Sovranità monetaria e fiducia

tontolina

Forumer storico
Sovranità monetaria è carta straccia senza il bene più grande: la fiducia
In questi giorni abbiamo la prova che la sovranità monetaria non significa niente, se i cittadini non si fidano del loro governo.
Sovranità monetaria? Solo se il governo merita fiducia

Giuseppe Timpone
Oggi - 01 Dicembre 2016, ore 13:57


Nella lunga diatriba attorno alla convenienza di un eventuale ritorno dell’Italia alla lira, il tema della sovranità monetaria è diventato di moda, per quanto siano in pochi a mostrare di padroneggiarlo. Uno stato che batte moneta sarebbe in grado di risolvere meglio i suoi problemi, disponendo della leva del cambio per rinvigorire le esportazioni e, quindi, l’economia nazionale, così come della possibilità di stampare più banconote per ripagare i debiti e calmierarne i costi. Un toccasana, insomma, almeno per quanti si siano scoperti “sovranisti” con la crisi dello spread dal 2011 in poi.

In questi giorni, se ve ne fosse stato ancora bisogno, c’è l’ennesima prova che sovranità monetaria potrebbe essere un’espressione in sé vuota di significativo, se non è fondata sulla fiducia dei cittadini per la loro moneta nazionale. Parliamo dello Zimbabwe, uno stato dell’Africa sud-occidentale, così lontano da noi, da sembrare forse inopportuno persino parlarne, ma che, invece, ci impartisce da anni lezioni gratis su quello che mai un governo dovrebbe fare. (Leggi anche: Sovranità monetaria? Corsa agli sportelli e paura dell’iperinflazione)



Emessa una nuova moneta locale, cittadini spaventati
Da lunedì, il presidente Robert Mugabe, 92-enne, ha disposto di stampare cosiddetti “bond notes”, ovvero strumenti finanziari utili per i pagamenti, il cui cambio contro il dollaro USA è stato fissato 1:1. Dunque, un bond note da un dollaro locale varrebbe un dollaro USA, secondo lo stato.

La decisione è stata adottata per risolvere la crisi di liquidità nel paese, che dal 2009 non possiede più una propria moneta, dopo avere subito il flagello dell’iperinflazione, scatenata dalle stamperie della banca centrale, nel tentativo di finanziare le spese del governo, a fronte di un’economia al collasso. Da sette anni, quindi, lo Zimbabwe regola i pagamenti al suo interno con dollari USA per la maggior parte delle transazioni, ma anche rand, euro, sterlina, yen, etc. (Leggi anche: Sovranità monetaria? Proteste alla sola ipotesi)
 
Criptovalute e il destino del dollaro
Di Francesco Simoncelli , il 1 dicembre 2016 6 Comment


di James Rickards

In vari momenti della storia il denaro ha assunto varie forme: penne, conchiglie, dollari ed euro.
Oro e argento sono certamente denaro.
Anche Bitcoin ed altre criptovalute possono essere denaro.

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Le persone dicono che alcune forme di denaro, come Bitcoin o i dollari USA, non sono coperte da nulla.

Ma questo non è vero. Sono coperte da una cosa: la fiducia. Se voi ed io abbiamo fiducia che qualcosa è denaro e siamo d’accordo che si tratta di ciò, allora è denaro. Posso chiamare qualcosa denaro, ma se nessun altro al mondo lo vuole, allora non è denaro. Lo stesso vale per oro, dollari e criptovalute.

Gli stati hanno un vantaggio, perché fanno pagare le tasse con la moneta che decidono loro. In altre parole, gli stati creano essenzialmente un uso artificiale per le proprie forme di cartamoneta, minacciando le persone con la galera se non pagano le tasse nella moneta fiat decisa da loro. Il dollaro è una moneta a corso legale negli Stati Uniti.

Secondo John Maynard Keynes e molti altri economisti, è il potere dello stato a dare ad una valuta il suo valore intrinseco. Questa teoria della moneta afferma semplicemente che diamo un valore ai dollari solo perché li dobbiamo usare per pagare le tasse — altrimenti andiamo in galera.


Le cosiddette criptovalute, come Bitcoin, hanno due caratteristiche principali in comune. La prima è che non sono emesse o regolamentate da una qualsiasi banca centrale o autorità di regolamentazione statale. Sono create in accordo con alcuni algoritmi informatici e sono emesse e trasferite attraverso una rete di elaborazione distribuita utilizzando il codice opensource.

Qualsiasi computer che ospita un particolare libro mastro della criptovaluta potrebbe essere distrutto, ma l’esistenza stessa della criptovaluta continuerebbe ad esistere su altri server in tutto il mondo e potrebbe rapidamente essere replicata. È impossibile distruggere un criptovaluta attaccando ogni singolo nodo o gruppo di nodi.

La seconda caratteristica comune è la crittografia, che dà luogo alla parte “cripto” del nome. È possibile osservare le operazioni che si svolgono grazie alla cosiddetta blockchain, che è una sorta di libro mastro di tutte le unità della valuta e transazioni. Ma l’identità delle parti che effettuano le transazioni è nascosta dietro quello che si ritiene essere un codice infrangibile. Solo le parti che effettuano le transazioni hanno le chiavi necessarie per decodificare le informazioni nella blockchain in modo tale da usare e detenere la moneta.

