Sull'Alpinismo

Fleursdumal

फूल की बुराई
Interviste
Tutte o quasi le interviste realizzate in 34 anni da Claudio Sabelli Fioretti

Reinhold Messner - Secolo XIX - 8-01-1990
Timmeljoch, passo del Rombo, val Passiria. Un nido per le aquile. Il tricolore ci ricorda che siamo in Italia anche se la cosa pare incredibile, sociologicamente, storicamente, geograficamente. Una bandiera austriaca ci rassicura: siamo al confine. E seguendo la linea ideale che unisce i cippi del confine ecco che arrivano camminando di buona lena tre signori con lo zaino in spalla. Uno è una famosa guida altoatesina, il secondo è un famoso alpinista, Hans Kammerlander, otto ascensioni degli ottomila himalaiani, il terzo è il più famoso alpinista del mondo, Reinhold Messner. Stanno facendo il giro del Tirolo del Sud o - se vogliamo - dell'Alto Adige. Un gioco da ragazzi se lo confrontiamo alla carriera di Messner. Ma lo fanno seguendo esattamente la linea ideale dei confini (col Trentino, con la Lombardia, con la Svizzera, con l'Austria, col Veneto), scalando 300 vette, arrampicandosi per un totale di 100 chilometri di dislivello e camminando per 1.200 chilometri. Il tutto nel tempo limite di 40 giorni. Ogni sera dormono in una baita. Ma prima di andare a dormire si sobbarcano l'ultima fatica, quella che chiamano il "confronto con la cultura, la storia, l'economia del Sud Tirolo", colloqui con ospiti su ogni genere di argomenti, dalla storia dei disertori dell'Ortles, a quella dei contrabbandieri della Val Venosta, dalla vendita di bambini del passo di Resia, ai parchi naturali, alla coltivazione del grano, del vino d'alta quota di Favogna, alla tradizione delle mulattiere. "La nostra è un'azione culturale e politica", spiega Messner, "vogliamo stimolare la riflessione sulla nostra terra. Camminando lungo i confini vogliamo ricordare che questi confini ci sono, sono un fatto storico, sono i confini del Sudtirolo, una regione che una volta era tutta un'altra cosa, aperta verso l'Engadina, il Tirolo del Nord, il Trentino. Oggi ci siamo isolati. Nel nostro giro stiamo trovando vecchie vie, tracce di antichi passaggi". I confini insomma nel senso di relazioni fra popoli, non in quello di divisione, di chiusura..."Adesso l'Europa cambia, da Europa delle nazioni, nella quale avevamo una posizione difficile, diventa Europa delle regioni, dei gruppi. Allora per noi la questione si semplifica: saremo "sudtirolesi europei appartenenti all'Italia", non come durante il fascismo che eravamo costretti ad essere semplicemente italiani. Io voglio far capire alla mia gente che dobbiamo avere il coraggio di aprire i nostri confini. Noi siamo il punto nodale fra il sud e il nord. Domani chi vorrà fare affari tra Milano e Francoforte non potrà che servirsi di avvocati sudtirolesi, gli unici che conoscono le due lingue e le due mentalità. Io mi sono sempre battuto per la bicultura. Dieci anni fa chi diceva queste cose veniva messo all'indice". Invece adesso? "Adesso è cambiato". Messner, lei era il traditore dei sudtirolesi, il nemico emarginato dalla comunità tedesca, la bestia nera della Volkspartei. Una volta per strada le sputarono addosso. Che cosa è cambiato? "La Volkspartei è cambiata. I nuovi dirigenti sono cambiati. Quando arrivò Luis Durnwalder avevamo paura che fosse più a destra di Magnago. Invece disse subito: "Dobbiamo convivere". Oggi i giovani della Volspartei la pensano come Alexander Langer, il politico