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Forumer storico
Magno istituì molte nuove zecche, ognuna posta sotto il controllo di ricchi mercanti-banchieri, e questi sicuramente lo ricompensarono non facendogli mancare armi ed eserciti.
In corrispondenza di questo periodo storico, che aveva visto la transizione delle città-stato greche al sistema monetario basato sui metalli preziosi, con una resistenza più straordinaria del solito di Sparta con le leggi di Licurgo (che magari vedremo in un altro articolo), alcuni storici segnalano anche la "singolare iniziativa" nel V secolo a Clazomene (nel Golfo di Smirne): una piccola crisi era scoppiata perché il debito di 20 talenti di argento contratto per pagare delle truppe mercenarie aveva imposto per molti anni l'incombenza del pagamento di 4 talenti di interessi annui, senza che i clazomenei fossero riusciti ad ammortizzare tale debito. I regnanti pensarono allora di emettere 'denaro rappresentativo' in ferro del valore nominale totale di 20 talenti, che i cittadini furono obbligati a prendere in cambio delle monete di argento. L'argento così ottenuto fu usato per estinguere immediatamente il debito, e ne avanzò per essi una rendita annua di 4 talenti, precedentemente assorbita dal pagamento degli interessi sul debito, che fu usata per risarcire in pochi anni il denaro rappresentativo emesso.
Il passaggio dal sistema monetario basato su argento e oro a quello delle ricevute-denaro create dai banchieri è stata una costante nella storia dell'umanità.
Un esempio per tutti, quello del Regno di Napoli nel XVI secolo, a dimostrazione dell'instabilità intrinseca del sistema monetario basato sull'argento; a dimostrazione del fatto che, dopo la sua introduzione, una crescente carenza di metalli preziosi fosse un pericolo continuo per uno stato, e del fatto che il passaggio alla legalizzazione delle ricevute dei banchieri è una tappa obbligata in seguito alle inevitabili crisi di liquidità.
Nel Regno di Napoli, all'epoca di Filippo II di Spagna (1543-1598), c'era un'enorme fuoriuscita di fondi, sia a beneficio del Regno Papale (grazie agli istituti religiosi operanti nel Regno di Napoli), sia a beneficio di Fiorentini e Genovesi (cioè i banchieri che operavano nel Regno e inviavano i profitti alle loro terre natìe). Un'altra causa di fuoriuscita di argento era che il Regno dipendeva dall'importazione della maggior parte delle materie prime e prodotti industriali (Serra, 1994). Per ultimo, ma certo non in importanza, la madre-patria spagnola operava un ulteriore prosciugamento sul budget del Regno di Napoli, soprattutto per le guerre che finanziava senza sosta (più di 2 milioni di ducati delle finanze del regno furono inviate all'estero tra il settembre 1564 e il febbraio 1569 come pagamenti per gli eserciti, in munizioni, vitti e stipendi) (De Rosa 1987).
Queste fuoriuscite impoverivano la circolazione monetaria del Regno, che era basata sul ducato d'argento e quindi essenzialmente denaro metallico.
Come rimedio per la carenza di moneta il governo era spesso obbligato ad importare argento per coniare monete. Riscontriamo comunicazioni con carattere di estrema urgenza, come nel 1556, quando il Fiduciario della Zecca, Gio. Batt. Ravaschiero, viene spronato dal viceré a procedere “quanto prima possibile, dato l'urgente bisogno di pagare i mercanti che avevano fatto dei prestiti alla Corte" (Archivio Generale de Simanca, Visitas de Italia, fascio 348, fasc.n.7). Per inciso, indovinate un po' chi erano i Ravaschiero? Essi erano i potenti banchieri di Genova aventi una filiale in quel tempo anche a Napoli !! Cioè la zecca era sotto il controllo del banchiere privato.
Nuovi fondi erano necessari per sostenere le guerre spagnole contro olandesi e turchi e, poiché in una situazione di cattivi raccolti non era possibile incrementare il carico fiscale, terre demaniali e fortezze del Regno (come quelle di Montecorvino e Olevano nel Principato citra), dovevano essere vendute (Palermo 1846). Quando ciò non era possibile, il governo era una volta ancora obbligato a chiedere a mercanti e banchieri nuovi prestiti e, in vista dell'urgenza, ad accettare di pagare interessi fino al 15%. (Camera della Sommaria, 1576).
