ciao a tutti...o almeno a chi è rimasto.
Milano, 13 ago - Due recenti
scandali economici che hanno coinvolto la Cina, le
operazioni Volkswagen-Faw e Nexen-Cnooc, confermano che le
dichiarazioni di Jeffrey Immelt, Ceo della General Electric,
non erano sfuggite in modo estemporaneo. Durante una cena
informale nel luglio 2010 a Castelgandolfo, di fronte ad un
gruppo di top manager italiani, Immelt aveva criticato il
clima degli affari in Cina, puntando l'indice verso la
dirigenza politica, incapace di proteggere l'etica degli
affari e garantire un equo andamento di mercato tra le
aziende cinesi e straniere, il level playing field, il campo
da gioco con le stesse opportunita' per tutti. Fuori da
esigenze protocollari, Immelt aveva dato fiato ad una
convinzione diffusa tra le multinazionali statunitensi:
Washington fa troppo poco per proteggerle, preoccupato piu'
dei rapporti politici con la Cina che dei loro interessi. La
semplice messa in discussione degli equilibri e' un ostacolo
troppo grande da superare per gli Usa: meglio subire le
violazioni delle leggi di mercato da parte di Pechino. Le
dichiarazioni di Immelt, malgrado i tentativi di
ridimensionamento con smentite di circostanza, hanno avuto
vasta eco, fino a ritornare con prepotenza alla fine di
luglio di quest'anno, quando 2 eventi si sono abbattuti
sulla Cina. Era appena finita l'ammirazione per l'acquisto
da parte della Cnooc cinese, il gigante di stato per le
esplorazioni energetiche, della canadese Nexen, quando la
Sec ha sporto denuncia contro l'azienda cinese per insider
trading. L'azione e' stata possibile perche' nel gruppo Nexen
sono comprese alcune aziende di Washington. Di conseguenza,
la competente corte Usa ha deciso di congelare 38 milioni di
dollari sui conti di Singapore e Hong Kong di una societa'
cinese, collegata alla Cnooc. Il sospetto deriva dai facili
guadagni registrati con l'acquisto di azioni della Nexen e
la loro vendita immediatamente dopo l'acquisizione della
Cnooc per 15 miliardi di dollari. Pochi giorni dopo la
conclusione del deal le azioni della societa' canadese sono
aumentate di ben il 52%. Gli echi della vicenda sono stati
amplificati dalla denuncia apparsa sul quotidiano tedesco
Handelsblatt per il furto di tecnologia apparentemente
perpetrato ai danni della Volkswagen in Cina da parte della
Faw, la societa' pubblica del settore automotive. L'obiettivo
sarebbe stato di carpire informazioni tecniche per la
produzione di riduttori e motori della casa tedesca. Per
ironia, le due aziende sono da anni in joint-venture per la
produzione di vetture in Cina, ma sarebbero divenute
concorrenti con i rispettivi marchi nei paesi terzi. La
Volkswagen, che ha formato in Cina la joint venture piu'
importante, ha cercato comunque di ridurre l'impatto della
notizia per evitare possibili ritorsioni cinesi. In questo
approfondirsi dell'incertezza, ritorna all'attenzione la
vicenda di Sino Forest, l'azienda cinese che si era quotata
alla Borsa di Toronto, prima di essere sospesa per sospetti
di frode fiscale e di reverse takeover (la pratica di
acquisire aziende gia' quotate per evitare le minuziose
procedure amministrative per entrare le listino) a seguito
dell'indagine dei segugi della societa' Muddy Waters. Gli
esiti sono stati esiziali per la Sino Forest che per la
legge canadese e' in fallimento ("bankruptcy protection")
dopo che il corso delle sue azioni era precipitato a seguito
dell'indagine di Muddy Waters. Il caso della Sino Forest non
e' stato isolato e ha reso piu' difficile per le aziende
cinese quotarsi all'estero. Questi eventi adombrano
irregolarita' che saranno ovviamente giudicate dalla
magistratura. Tuttavia il clima degli affari in Cina e con
la Cina e' accusato in maniera forse piu' incisiva dai
rapporti delle organizzazioni che rappresentano le aziende e