più intelligente della nostra zona, che fu per tanti anni il nemico numero uno degli amici di Magnago. Oggi il programma del governo della provincia sembra scritto da Langer. Una volta Magnago per insultarci diceva che propagandavamo la cultura della mescolanza, una parolaccia. Adesso parlano di multicultura ed è una cosa bella. Sono venuti nella nostra direzione". Fine dei problemi quindi? "Per carità, il cammino è lento, la burocrazia resiste. Da bambino la mia testa, l'hanno sempre messa verso nord, verso l'Austria. Per questo quando sono diventato grande io mi sono messo a guardare verso sud, verso l'Italia. A scuola, all'istituto per geometri, mi hanno messo la testa verso ovest, l'America. E allora io sono partito per l'Est, l'Asia. Io sono abituato a guardare ai quattro punti cardinali. Il Sudtirolo continua ancora oggi, per l'economia, per la scienza, per l'etica del lavoro. a guardare a un quarto del mondo, tra nord e est. Non è un quarto minore ma è solo un quarto del mondo. La capacità di vivere, l'arte del vivere è dall'altra parte. Io dico che noi sudtirolesi possiamo alzarci finalmente ed ammettere che con l'Italia abbiamo imparato anche a vivere". Ma i sudtirolesi vogliono unirsi al nordtirolo... "La manifestazione pantirolese del Brennero è fallita. Noi non abbiamo nessuna ragione economica o culturale per allacciarci ai tirolesi del nord. Loro sì, perché a loro mancano molte capacità che noi abbiamo. Loro hanno una sola cultura e noi ne abbiamo due. Oggi in Sudtirolo si comincia a capire che essere sudtirolesi è un più, non un meno". Però adesso c'è chi vuole uno Stato del Tirolo del Sud. "Si, e io voglio il vecchio regno del Juval, quello del mio castello! Non si può mica tornare al medioevo".
Lei Messner sembra molto ottimista. Ha risolto tutti i suoi difficili rapporti con i sudtirolesi? "No, sono sempre pessimi, soprattutto con la stampa e con i burocrati. I giornalisti di lingua tedesca non sopportano che io dica quello che voglio e che penso. Giornalisti e burocrati frenano ancora, sia nella politica che nella cultura, e continuano a dividere la gente. E se qualcuno a loro non piace, riescono a cacciarlo via. Facilmente. Se in Sudtirolo ci sono ancora dei nazisti, questi sono quelli della stampa".
Una volta lei diceva: io non faccio le scalate per nessuna bandiera. Né per l'Italia, né per l'Austria, né per il Sudtirolo. "Io trovo sbagliato lasciare cose in cima alle montagne. Io non sopporto nemmeno tutte quelle croci che sono sulle vette delle montagne nell'Alto Adige. Le toglierei tutte, sono brutte". Che cosa prova in cima a una montagna? "Non lo considero un punto particolarmente importante. La cima è solo l'inizio della discesa. Da quel momento non ci si allontana più, ci si riavvicina. Il grande problema della salita è che più sali più ti allontani dalla "casa", dal calore, dagli amici. Dopo cinque giorni di verticale ti senti fuori dal mondo, lontano da tutti. Nessuno ti può aiutare. Tu non appartieni più al mondo. Ma anche in "orizzontale" è così, anzi è peggio. Al Polo Sud andavamo per mesi e non sapevamo più dove eravamo. Non c'era né dietro né davanti. Ci si sentiva persi".