Nel luglio 1582, il viceré dovette riconoscere che il denaro circolante nel Regno era scarso e impose nuovamente il divieto di esportare denaro d'argento, sotto pena di severe sanzioni (Vario 1772). Eppure i provvedimenti ebbero scarso effetto, anche quando il viceré stabilì la pena di morte per coloro che effettuavano tale contrabbando. Due anni dopo, nel 1584, era chiaro che la scarsità di moneta stava compromettendo il commercio e l'economia.
Il viceré tentò un altro approccio per ottenere una certa quantità di denaro circolante. Il 27 ottobre 1594 fu stipulato un accordo con il banchiere Antonio Belmosto, che garantì il trasferimento entro 2 anni al regno di Napoli di 1 milione di scudi (in moneta sonante e in lingotti di argento), in cambio di certi benefici finanziari (De Rosa 1987).
A peggiorare e complicare il disastro economico ci furono gli errori commessi in materia monetaria: il rapporto tra valore intrinseco della moneta napoletana e valore nominale fu mantenuto alto, in un tempo in cui le altre nazioni vicine, tutti gli stati europei tra cui la Sicilia, avevano ridotto il contenuto di argento nelle loro monete (Turbolo 1626). I sovrani del Regno di Napoli, involontariamente e forse mal consigliati, avevano creato una situazione in cui era vantaggioso esportare metalli preziosi, sia in monete che in lingotti, perché il ducato aveva un valore maggiore delle valute straniere.
Assaliti dalla necessità di fornire denaro per il commercio e non potendo più continuare ad acquistare metalli preziosi da inviare alla zecca, intorno al 1570 il governo iniziò a permettere la circolazione dei certificati di credito, "fedi di credito", emesse dai Monte di Pietà che erano stati istituiti a Napoli nel 1539, autorizzando le casse dello stato ad accettarli come pagamenti delle tasse e per altri pagamenti. Poco tempo dopo, nel 1597, Girolamo Ramusio riferisce che “nel Regno di Napoli ci sono ora lettere di credito per il valore di mezzo milione di monete d'oro, che appartengono a gentlemen napoletani ed altre persone che cercano titoli nobiliari e cariche, offrendo molto denaro, alcuni di essi per acquistare tali riconoscimenti nobiliari, altri per non perderli. Questi desideri e ambizioni sono molto utili al Re, perché Sua Maestà vende il titolo di principe a 20.000 scudi, di duca a 15.000, di marchese a 10.000, e di conte a 5.000…”. (Relazioni, 1992).
Certificati di credito non erano nuovi nel Regno di Napoli. Ora però le fedi non solo erano prova di depositi (allo stesso modo dei depositi notarili), non solo esse venivano emesse come prestiti, ma soprattutto esse erano trasferibili per girata, così che esse diventavano il mezzo di scambio del popolo.
Concedendo ad un certo numero di istituzioni lo status di banche, il governo aveva raggiunto due scopi:
1) quello di rimpiazzare parte della moneta metallica del regno (che era diventata sempre più costosa a causa della necessità di importare argento) con denaro a prezzo zero per il re;
2) quello di assicurare per il regnante dei prestatori, poiché tali banche potevano dare prestiti al governo e alla città di Napoli a tassi di interesse inferiori a quelli di mercato.
Per dare a tali istituti di prestito un'autorevolezza maggiore, i regnanti gradualmente trasferirono nelle loro casse i fondi del Regno.
Un altro vantaggio era che le banche, per le transazioni tra i loro clienti, semplicemente registravano e trasferivano le cifre su acconti, cioè vigeva l'appianamento dei crediti per intermediazione bancaria (venne adottato il sistema bancario del registro a partita doppia).
Entro l'inizio del 17° secolo si era innestata una tendenza sempre maggiore contro i pagamenti in contanti, come sottolinea Marc'Antonio De Santis, "mentre in passato i banchieri consideravano un affronto il non pagare tutti quelli che si presentavano per monetizzare le ricevute”, le banche ora consideravano un grande affronto il fatto che qualcuno si presentasse da loro e domandasse di essere pagato in contanti, per lettere di credito fino a 200 scudi” (De Santis 1997).
