Legione Straniera
e una legione di reduci della sinistra extraparlamentare come, Paolo Mieli, Toni Capuozzo, Enrico Deaglio, Lucia Annunziata,
Gad Lerner, Paolo Liguori, Andrea Marcenaro, Carlo Panella, Riccardo Barenghi e Lanfranco Pace.
 
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Sembra davvero ieri. E sono invece passati 44 anni da quel 20 maggio 1973, data fra le più tristi e tragiche della storia del motociclismo.
Alle 15,31 di una calda giornata primaverile sull’autodromo di Monza scende la cappa della tragedia e una grande festa si trasforma in una terribile catastrofe.

In un sol colpo, in un attimo, causa una spaventosa caduta dopo la partenza, alla “curva grande”, il motociclismo precipita nel dramma,
perdendo Renzo Pasolini (35 anni) e Jarno Saarinen (28 anni), due fra i piloti più forti e amati di tutti i tempi.

Nel pauroso groviglio rimangono feriti più o meno gravemente anche Walter Villa, Fosco Giansanti, Kanaya, Mortimer, Jansson, Palomo.
In totale sono 14 i piloti coinvolti nella micidiale carambola.

La gara monzese della quarto di litro costituiva per il neocampione del mondo e nuovo astro Saarinen (su Yamaha)
l’ultima conferma prima dell’investitura del nuovo titolo iridato (Jarno aveva infatti vinto le prime tre tappe di Le Castellet, di Salisburgo, di Hockeneheim) e per l’occhialuto riminese la possibilità di riscatto, finalmente in sella alla competitiva e fiammante Harley Davidson bicilindrica 2T raffreddata ad acqua.

Va anche ricordato che il finlandese era atteso nell’ultima corsa della giornata dopo la 250, la 500,
nel gran duello iridato con il binomio della MV Agusta, Agostini e Read.
E che Renzo aveva già disputato in mattinata una splendida 350, appiedato a tre giri dal termine da un grippaggio
(segnale di predestinazione?) della sua HD, dopo aver ripreso il battistrada Agostini (MV Agusta) con un inseguimento
che aveva mandato in estasi i 100 mila convenuti per il GP d’Italia.

Trenta i corridori ammessi allo start (erano 47 nelle pre qualifiche).
Cinque in prima fila: Saarinen, Kanaya, Pasolini, Lansivuori, Braun.
Motori spenti, piloti a terra, pronti a spingere la moto, folla ammutolita.

Chi scrive queste note, all’epoca inviato di un quotidiano nazionale, dà un’ultima pacca sulle spalle all’amico Renzo
e s’incammina verso la fine del rettilineo (all’epoca non c’erano varianti).

S’abbassa la bandiera a scacchi e un sibilo, un boato, scuote l’aria. Il gruppone giunge alla fine del rettifilo, a manetta.
Settecento metri di lancio con partenza da fermo spingono i bolidi a oltre 200 kmh all’ingresso del curvone.
Il serpentone punta sul bordo di sinistra, poi “vira” tutto sulla destra per tagliare la curva.
Mi passano a pochi metri, gomito a terra, a velocità incredibile.
Da dietro, lo spettacolo è superbo. Il cuore da appassionato impazzisce. La scena toglie il respiro.

Poi un attimo lungo una vita. Sgomento. Assisti impietrito e impotente.
Come una grande orchestra cui in pochi millesimi uno ad uno vengono “spenti” gli strumenti.
Un filmato scolorito e senza più audio. Scene fuori dal tempo che svaniscono in uno spazio senza più confini.
Sull’asfalto è una danza impazzita di ruote, pezzi di moto, tute nere che volano come birilli.

Cala, fino a spegnersi, l’intensità della melodia. E rimbombano stridori, tonfi, lamenti e grida di disperazione.
Sale un fumo cupo, denso, presagio di morte. Il fuoco delle balle di paglia corre lungo la lama del guard rail.
La “vecchia signora” incassa il suo credito e copre l’autodromo con il suo manto di lutto.
A piedi, molti piloti, chi indenne chi zoppicante e sanguinante, tornano indietro, verso i box .
Tutti piangono. Tutti scuotono la testa. La tragedia si è consumata.

La Rai riprende la gara in diretta in b/n, con una telecamera fissa per cui in tv si vede l’uscita della Parabolica, il rettifilo e niente più.
Per interminabili minuti, dai teleschermi Mario Poltronieri rassicura.
Ma poi ogni remora cade e si rende pubblico il conto salatissimo dell’accaduto.

Davanti a Pasolini, un pilota in testa, si imbarca. Forse Renzo è costretto a “pelare” il gas: è grippaggio del cilindro di destra.
La ruota posteriore della HD svirgola, la moto si impenna a cannone, sbalza in alto il riminese che ripiomba sull’asfalto e fa un volo pauroso di oltre 50 metri.
Saarinen, in scia, non può evitare il bolide di Schiranna. Lo centra in pieno.
Jarno vola in aria e poi picchia duro a terra e va a sbattere sulla lama del guard rail massacrandosi la testa.

La Yamaha del finlandese centra il guard rail e rimbalza in pista decimando gli altri corridori. E’ l’inferno.
Piloti e moto ovunque. Prendono fuoco le balle di paglia. I primi soccorritori si trovano davanti a uno spettacolo agghiacciante.

Due medici tentano disperatamente di rianimare Pasolini con la respirazione bocca a bocca e il massaggio cardiaco.
La prima autoambulanza giunge dopo 11 minuti e corre via con Saarinen che giunge cadavere in infermeria.
Renzo dà segni di vita ma il suo cuore cessa di battere pochi minuti dopo vicino al corpo dell’altro sventurato pilota.

Il papà di Renzo, Massimo, attende impietrito. Così come la bella e pallida Soili, moglie di Jarno, chiusa nella sua disperazione.

Poi, dopo, mille congetture, illazioni, polemiche, persino cause durate anni. Tutto inutile.

Renzo, l’antidivo dal sorriso mesto sotto gli occhialoni da tartaruga e
Jarno
, funambolo sul ghiaccio, ingegnere meccanico e titolare di una azienda di pompe funebri a Turku, il più forte pilota degli anni ’70, se ne andavano così.
Per amore di quel motociclismo che divorava i suoi figli migliori. Per l’insipienza e l’arroganza di chi quello sport dirigeva.
 

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