Ciò non significa che le criptovalute sono a prova di rischio. Grandi quantità di unità di criptovalute sono andate perse da coloro che li hanno affidati a “banche” ed “exchange” non regolamentati.
Altri sono andati persi per frodi vecchio stile.
Alcune unità sono andate perse a causa della distruzione di hardware personali.
Ma nel complesso, il sistema funziona abbastanza bene ed è in rapida crescita sia per quanto riguarda le operazioni legittime che quelle illegittime.

Val la pena sottolineare che anche il dollaro americano è in un certo senso una criptovaluta digitale. I dollari sono emessi da una banca centrale, la Federal Reserve, mentre i Bitcoin sono emessi privatamente. Mentre possiamo detenere un paio di dollari di carta nei nostri portafogli di volta in volta, la stragrande maggioranza delle transazioni denominate in dollari, sia in forma di valuta che in titoli, sono condotte sotto forma digitale.

Paghiamo le bollette online, facciamo acquisti con carta di credito, e le transazioni svolte attraverso la banca sono tutte in digitale. Tali operazioni sono tutte criptate e utilizzano le stesse tecniche di codifica come Bitcoin.

La differenza è che la proprietà dei nostri dollari digitali è nota ad alcune controparti di fiducia come le nostre banche, i broker e le società di carte di credito, mentre la proprietà dei Bitcoin è nota solo all’utente ed è nascosta dietro il codice della blockchain.

Bitcoin e le altre criptovalute rappresentano una sfida all’attuale sistema. Un problema è che il valore di un Bitcoin non è costante in termini di dollari americani. Infatti tale valore è stato molto volatile, fluttuante tra $100 e $1,100 nel corso degli ultimi anni. Attualmente è di circa $575.

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È vero che i dollari fluttuano in valore rispetto alle altre valute, come l’euro, ma questi cambiamenti sono tipicamente misurati in frazioni di centesimi, non salti di $100 al giorno.

Ciò dà luogo a problemi fiscali. Ad esempio, se si acquista un Bitcoin a $200 e poi lo si scambia per $1,000 di beni o servizi, si ottiene un guadagno netto di $800 tra l’acquisto e la vendita. Dal punto di vista dell’IRS, questo guadagno non è diverso dall’acquisto di azioni a $200 e una loro successiva vendita a $1,000.

Bisogna segnalare gli $800 di plusvalenza.

Sembra improbabile che la maggior parte degli utenti Bitcoin abbia segnalato questi guadagni. Coloro che non l’hanno fatto potrebbero essere considerati evasori fiscali.
L’IRS ha ampi poteri per indagare sull’evasione e può richiedere alle controparti di rivelare informazioni personali, comprese le password, in modo che possa scoprire le parti negoziali. Tenuto conto del fatto che negli ultimi anni l’IRS s’è accanito selettivamente contro gli attivisti del Tea Party e altri oppositori politici, questo è un grande problema per gli utenti libertari di Bitcoin.

Una possibile soluzione al problema della volatilità di Bitcoin è quella di collegarlo all’oro ad un tasso fisso.
Ciò richiederebbe il consenso nella comunità Bitcoin e uno sponsor disposto a creare un mercato dell’oro fisico concordato col valore dei bitcoin. Questo tipo di copertura potrebbe anche dare una spallata al dollaro come valuta di riserva mondiale, specialmente se sostenuto da potenze come Russia e Cina che sono alla ricerca di alternative all’attuale sistema di egemonia del dollaro.

Un altro problema è che Bitcoin e le altre criptovalute non sono ancora sopravvissute ad un ciclo economico completo. Bitcoin, la prima criptovaluta, è stata inventata nel 2009. L’economia globale è in un’espansione debole sin da allora, ma non ha sperimentato un panico finanziario o una recessione tecnica.

Gli investitori hanno una certa esperienza di come azioni, obbligazioni, oro e altre classi di asset potrebbero comportarsi in una recessione, ma non abbiamo esperienza con Bitcoin. La liquidità sparirà e i prezzi scenderanno? O gli investitori lo considereranno un porto sicuro, cosa che condurrà ad aumenti dei prezzi? Non conosciamo la risposta.

Credo che Bitcoin e le altre criptovalute rappresentino un’opportunità.
È ancora troppo presto affinché gli investitori lo inseriscano nei loro portfoli, a causa di un eccesso di volatilità e delle varie questioni fiscali pendenti.
Ma può arrivare il momento in cui alcune aziende, basate sulla tecnologia di Bitcoin, potrebbero assicurare un interesse agli investitori in base al loro possibile ruolo nei pagamenti e in altre forme di trasferimento di ricchezza. Aziende come Western Union e PayPal dominano l’universo dei sistemi di pagamento oggi, ma presto potrebbero emergere società concorrenti nel mondo delle criptovalute.

Una delle cose che mi piace dell’oro è che non è digitale, non dipende da internet e non dipende dalla rete elettrica. Ha un valore indipendente da queste cose. Bitcoin no, invece.