Pietro Colletta descriverà, nel capitolo IX della Storia del Reame di Napoli (edita da G. Capponi, 1834), le vicende disastrose tra il 1791 e il 1799, quando i Napoletani scoprirono a loro spese che il volume di fedi di credito superava di gran lunga i depositi di tali istituti di credito (massa monetaria creata dunque moltiplicando riserve):
"I pubblici officii, i privati, la stessa casa del re, depositavano al banco il proprio danaro, là tenuto sicuro perché guardato o guarentito. Una carta detta fede di credito, accertava il deposito. Le fedi circolavano come danaro, nulla perdevano al cambio, guadagnavano ai tempi delle maggiori fiere del regno per il comodo e la sicurezza di portare in un foglio somme grandissime.
Milioni di ducati stavano in quelle casse. I pagamenti dei legati e molto danaro del regno si facevano per carte di banco. Il credito le sosteneva: ma il loro abuso fu svelato: le fedi già soperchiavano di decine e decine di milioni la moneta. (..) I depositari, traendo in folla ed a furia i loro crediti, fecero vóte le casse; e, trattenuti gli ultimi pagamenti, fu distrutto il prestigio della fedeltà. Essendo grande il danno perché infinite le relazioni coi banchi, divenne unanime nella popolazione il grido e lo spavento contro i reali. Il governo svergognò e punì molti uffiziali di banco per frodi vere o apposte. E non però migliorando le condizioni, e vedendo le polizze rifiutate nel commercio, comandò che valessero nelle private contrattazioni antiche o presenti: così, offendendo e nuocendo alle ragioni dell'universale.
Nacque allora nei fogli di cambio la indicazione di moneta fuori banco, la quale regge ancora, e forse, scordata la origine (perciò ne parlo) starà in eterno" (Colletta 1834).
Colletta intende dire che l'emissione di banconote da parte di privati aveva senso fin tanto che erano promesse di qualcosa, l'oro, ma oggi ci si dimentica di questa origine del denaro, di questa promessa del controvalore (eventualmente tenuta in deposito dall'emettitore), e si consente ai privati di creare masse monetarie senza contropartita o deposito alcuno, e con danno per la popolazione.
L'obiettivo era raggiunto.
Il passaggio da questi metalli preziosi al pagamento con ricevute non era né casuale né una novità. Era già avvenuto nell'antica Mesopotamia e avverrà inevitabilmente in ogni altra parte del mondo ed in ogni epoca come conseguenza delle distorsioni e stress enormi che venivano procurati naturalmente e artificialmente alle popolazioni che se ne servivano.
Era proprio per questo motivo che l'elite internazionale di mercanti-banchieri teneva tanto che fosse introdotto il sistema monetario basato sull'argento. Si contava di poter usare il suo potere destabilizzante a proprio vantaggio più e più volte nel corso della storia. Di lì il passo era breve a che i governi delle nazioni fossero costretti a far nascere la massa monetaria di interi popoli come debito verso una classe privilegiata di banchieri internazionali.
Le Banche Centrali
Storicamente si fa risalire il “baco” della creazione delle Banche centrali alla Bank of England. Essa inizierà a creare banconote, a dare prestiti, e in breve ad esercitare il solito vecchio abuso: la creazione del mezzo di pagamento, gravato di un interesse, a vantaggio di una banca privata che non aveva in deposito tutto il valore delle ricevute.
William III ed i suoi successori non s'interesseranno più della natura matematica o dell'origine dei prestiti fatti dai "banchieri riconosciuti".
La storia della civiltà, da questo punto di vista, ha visto silenziosamente sconfitti quasi tutti i 'grandi.' Anche per Napoleone fu impossibile resistere alla pressione dei poteri addetti all'emissione di denaro.
Nell'aprile del 1800 il grande generale francese permise l'istituzione della National Bank of France, una banca privata che emetteva banconote dal nulla, o meglio dal privilegio concessogli di moltiplicare riserve.
Non avrebbe Napoleone potuto decidere di far emettere il denaro dallo Stato stesso invece che da banchieri privati? La risposta la troviamo nelle sue contingenti necessità militari. Essendo un gruppo interconnesso di potenti mercanti-banchieri di diversi stati divenuti fedeli tra di loro, essi avevano guadagnato una posizione tale da poter negare, a coloro che meno rendevano loro omaggio e privilegi, sia approvvigionamenti di monete che delle armi del tempo. Un generale di un esercito si muoveva in quello che era un terreno ideale per l'affermarsi dei banchieri, la necessità di diventare forte militarmente lo obbligava a dover chiedere il loro appoggio.