Lei ha compiuto 3 mila imprese alpinistiche, ha per primo attraversato l'Antartide, è salito 17 volte oltre gli ottomila, ha compiuto 100 "prime", ha tenuto centinaia di conferenze, ha scritto 25 libri venduti in 3 milioni di copie. Come fa a non fermarsi mai? In che cosa consiste la sue eccezionalità? In che cosa è diverso da me? "Dal punto di vista fisico non c'è differenza tra me e lei". Messner, la prego..."Intendo dire che lei potrebbe essere come me se si fosse allenato come ho fatto io". Già va meglio...e allora che cos'è che ci fa diversi? "Io ho una grande capacità di identificazione. Io mi faccio importante. L'uomo è divino perché è capace di dare valore alle cose". Lei ha sempre rifiutato la dimensione eroica di quello che fa..."Eroe è chi salva uno che sta affogando o è caduto in un crepaccio. Non c'è eroismo invece in quello che faccio io. C'è solo egoismo, sempre. Lo faccio per me. La vita di un impiegato di banca può essere eroica quanto la mia".
Si sente mai stanco? "Qualche volta, quando sto fermo". Si sente mai triste? "No. Io vedo che l'uomo non ci sarà più fra migliaia di anni. L'uomo è un caso del mondo e non sopravviverà. Per questo potrei anche essere triste. Ma non lo sono perché in fondo mi piace vedere come l'uomo si sta suicidando". Si sente mai infelice? "Talvolta. Quelli dell'infelicità sono momenti chiave della vita, gli unici momenti in cui si impara qualcosa". Ha paura della vecchiaia? "Forse oggi la molla che mi spinge è proprio la paura di invecchiare. Se sto fermo senza fare qualcosa di difficile io mi rendo conto che invecchio. Durante la traversata dell'Antartide mi sono sentito giovanissimo".
Che differenza c'è tra arrampicarsi e camminare? "Nelle imprese "orizzontali" sei costretto a pensare. Ti viene chiaro tutto perché sei molto distante da te stesso. Ti vedi da fuori, come un punto nell'infinito, distante. Quando arrampico, io non esisto più, sono la roccia, sono la nebbia, mi perdo. Quando cammino penso a tutto. In Antartide mi è venuto chiaro il fatto della morte. Ho capito che noi non moriremo. Noi cadremo nello spazio infinito e nel silenzio infinito. E' strano che noi abbiamo paura dello spazio e del silenzio infinito, perché è lo stato d'animo più bello che si possa provare". Lei l'ha provato? "Relativamente, in Antartide". Noi comuni mortali, in Antardide, di fronte allo spazio e al silenzio infinito, di fronte al nulla davanti e al nulla dietro, soli con noi stessi, costretti a pensare, probabilmente impazziremmo..."L'importante è avere temi di meditazioneutti i giorni, non sfuggire. Un giorno, camminando, ho ideato, creato, disegnato un museo. Portroppo queste lunghe riflessioni spesso si perdono..." Non poteva scriverle su un diario? "La sera nella tendina è come stare a casa, è tutta un'altra cosa. Ho cercato di registrare i pensieri camminando, ma i registratori non riescono a funzionare a quelle temperature".
La libertà sua costa ad altri, alle persone che le vogliono bene. "E' vero. Fare questa vita avendo una famiglia diventa moralmente difficile. Ma non per me. Se uno guarda da fuori può dire: ma come fa con la moglie, con i figli? Ma quando io sono a casa sto 24 ore con loro. Se sono via, sono via. Io sono fatto così. Se io adesso decidessi di rimanere sempre a casa, non sarei lo stesso. I miei figli avrebbero un altro padre. Sarei una persona senza equilibrio". Nessuna donna le ha mai detto: ho me o gli ottomila? "No, sapevano che sarebbe stato troppo rischioso per loro. Se una donna vuole un uomo che stia sempre a casa non si avvicina a me". Lei è proprio un "fanatico" della libertà... "C'è un verso di Holderlin che dice "la libertà di andare dovunque voglio". Sembra scritto per