scontro Iran-Israele

Questo è uno scenario medio, dove le sole infrastrutture petrolifere dell'Iran verrebbero colpite.

International crude oil prices could surge by $20 per barrel if Iran’s oil supply drops in a possible escalation of the Middle East conflict, Goldman Sachs says.
If major OPEC+ producers with enough spare production capacity, such as Saudi Arabia and the United Arab Emirates (UAE), increase output and offset some of the potential losses from Iran, oil prices could rise more modestly, and the impact could be slightly less than $10 barrel, Goldman’s analyst added.
Most analysts say that the OPEC spare capacity, concentrated in Saudi Arabia and the UAE, would be enough to compensate for an Iranian loss of supply.

Questo è un aspetto geopolitico di una certa rilevanza, cioè il colpire le infrastrutture energetiche iraniane significherebbe di rimbalzo impattare sulla Cina.

Iran currently produces around 3.5 million bpd, of which an estimated 1 million bpd are exported, mostly in China, which hasn’t stopped buying Iranian oil after the U.S. re-imposed sanctions on Tehran’s oil industry.

 
Minaccie e contro-minaccie fanno parte del gioco.

I pasdaran iraniani minacciano di colpire le raffinerie e i giacimenti di gas israeliani se lo Stato ebraico attaccasse l'Iran.
Lo annunciano le stesse Guardie della rivoluzione citate dal Teheran Times.

 
However, in case the conflict escalates to Iranian proxies targeting oil infrastructure in Iran's Middle Eastern neighbors, or if Iran moves to block or restrict oil cargo traffic in the Strait of Hormuz, oil prices could spike to triple digits and record highs, analysts say.
But most watchers and experts see the mother of all oil shocks – a closure of the Strait of Hormuz – the world's most important chokepoint for oil trade handling about 20 million barrels per day (bpd) – as a low probability event.

 
Secondo queste stime del Jerusalem Post il recente attacco missilistico iraniano è costato circa 200 milioni di dollari e la difesa israeliana circa 450 milioni di dollari.

 
Come ho già scritto, il più rilevante cliente del petrolio iraniano è la Cina.

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Io capisco che la gente sia facilmente impressionabile. Ma vi invito a un minimo di prospettiva. Prendete la giornata di martedì. L’Iran lancia quasi 200 missili contro Israele, dichiarando ufficialmente aperta una guerra. Che si concluderà in realtà due ore dopo. Nel mentre, gli Usa non solo entrano ufficialmente come parte in causa nel conflitto, utilizzando i cacciatorpedinieri nel Golfo per abbattere parte dei razzi iraniani, ma fronteggiano in patria uno sciopero dei portuali che vede il 65% degli hub marittimi del Paese chiusi. Un danno potenziale per il commercio globale da 5 miliardi di dollari al giorno, stima del Financial Times.
E cosa accade sul mercato? Il Vix sale a 20 e il petrolio aumenta di 2 dollari al barile. Praticamente, il nulla.

Parliamoci chiaro: l’Iran ha solo applicato il concetto di buca keynesiana al warfare. Ha tramutato una porzione di deserto israeliano in una forma di groviera. Ha fatto dei buchi nel nulla. Ma, in compenso, creato prezzatura per un nuovo evento catalizzante. Garantendo a Tel Aviv il diritto di rappresaglia proprio a ridosso della data simbolo del 7 ottobre, il primo anniversario dall’attacco di Hamas contro il rave party. A ben guardare, poi, persino agli Usa è convenuto e non poco lasciarsi trascinare in questa escalation degna di Netflix a corto di ispirazione. L’alternativa mediatica e social, infatti, era quella di uno stillicidio di sgradevoli particolari sul caso Diddy e sulla solita cricca di pedofili Vip.
A un mese dal voto, un’emergenza ben più seria degli ayatollah. Quantomeno visto l’orientamento politico di molti partecipanti ai festini.

O in alternativa, gli americani potrebbe deliziare e condire la conversazione del coffee break riflettendo sui contenuti di questo grafico: nel 2023, la Fed ha registrato una perdita da 114 miliardi di dollari. La maggiore della sua intera storia.