Lo sapeva Napoleone cosa stava facendo istituendo (nel 1800) tra i suoi sudditi un sistema economico dove l'emissione di denaro era impacchettata e regalata ai banchieri emissari dell'elite internazionale?
Si, lo sapeva. La questione dell'emissione del denaro da parte di questi tizi non era a lui ignota, come testimoniano alcuni passaggi nelle sue Memorie:
"Quando una nazione dipende dal denaro di banchieri privati, sono questi e non i leader di governo a controllare la situazione, poiché la mano che dà sta sopra quella che prende. Il denaro non ha fazione, i finanzieri non hanno né patriottismo né decenza; il loro unico scopo è il guadagno".
Sta di fatto che egli permise ad "alcuni sostenitori del colpo di stato del 18 brumaio di fondare la National Banque of France, a cui venne concesso il monopolio privato dell'emissione di banconote francesi (Ferguson 2001).
Nel 1806 Napoleone dirà: "La Banque National non appartiene solo ai suoi azionisti; appartiene anche allo stato che le ha concesso il privilegio di creare denaro" (Crouzet 1999). Se l'elite dei banchieri avesse avuto la possibilità di rispondergli pubblicamente avrebbe gridato: "E noi ti abbiamo concesso il privilegio di diventare Napoleone I" (il 2 dicembre 1804 egli assume su proposta del senato la corona di Imperatore).
A questo punto l'imperatore, in questo dialogo semi-segreto con i banchieri, avrebbe concluso ribadendo con fermezza: "L'Etat c'est moi" (lo Stato sono io), cioè sono io come regnante a dover garantire al mio popolo la sorgente del mezzo di scambio, la moneta, e non voi!".
Ma con i creatori del denaro dal nulla Napoleone dovette convivere. Non gli fu possibile resistere alle pressioni e dunque creare una realtà che non concedesse anche in Francia il monopolio privato dell'emissione di denaro ai banchieri internazionali.
Vedere quello che hai davanti al naso richiede una lotta costante”. (George Orwell
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In corrispondenza di questo periodo storico, che aveva visto la transizione delle città-stato greche al sistema monetario basato sui metalli preziosi, con una resistenza più straordinaria del solito di Sparta con le leggi di Licurgo (che magari vedremo in un altro articolo), alcuni storici segnalano anche la "singolare iniziativa" nel V secolo a Clazomene (nel Golfo di Smirne): una piccola crisi era scoppiata perché il debito di 20 talenti di argento contratto per pagare delle truppe mercenarie aveva imposto per molti anni l'incombenza del pagamento di 4 talenti di interessi annui, senza che i clazomenei fossero riusciti ad ammortizzare tale debito. I regnanti pensarono allora di emettere 'denaro rappresentativo' in ferro del valore nominale totale di 20 talenti, che i cittadini furono obbligati a prendere in cambio delle monete di argento. L'argento così ottenuto fu usato per estinguere immediatamente il debito, e ne avanzò per essi una rendita annua di 4 talenti, precedentemente assorbita dal pagamento degli interessi sul debito, che fu usata per risarcire in pochi anni il denaro rappresentativo emesso.
Il passaggio dal sistema monetario basato su argento e oro a quello delle ricevute-denaro create dai banchieri è stata una costante nella storia dell'umanità.
Un esempio per tutti, quello del Regno di Napoli nel XVI secolo, a dimostrazione dell'instabilità intrinseca del sistema monetario basato sull'argento; a dimostrazione del fatto che, dopo la sua introduzione, una crescente carenza di metalli preziosi fosse un pericolo continuo per uno stato, e del fatto che il passaggio alla legalizzazione delle ricevute dei banchieri è una tappa obbligata in seguito alle inevitabili crisi di liquidità.