me". Ma la sua libertà ha dei costi che pagano le persone che le vogliono bene..."E' vero. Ma io lascio degli obblighi borghesi perché sono travolto degli obblighi personali. Non è che io mi sento libero quando vado in Antardide. Sono costretto a farlo. Un impiegato di banca può darsi malato e stare a casa. Io sono troppo preso che non posso più uscire dalla mia invenzione, dalla mia capacità o incapacità di portare a termibe il progetto". Lei accetterebbe che la sua compagna si comportasse come lei? Che le dicesse: caro, sento un obbligo che mi porta sette mesi al Polo Sud, ci vediamo..."Si, lo accetterei". Lei una volta ha tentato di portarsi dietro sua figlia..."Si, Magdalena l'ho portata sul Lhotse, aveva quasi un anno. Però non stava bene..." Non stento a crederlo..."No, sbaglia, non era un problema medico. La bambina si annoiava, non poteva giocare, non dormiva per colpa del rumore del vento, usciva dal sacco a pelo e tentava di uscire dalla tenda. Non è andata oltre i cinquemila e l'ho portata indietro".
Lei è tra le persone che sono state di più in Tibet. E' quindi il più titolato a parlare di yeti. Esiste? E' realtà o leggenda? "Realtà e leggenda. Nel 1600 molte popolazioni dell'est del Tibet migrarono nelle zone dove abitavano questi animali. Ce ne erano di due tipi: c'erano gli yeti neri, che erano degli orsi, e degli yeti rossi, che erano delle scimmie. Questi popoli, durante le migrazioni, ne videro qualcuno. E nacque la leggenda che mescolò yeti nero e yeti rosso e arrivò fino a noi, nel Novecento, anche se molto cambiata". Ma oggi esiste ancora lo yeti? "Si, almeno quello nero, l'orso". Bisogna fidarsi della sua parola oppure ci sono delle prove? "Per quanto riguarda il 1600 ho trovato una "tanka", un dipinto tibetano classificato di quell'epoca in cui ci sono tutte e due gli yeti". E per quanto riguarda oggi? Qualcuno l'ha visto? "Molti l'hanno visto. Ma c'è la leggenda fra i tibetani che chiunque veda uno yeti, muore". Lei l'ha visto? "Si, io l'ho visto, l'ho avvicinato a una decina di metri. E' un orso artico, molto grande. Sono tornato successivamente nello stesso posto, l'ho ritrovato e l'ho fotografato". Non aveva paura? "La prima volta no". E la seconda? "Si, perché nel frattempo avevo saputo molte cose su di lui". E cioè? "La storia è troppo complicata. Era un'avventura molto lunga e molto complessa. Successe quando decisi di ripetere la migrazione delle vecchie popolazioni tibetane". Perché non ha mai raccontato queste cose, non ha pubblicato la foto, non ha scritto nulla? "Perché tutto ciò fa parte di uno studio, e lo studio non è ancora terminato. Ci vorrà tutta una vita, forse, anzi non escludo che non potrò mai venirne a capo". Non sarà perché ha paura che la gente lo prenda in giro? "No, di questo proprio non mi preoccupo".
Lei era molto impegnato sul fronte ecologico. Sosteneva che la gente sporca le montagne..."Oggi la gente è molto più pulita di una volta. Ma esiste sempre il problema dei turisti che d'estate invadono le momtagne a migliaia. Arrivano fin dove possono con la macchina e poi formano lunghe colonne sui sentieri". D'altra parte non si possono certo chiudere le montagne ai visitatori..."Le montagne no, ma le strade si. Le strade delle vallate, delle malghe, vanno chiuse".