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Il tutto in regime di tassi alti o semi-normalizzati, formalmente senza Qe in corso, ma anzi in pieno dimagrimento del bilancio (Qt) e con l’economia statunitense che ci veniva descritta a cavallo fra soft landing e no landing.
E invece il Bengodi di sussidi e stimoli a pioggia della pandemia ha un costo.
Come ce l’ha per la Bank of England.
Come lo avrà per la Bce.
E, soprattutto, ha un costo il mantenimento strutturale di un sistema finanziario basato su azzardo e indebitamento, collaterale farlocco e bolle speculative che lo garantiscono.
Attenzione in tal senso alla mano di poker che sta giocando la Cina. La quale ha dato vita a uno stillicidio di misure espansive subito prima che i suoi mercati chiudessero per la Golden Week. Dal 2 al 7 ottobre è aperta solo Hong Kong. La quale ha già segnato un +27% sul mese precedente.

Ora guardate questo grafico: Wall Street pensa che sia intelligente andare ribassisti su questa ondata di rialzi cinesi, ritenendo quello di Xi Jinping un bluff. O, comunque, solo un primo assaggio di un menù di easing che dovrà essere ben più sostanzioso.

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Pensate che non stiano cominciando a sudare freddo fra i grattacieli di Manhattan, in attesa che il 7 ottobre riaprano tutte le piazze azionarie del Dragone?
Pensate che già oggi siano tutti in grado di coprire l’eventuale margin call su quelle loro scommesse al ribasso, così baldanzose stando al sondaggio di Bank of America fra i gestori di fondi?
Ma perché tormentare il sonno di Mr. Smith con queste inezie?
Una bella anteprima di Terza guerra mondiale e passa la paura.
Ma passerà questo?


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Senza che nessuno se ne sia accorto, infatti, il mese di settembre ha registrato a livello di Banche centrali globali 21 tagli dei tassi di interessi. L’intervento cumulativo maggiore dal Covid, quando nel marzo 2020 si arrivò a 49 tagli nell’arco dei 31 giorni del mese. Una mossa che grida recessione in ogni dove. Eppure, tutto appariva tranquillo. Soft landing. Soprattutto, indici azionari ai massimi storici. La nuova cartina di tornasole del benessere collettivo, grazie a quella scorciatoia per l’inferno chiamata trading online, il nuovo Sol dell’avvenire del lumpenproletariat 3.0.

Forse Wall Street aveva bisogno di un aiutino per mantenere saldi quei massimi totalmente artificiali?
Forse occorreva sostenere un pochino ancora il Giappone, quantomeno per evitare che da qui al 5 novembre arrivi la seconda ondata di smobilizzi dei carry trades dopo quella del 5 agosto scorso?
La guerra è la panacea di ogni male, altro che igiene del mondo. Tanto sono sempre i poveracci a rimetterci. Occorre però prendere atto che stiamo vivendo uno scontro titanico fra due prospettive, due eventi bellici che tendono a elidersi. Da un lato, i missili. Dall’altro, i derivati. E siccome chi detiene i secondi, solitamente tiene per i testicoli chi spara i primi, capirete da soli il perché di questa strana escalation a pezzi che sta tramutando il mondo in un cartellone del Risiko. Tutto molto controllato. E, soprattutto, basato su un cronoprogramma dal tasso di precisione svizzero.
Occorre scegliere fra un 1929 reale e un 1939 in proiezione, quasi nessuno volesse ricordarsi come l’uno e l’altro fossero stati storicamente legati e consequenziali.
 
Attenzione in tal senso alla mano di poker che sta giocando la Cina. La quale ha dato vita a uno stillicidio di misure espansive subito prima che i suoi mercati chiudessero per la Golden Week. Dal 2 al 7 ottobre è aperta solo Hong Kong. La quale ha già segnato un +27% sul mese precedente.

Stamattina l'Hang Seng perde il 6%.

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Il petrolio non è salito di poco, il brent è passato da 71 a 80 dollari al barile in pochi giorni, mentre la Libia concludeva lo stop al petrolio di quasi due mesi.

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Libya’s state oil company announced the full restart of oil production, nearly two months after halting operations at two major fields due to a political crisis.

 

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