Nel Regno di Napoli, all'epoca di Filippo II di Spagna (1543-1598), c'era un'enorme fuoriuscita di fondi, sia a beneficio del Regno Papale (grazie agli istituti religiosi operanti nel Regno di Napoli), sia a beneficio di Fiorentini e Genovesi (cioè i banchieri che operavano nel Regno e inviavano i profitti alle loro terre natìe). Un'altra causa di fuoriuscita di argento era che il Regno dipendeva dall'importazione della maggior parte delle materie prime e prodotti industriali (Serra, 1994). Per ultimo, ma certo non in importanza, la madre-patria spagnola operava un ulteriore prosciugamento sul budget del Regno di Napoli, soprattutto per le guerre che finanziava senza sosta (più di 2 milioni di ducati delle finanze del regno furono inviate all'estero tra il settembre 1564 e il febbraio 1569 come pagamenti per gli eserciti, in munizioni, vitti e stipendi) (De Rosa 1987).
Queste fuoriuscite impoverivano la circolazione monetaria del Regno, che era basata sul ducato d'argento e quindi essenzialmente denaro metallico.
Come rimedio per la carenza di moneta il governo era spesso obbligato ad importare argento per coniare monete. Riscontriamo comunicazioni con carattere di estrema urgenza, come nel 1556, quando il Fiduciario della Zecca, Gio. Batt. Ravaschiero, viene spronato dal viceré a procedere “quanto prima possibile, dato l'urgente bisogno di pagare i mercanti che avevano fatto dei prestiti alla Corte" (Archivio Generale de Simanca, Visitas de Italia, fascio 348, fasc.n.7). Per inciso, indovinate un po' chi erano i Ravaschiero? Essi erano i potenti banchieri di Genova aventi una filiale in quel tempo anche a Napoli !! Cioè la zecca era sotto il controllo del banchiere privato.
Nuovi fondi erano necessari per sostenere le guerre spagnole contro olandesi e turchi e, poiché in una situazione di cattivi raccolti non era possibile incrementare il carico fiscale, terre demaniali e fortezze del Regno (come quelle di Montecorvino e Olevano nel Principato citra), dovevano essere vendute (Palermo 1846). Quando ciò non era possibile, il governo era una volta ancora obbligato a chiedere a mercanti e banchieri nuovi prestiti e, in vista dell'urgenza, ad accettare di pagare interessi fino al 15%. (Camera della Sommaria, 1576).
Nel luglio 1582, il viceré dovette riconoscere che il denaro circolante nel Regno era scarso e impose nuovamente il divieto di esportare denaro d'argento, sotto pena di severe sanzioni (Vario 1772). Eppure i provvedimenti ebbero scarso effetto, anche quando il viceré stabilì la pena di morte per coloro che effettuavano tale contrabbando. Due anni dopo, nel 1584, era chiaro che la scarsità di moneta stava compromettendo il commercio e l'economia.
Il viceré tentò un altro approccio per ottenere una certa quantità di denaro circolante. Il 27 ottobre 1594 fu stipulato un accordo con il banchiere Antonio Belmosto, che garantì il trasferimento entro 2 anni al regno di Napoli di 1 milione di scudi (in moneta sonante e in lingotti di argento), in cambio di certi benefici finanziari (De Rosa 1987).
A peggiorare e complicare il disastro economico ci furono gli errori commessi in materia monetaria: il rapporto tra valore intrinseco della moneta napoletana e valore nominale fu mantenuto alto, in un tempo in cui le altre nazioni vicine, tutti gli stati europei tra cui la Sicilia, avevano ridotto il contenuto di argento nelle loro monete (Turbolo 1626). I sovrani del Regno di Napoli, involontariamente e forse mal consigliati, avevano creato una situazione in cui era vantaggioso esportare metalli preziosi, sia in monete che in lingotti, perché il ducato aveva un valore maggiore delle valute straniere.
Assaliti dalla necessità di fornire denaro per il commercio e non potendo più continuare ad acquistare metalli preziosi da inviare alla zecca, intorno al 1570 il governo iniziò a permettere la circolazione dei certificati di credito, "fedi di credito", emesse dai Monte di Pietà che erano stati istituiti a Napoli nel 1539, autorizzando le casse dello stato ad accettarli come pagamenti delle tasse e per altri pagamenti. Poco tempo dopo, nel 1597, Girolamo Ramusio riferisce che “nel Regno di Napoli ci sono ora lettere di credito per il valore di mezzo milione di monete d'oro, che appartengono a gentlemen napoletani ed altre persone che cercano titoli nobiliari e cariche, offrendo molto denaro, alcuni di essi per acquistare tali riconoscimenti nobiliari, altri per non perderli. Questi desideri e ambizioni sono molto utili al Re, perché Sua Maestà vende il titolo di principe a 20.000 scudi, di duca a 15.000, di marchese a 10.000, e di conte a 5.000…”. (Relazioni, 1992).