di governi. Essi non raccolgono singole lamentele ma
riportano sondaggi accurati e valutazioni istituzionali
ponderate. Le Camere di Commercio europea e statunitense in
Cina pubblicano valutazioni sempre piu' preoccupate delle
aziende loro iscritte. I rapporti annuali lamentano le
decisioni amministrative che le sfavoriscono, la continua
violazione della proprieta' intellettuale (e la vischiosita'
della giustizia che dovrebbe proteggerla), la permanenza di
ostacoli ingiustificati, la prevalenza di aziende cinesi
nelle gare internazionali. E' una rilevazione comune e,
soprattutto, crescente. Viene messo sotto accusa il
nazionalismo economico, anche se l'importanza che ha assunto
la Cina per le singole aziende non consente decisioni
drastiche di rottura. Questa e' la vera forza della Cina:
essere diventata insostituibile. Tuttavia e' anche il suo
limite: saper coltivare dei rapporti d'affari soltanto
attraverso ogni mezzo che possa rivelarsi utile. Lo conferma
una risoluzione del Parlamento Europeo, dai toni
insolitamente diretti, adottata a Strasburgo lo scorso 23
Maggio. Il documento esprime posizioni nette: chiede alla
Commissione Europea di applicare il principio di reciprocita'
per garantire la migliore concorrenza, rileva che la Cina
non ha ancora raggiunto gli standard di market economy,
lamenta la presenza di barriere e discriminazioni,
soprattutto nei settori delle telecomunicazioni, bancario e
delle assicurazioni, conferma la presenza in Cina di sussidi
all'export, esprime preoccupazione per la parzialita' del
sistema giudiziario. E' possibile dunque che invece di un
miglioramento del clima degli affari si vada verso un
irrigidimento delle posizioni cinesi e un acuirsi delle sue
mancanze. La benevolenza con cui e' stata accolta la Cina nel
consesso internazionale e' stata pari ai vantaggi che essa
apportava. Ora questo scambio sembra riconsiderato, proprio
a vantaggio di Pechino, come se il paese avesse sempre meno
bisogno della tecnologia e dell'esperienza dei paesi
industrializzati. La Cina scommette sulla sua
insostituibilita' e sulla sua capacita' di ritorsione. E'
oramai talmente inserita nella globalizzazione che non puo'
essere abbandonata, su di essa e' cosi' imperniata la
creazione del valore da non poter essere trascurata. Cio' non
vuole dire tuttavia che questa situazione sia irreversibile,
ne' che avvantaggi comunque la Cina. Mostrare i muscoli puo'
far vincere le battaglie commerciali ma non la guerra della
rispettabilita'. Non si afferma un modello sociale, un
percorso di sviluppo, se non si esce dai limiti della
contabilita' e dei profitti. Proprio perche' la Cina e' un caso
di successo, potrebbe convincere altri paesi - non solo in
via di sviluppo - della bonta' delle sue scelte. Dovrebbe
tentare di diffondere fiducia, invece di apprensione e
convenienza. Inoltre, non e' detto che la sua posizione
corrente sia la piu' redditizia. Il 22% degli intervistati
della Camera di Commercio Europea ha affermato di essere
disposta a trasferire i propri investimenti in un altro
paese; anche in Africa - qualche anno fa incline a tutti le
partnership con Pechino - si levano critiche verso il
dominio economico che proviene dalla Cina. Persino gli altri
paesi Brics, con i quali ha instaurato un'innaturale
alleanza, risentono del protagonismo a senso unico della
Cina. Il cuore del problema non risiede nella presenza di
contraddizioni, quanto nella scarsa volonta', o meglio
nell'incapacita', di risolverle. E' nell'ordine delle cose che
un'ascesa epocale rechi con se' effetti collaterali di grande
portata. Meno concepibile e' l'ostinazione a proseguire con
la stessa linea di pensiero sinocentrica che potrebbe
rivelarsi esiziale anche per la Cina stessa.
* Presidente di Osservatorio Asia