Se la rete elettrica va in tilt, i vostri Bitcoin sono inutili. Non sono anti-Bitcoin, ma l’oro fisico non ha il difetto di Bitcoin e delle valute digitali come il dollaro statunitense.

Saluti,

[*] traduzione di Francesco Simoncelli: Francesco Simoncelli's Freedonia
 
Quantitative easing, Crisi Eurozona
Crisi euro per il referendum italiano? No, la colpa è di questo dato
La fine dell'euro è un rischio, ma non per l'insignificante referendum costituzionale italiano, quanto per gli squilibri sempre più evidenti dentro l'Eurozona. Ecco quale dato bisogna tenere d'occhio.
La fine dell'euro non la decreterà il referendum, ma questo dato

i mercati finanziari sono con il fiato sospeso in queste ore, in attesa di conoscere questa domenica sera come sia andato a finire il referendum costituzionale in Italia. Se vincesse il “no”, molti analisti e investitori interpreterebbero il risultato come una bocciatura del governo Renzi da parte degli elettori e, soprattutto, una nuova ventata di crisi per l’Eurozona, alle prese nei prossimi mesi con le urne in tutti gli stati-chiave, tra cui Francia e Germania. Il timore reale di parte della stampa finanziaria internazionale è che una bocciatura delle riforme istituzionali aprirebbe la strada verso il governo agli euro-scettici del Movimento 5 Stelle, di fatto mettendo in crisi forse definitivamente l’unione monetaria, partendo da forti tensioni finanziarie sul comparto bancario. (Leggi anche: Banche italiane e spread, mercati più rilassati a ridosso del referendum)

Abbiamo già visto come le previsioni catastrofiste siano state smentite con la Brexit prima e la vittoria di Donald Trump alle elezioni USA dopo. E’ probabile, quindi, che dopo qualche seduta più o meno tesa, i mercati torneranno a ragionare sui fondamentali e che le profezie più pessimistiche verranno ancora una volta contraddette dai fatti.

La crisi dell’euro ce la spiega il Target 2
Non che questo significhi che l’euro sia in buona salute. La moneta unica rischia davvero di finire a un quindicennio dalla sua entrata in vigore, ma non per il referendum italiano. Per capire quanto instabile sia l’Eurozona, bisognerebbe guardare all’evoluzione del Target 2.
Cos’è? E’ il sistema dei pagamenti della BCE, che registra i flussi di capitali tra i vari paesi dell’area.
Avendo questi tutti la stessa moneta, non sarebbe possibile verificare quanti capitali siano entrati o usciti da e verso un paese dell’Eurozona, attraverso le variazioni delle riserve valutarie. Ecco, quindi, che Francoforte ha dato vita a un sistema di monitoraggio, che capta i rapporti di credito-debito tra i vari membri dell’unione monetaria. (Leggi anche: Italia sotto attacco finanziario)


Fuga di capitali dall’Italia
L’Italia ha raggiunto in ottobre il suo record negativo con 355,5 miliardi di euro in uscita, mentre la Germania ha segnato un record positivo con 729 miliardi di capitali in entrata. In valore assoluto, nessun altro paese dell’Eurozona ha subito deflussi finanziari così ingenti, mentre in rapporto al pil è la Spagna il paese più colpito, seguita Portogallo e Grecia. Nord contro Sud, ancora una volta
Rispetto al febbraio del 2015, l’Italia ha subito un’accelerazione dei deflussi per 191 miliardi, la Germania ha registrato maggiori afflussi per circa 200 miliardi. Perché questo riferimento temporale? Perché dal marzo dello scorso anno sono iniziati gli acquisti di titoli di stato e, in misura inferiore, di altri assets, attraverso il “quantitative easin” della BCE per 60 miliardi al mese fino al marzo di quest’anno, salito a 80 miliardi successivamente. (Leggi anche: Effetto Draghi, capitali in fuga da Italia e Spagna)



Capitali si spostano da Sud a Nord

Che cosa sta succedendo, quindi? La BCE, specie attraverso le banche centrali nazionali, sta acquistando i bond dei membri dell’Eurozona. Di questi, quasi 200 miliardi sono titoli italiani, circa 300 miliardi, invece, sono tedeschi.
Cosa indicano questi dati? Che i 200 miliardi di titoli italiani acquistati dalla BCE hanno liberato liquidità, che ha preso la via della Germania.
In pratica, gli investitori vendono BTp e altri assets italiani, acquistando titoli tedeschi. Vista cosi, sembrerebbe quasi che non ci sia alcuna crisi sistemica in vista. Invece, è esattamente il contrario. Perché mai il mercato dovrebbe approfittare del QE per “sbarazzarsi” dei titoli del debito italiano, spagnolo, portoghese, buttandosi a capofitto su quelli tedeschi? Evidentemente, gli investitori stanno cogliendo l’occasione per liberarsi delle esposizioni verso il Sud Europa, rifugiandosi in assets percepiti come sicuri, spostandosi verso il Nord. (Leggi anche: Capitali in fuga senza Berlino)
 

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