Certificati di credito non erano nuovi nel Regno di Napoli. Ora però le fedi non solo erano prova di depositi (allo stesso modo dei depositi notarili), non solo esse venivano emesse come prestiti, ma soprattutto esse erano trasferibili per girata, così che esse diventavano il mezzo di scambio del popolo.
Concedendo ad un certo numero di istituzioni lo status di banche, il governo aveva raggiunto due scopi:
1) quello di rimpiazzare parte della moneta metallica del regno (che era diventata sempre più costosa a causa della necessità di importare argento) con denaro a prezzo zero per il re;
2) quello di assicurare per il regnante dei prestatori, poiché tali banche potevano dare prestiti al governo e alla città di Napoli a tassi di interesse inferiori a quelli di mercato.
Per dare a tali istituti di prestito un'autorevolezza maggiore, i regnanti gradualmente trasferirono nelle loro casse i fondi del Regno.
Un altro vantaggio era che le banche, per le transazioni tra i loro clienti, semplicemente registravano e trasferivano le cifre su acconti, cioè vigeva l'appianamento dei crediti per intermediazione bancaria (venne adottato il sistema bancario del registro a partita doppia).
Entro l'inizio del 17° secolo si era innestata una tendenza sempre maggiore contro i pagamenti in contanti, come sottolinea Marc'Antonio De Santis, "mentre in passato i banchieri consideravano un affronto il non pagare tutti quelli che si presentavano per monetizzare le ricevute”, le banche ora consideravano un grande affronto il fatto che qualcuno si presentasse da loro e domandasse di essere pagato in contanti, per lettere di credito fino a 200 scudi” (De Santis 1997).
Pietro Colletta descriverà, nel capitolo IX della Storia del Reame di Napoli (edita da G. Capponi, 1834), le vicende disastrose tra il 1791 e il 1799, quando i Napoletani scoprirono a loro spese che il volume di fedi di credito superava di gran lunga i depositi di tali istituti di credito (massa monetaria creata dunque moltiplicando riserve):
"I pubblici officii, i privati, la stessa casa del re, depositavano al banco il proprio danaro, là tenuto sicuro perché guardato o guarentito. Una carta detta fede di credito, accertava il deposito. Le fedi circolavano come danaro, nulla perdevano al cambio, guadagnavano ai tempi delle maggiori fiere del regno per il comodo e la sicurezza di portare in un foglio somme grandissime.
Milioni di ducati stavano in quelle casse. I pagamenti dei legati e molto danaro del regno si facevano per carte di banco. Il credito le sosteneva: ma il loro abuso fu svelato: le fedi già soperchiavano di decine e decine di milioni la moneta. (..) I depositari, traendo in folla ed a furia i loro crediti, fecero vóte le casse; e, trattenuti gli ultimi pagamenti, fu distrutto il prestigio della fedeltà. Essendo grande il danno perché infinite le relazioni coi banchi, divenne unanime nella popolazione il grido e lo spavento contro i reali. Il governo svergognò e punì molti uffiziali di banco per frodi vere o apposte. E non però migliorando le condizioni, e vedendo le polizze rifiutate nel commercio, comandò che valessero nelle private contrattazioni antiche o presenti: così, offendendo e nuocendo alle ragioni dell'universale.
Nacque allora nei fogli di cambio la indicazione di moneta fuori banco, la quale regge ancora, e forse, scordata la origine (perciò ne parlo) starà in eterno" (Colletta 1834).
Colletta intende dire che l'emissione di banconote da parte di privati aveva senso fin tanto che erano promesse di qualcosa, l'oro, ma oggi ci si dimentica di questa origine del denaro, di questa promessa del controvalore (eventualmente tenuta in deposito dall'emettitore), e si consente ai privati di creare masse monetarie senza contropartita o deposito alcuno, e con danno per la popolazione.
L'obiettivo era raggiunto.