Werner Herzog, da una sua idea, ha realizzato un film, "Grido della pietra". Sembra che non le sia piaciuto..."No, il film non è un capolavoro ma è accettabile, Però non è riuscito a far venire fuori una montagna che respinge la gente. Io gli avevo spiegato che la montagna è fatta per non essere vissuta dall'uomo". Ma ormai l'uomo può salire qualunque montagna del mondo..."Questa è la contraddizione. Ed era quello che ho raccomandato ad Herzog: di far vedere la montagna in modo che si capisca che l'uomo non dovrebbe andarci. E che nonostante ciò l'uomo ha la capacità di conquistarla". E' un film che vede l'alpinista come un eroe e un competitivo..."Io volevo un film antieroico. Herzog non è riuscito a fare un film contro l'eroismo. Era talmente preso a giocare l'eroe lui nel film che ha dimenticato di fare un film antieroico". E la competizione? "Nel film ci sono tre persone che scalano il Cerro Torre. Uno, per amore di una donna. E' una motivazione molto forte l'amore: far vedere a una donna di essere un uomo forte. Un'altro, per dimostrare di esserci già stato. Nessuno ci crede e allora lui lo rifa. Scopriremo che non era vero. Se uno sale una montagna per la seconda volta perché nessuno crede che l'ha fatto una prima volta, vuol dire che non l'aveva fatto la prima volta". E perché? "Perché le montagne si scalano per se stessi. Non bisogna dimostrare niente a nessuno, non c'è bisogno di nessuna certificazione". E la terza motivazione? "E' appunto la competizione. Che non vuol dire essere il più forte, il più veloce. Il terzo personaggio del film è il "vecchio", chiamato Roccia. Lascia la montagna e diventa una specie di eremita. Fa il contadino, cura le pecore, guarda le montagne, ci gira attorno. E' uno che si è salvato dal "mal di montagna", dalla necessità di salire. Ma quando arriva il giovane che vuole ripetere il Cierro Torre, il Roccia non riesce a rimanere a casa. Ecco noi siamo così. Io ho delle idee per un mio prossimo progetto. Riguarda il polo Nord. Se vengo a sapere che un altro gruppo parte un mese prima di me, io non riesco a stare fermo". Lei dice che le montagne si scalano per se stessi, ma poi è il più competitivo di tutti. "E' vero, sono anch'io competitivo, Ma non è un problema di metri o di minuti. La nord dell'Eiger: non ha nessuna importanza se si si mette 10 o 25 ore. Lì conta andar su e vivere questo pezzo di vita fuori della vita borghese. La montagna non è misurabile. E' una legge naturale: si può stare tranquillamente sotto una montagna senza aver voglia di scalarla. Ma se arriva un altro che sale, allora non si può stare fermi. Bisogna andare".
Il film di Herzog è stato girato realmente sotto il Cerro Torre. Non oso pensare ai rifiuti di un set, alla faccia dell'ecologia della montagna..."No, mi hanno assicurato che hanno lasciato tutto pulitissimo. Io non sono andato sul set. Ma mi hanno detto che hanno portato via dal Cerro Torre più roba di quella che avevano portato là".
I suoi viaggi sone sempre più costosi. "Si, quello al Polo Sud è costato un miliardo. Il progetto che ho in mente per il Polo Nord costa ancora di più". Di che si tratta? "Non si può ancora dire. E non sono ancora sicuro. O mi ritiro o faccio questo mio Polo Nord". Ma i soldi dove li trova? "Ci sono gli sponsor. Lei lavora per un giornale e prende dei soldi dall'editore. Io cammino e mi arrampico e prendo soldi dagli sponsor". Nessun problema quindi? "Il difficile è dopo. Se cinque sponsor mi chiedono dieci conferenze ciascuno mi rovino la vita. C'è troppo lavoro dopo, troppe conferenze. Se va avanti così gli sponsor mi mangiano.
 