Il passaggio da questi metalli preziosi al pagamento con ricevute non era né casuale né una novità. Era già avvenuto nell'antica Mesopotamia e avverrà inevitabilmente in ogni altra parte del mondo ed in ogni epoca come conseguenza delle distorsioni e stress enormi che venivano procurati naturalmente e artificialmente alle popolazioni che se ne servivano.
Era proprio per questo motivo che l'elite internazionale di mercanti-banchieri teneva tanto che fosse introdotto il sistema monetario basato sull'argento. Si contava di poter usare il suo potere destabilizzante a proprio vantaggio più e più volte nel corso della storia. Di lì il passo era breve a che i governi delle nazioni fossero costretti a far nascere la massa monetaria di interi popoli come debito verso una classe privilegiata di banchieri internazionali.
Le Banche Centrali
Storicamente si fa risalire il “baco” della creazione delle Banche centrali alla Bank of England. Essa inizierà a creare banconote, a dare prestiti, e in breve ad esercitare il solito vecchio abuso: la creazione del mezzo di pagamento, gravato di un interesse, a vantaggio di una banca privata che non aveva in deposito tutto il valore delle ricevute.
William III ed i suoi successori non s'interesseranno più della natura matematica o dell'origine dei prestiti fatti dai "banchieri riconosciuti".
La storia della civiltà, da questo punto di vista, ha visto silenziosamente sconfitti quasi tutti i 'grandi.' Anche per Napoleone fu impossibile resistere alla pressione dei poteri addetti all'emissione di denaro.
Nell'aprile del 1800 il grande generale francese permise l'istituzione della National Bank of France, una banca privata che emetteva banconote dal nulla, o meglio dal privilegio concessogli di moltiplicare riserve.
Non avrebbe Napoleone potuto decidere di far emettere il denaro dallo Stato stesso invece che da banchieri privati? La risposta la troviamo nelle sue contingenti necessità militari. Essendo un gruppo interconnesso di potenti mercanti-banchieri di diversi stati divenuti fedeli tra di loro, essi avevano guadagnato una posizione tale da poter negare, a coloro che meno rendevano loro omaggio e privilegi, sia approvvigionamenti di monete che delle armi del tempo. Un generale di un esercito si muoveva in quello che era un terreno ideale per l'affermarsi dei banchieri, la necessità di diventare forte militarmente lo obbligava a dover chiedere il loro appoggio.
Lo sapeva Napoleone cosa stava facendo istituendo (nel 1800) tra i suoi sudditi un sistema economico dove l'emissione di denaro era impacchettata e regalata ai banchieri emissari dell'elite internazionale?
Si, lo sapeva. La questione dell'emissione del denaro da parte di questi tizi non era a lui ignota, come testimoniano alcuni passaggi nelle sue Memorie:
"Quando una nazione dipende dal denaro di banchieri privati, sono questi e non i leader di governo a controllare la situazione, poiché la mano che dà sta sopra quella che prende. Il denaro non ha fazione, i finanzieri non hanno né patriottismo né decenza; il loro unico scopo è il guadagno".
Sta di fatto che egli permise ad "alcuni sostenitori del colpo di stato del 18 brumaio di fondare la National Banque of France, a cui venne concesso il monopolio privato dell'emissione di banconote francesi (Ferguson 2001).
Nel 1806 Napoleone dirà: "La Banque National non appartiene solo ai suoi azionisti; appartiene anche allo stato che le ha concesso il privilegio di creare denaro" (Crouzet 1999). Se l'elite dei banchieri avesse avuto la possibilità di rispondergli pubblicamente avrebbe gridato: "E noi ti abbiamo concesso il privilegio di diventare Napoleone I" (il 2 dicembre 1804 egli assume su proposta del senato la corona di Imperatore).
A questo punto l'imperatore, in questo dialogo semi-segreto con i banchieri, avrebbe concluso ribadendo con fermezza: "L'Etat c'est moi" (lo Stato sono io), cioè sono io come regnante a dover garantire al mio popolo la sorgente del mezzo di scambio, la moneta, e non voi!".
Ma con i creatori del denaro dal nulla Napoleone dovette convivere. Non gli fu possibile resistere alle pressioni e dunque creare una realtà che non concedesse anche in Francia il monopolio privato dell'emissione di denaro ai banchieri internazionali.
Vedere quello che hai davanti al naso richiede una lotta costante”. (George Orwell

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