ciao fleu
versione montagnina

magari va a finire che ci conosceremo in montagna, tu Ciube ed io


a presto


l'occupatissimo cesare
 
che ne dici di questa cè?

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à però

sei tu sulla parete?
non sono un rocciatore, anche se mi sarebbe piaciuto
io cammino


a tempo perso
avevo un soft per commodore64 che generava aiku
ne hai uno per Windows ? o sei poeta di tuo? (in tal caso.... compli!)

l'ammirato cesare
 
magari fossi rocciatore , per ora ho fatto solo qualche ferrata facile e la soddisfazione che ho provato nel raggiungere qualche cima è difficilmente esprimibile, ho dovuto abbracciare la croce :eek: :smile: altrimenti per la vertigine e l'emozione cadevo giù :D . Solitamente faccio trekking :)

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Fleursdumal ha scritto:
magari fossi rocciatore , per ora ho fatto solo qualche ferrata facile e la soddisfazione che ho provato nel raggiungere qualche cima è difficilmente esprimibile, ho dovuto abbracciare la croce :eek: :smile: altrimenti per la vertigine e l'emozione cadevo giù :D . Solitamente faccio trekking :)

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ue voi due prima si fanno i millile mila mila euro e poi si passa il tempo da slofoob e arrampicate !!!
 
trooooppa fatica

meglio trovare come tirar su 5000 euro al mese e dedicarsi all'allevamento intensivo di cuccioli di Cro-magnon
 
Quattro italiani tentano una nuova via sulla storica vetta
Missione Cerro Torre, Patagonia



Parte in questi giorni il nuovo attacco italiano alla vetta del Cerro Torre, in Patagonia, da molti ritenuta la più difficile parete del mondo. In Italia divenne famosa in seguito alla prima spedizione di Cesare Maestri, nel 1959, durante la quale perse la vita il compagno di scalata Toni Egger.
Corriere.it presenta la missione con il primo contributo inviato dal capospedizione Ermanno Salvaterra


Di nuovo la Patagonia, di nuovo il Cerro Torre, di nuovo la parete est, con un via ancora del tutto vergine. Ormai sono trascorsi quasi tre anni dal primo tentativo alla mitica "East Face" del Torre.
I compagni di allora hanno dato forfait e così in pochissimo tempo mi son dovuto dar da fare per trovare altri nuovi amici per questa storia. Ho trovato in Matteo, Alessandro e Giacomo una gran voglia di andare, un grande entusiasmo, cose molto importanti per una terra così inospitale ed una parete impossibile. Avevo già salito circa 800 metri e ne mancavano ancora 400 ed ora dovremo rifare tutto dall'inizio.



Abbiamo comunque un vantaggio: conosco bene la parete fino a quel punto ed almeno ritroveremo le soste già fatte e credo non sia poco. Oltre quel punto sarà tutto nuovo e da scoprire, Ci aspetterà un tratto non molto difficile se le condizioni del tempo saranno favorevoli ma poi un camino gigantesco, tetro, enigmatico. Ci darà sicuramente un bel problema. Un camino che nonostante tanti anni passati in zona non mi ha mai permesso, nemmeno con il binocolo, di scrutarne il fondo.



Infine ci saranno gli ultimi 150 metri di cui anche non si conosce niente; l'unica cosa, i grossi funghi di ghiaccio strapiombanti sopra le nostre teste. Il nostro programma è semplice anche se tutto dipenderà dal tempo. Arivati a El Chalten trasporteremo tutto il materiale al Campo Base e da lì inizieremo i carichi alla base della parete che cercheremo di attaccare quanto prima. L'idea è di salire i primi 250 metri, fino al primo nevaio, e da quel punto rimanere definitivamente in parete con le nostre porta-ledge (tendine da parete). Porteremo con noi viveri e materiale per 15 giorni. Quando riusciremo con il telefono satellitare manderemo nostre notizie per tenervi aggiornati sulla nostra impresa in Patagonia.

Ermanno Salvaterra

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Uno storico articolo di Buzzati sul corriere sulla tragedia del Cerro Torre avvenuta nel 1959



Una grande e tragica vittoria alpinistica
Maestri ed Egger sul Cerro Torre. Poi la tragedia
Le formidabili difficoltà del picco patagonico superate dalla cordata italo-austriaca. Ignote le circostanze della sciagura
E' giunto ieri al nostro giornale il seguente cablogramma da Buenos Aires: «Vinto Torre addolorato comunico perdita Toni - Maestri».
In realtà il messaggio di Maestri non proveniva direttamente dalla capitale argentina ma, giunto qui via radio dalla Patagonia, da Buenos Aires era stato ritrasmesso per cavo in Italia. Infatti un successivo dispaccio del nostro corrispondente Martin Lugano ha annunciato: Secondo notizie pervenute al Circolo trentino di Buenos Aires, la spedizione al Cerro Torre è stata coronata da successo. La difficilissima vetta, considerata inviolabile, sarebbe stata raggiunta, nella notte dal 31 gennaio al 1° febbraio, da Cesare Maestri e Toni Egger.
L'ardimentosa impresa sarebbe stata funestata da una sciagura. Nella discesa, in circostanze tuttora ignorate, Egger sarebbe scomparso in un crepaccio e, nonostante le attive ricerche, il suo corpo non sarebbe stato rinvenuto. Maestri e gli altri compagni di spedizione si trovano ora al campo base in attesa di poter rientrare a Buenos Aires. I due vaghi ma fin troppo eloquenti messaggi, che racchiudono una notizia fausta e una tristissima, sono l'epilogo di una delle vicende alpinistiche più appassionanti degli ultimi anni. Il Cerro Torre infatti, nonostante la statura relativamente modesta (3128 metri) rispetto ai giganti delle Ande centrali e settentrionali, per non parlare dei colossi imalaiani, rappresentava una delle mete più ambiziose per i massimi campioni dell'alpinismo.
Esso sorge in Patagonia, a non molta distanza dall'altrettanto superbo Fitz Roy,il picco roccioso già definito la «più bella montagna del mondo» per la formidabile e audacissima architettura, che venne scalato nel febbraio 1952 dalla cordata francese Magnone-Terray. Rispetto al Fitz Roy, il Cerro Torre appare senza dubbio meno scenografico e possente, anche perché meno isolato, ma la sua personalità, per dir così, si era rivelata ben più straordinaria e temibile.
Si tratta di una immensa guglia che dalla sommità di una selvaggia bastionata, balza al cielo per circa seicento metri con profilo pauroso. Ma a parte l'eccezionale ripidezza delle sue pareti, una singolare caratteristica lo aveva fatto in passato ritenere inaccessibile. A motivo dei venti gelidi e violentissimi che flagellano continuamente quella giogaia, il picco è quasi interamente rivestito di una corazza di ghiaccio; ghiaccio che assume le più strane forme, di lastroni, di colonne, di gobbe strapiombanti di pencolanti baldacchini da cui colano gigantesche frange di ghiaccioli. Immaginate una dolomite ricoperta da un vitreo smalto glaciale. E' evidente che le difficoltà, rispetto a una analoga struttura di pura roccia, risultano moltiplicate. Altro è una scalata coi mezzi artificiali sul granito o sulla dolomia, dove un chiodo, quando è piantato bene, può dare una completa sicurezza, altro è affidarsi a chiodi infissi in una lastra di ghiaccio formatasi sopra la roccia, col continuo pericolo che il ghiaccio «non tenga» o che si sbricioli come i parabrezza delle automobili colpiti da un sasso, o che addirittura, sotto il peso, il lastrone di ghiaccio si stacchi interamente dalla rupe. Da notare, al proposito, che sulle alte cime delle Ande il ghiaccio riserva spesso delle brutte sorprese.
Gigantesche masse che a prima vista si direbbero solidissime, si frantumano improvvisamente al minimo urto e interi bianchi castelli si dissolvono in precipitose rovine. Ma tutto questo, come è logico, acuiva, anziché deprimere, il desiderio degli alpinisti.

I PRIMI TENTATIVI

Già il padre De Agostini, dopo le sue ricognizioni esplorative della zona, aveva additato, sia pure in sottordine al Fitz Roy, dal fascino più immediato e potente, la singolarità e l'ardimento dell'ermo picco, assai meno visibile dalla pianura. L'attenzione del mondo alpinistico per il Cerro Torre era andata poi aumentando, via via che le varie spedizioni, avventuratesi in quelle remote contrade, ne poterono osservare ed ammirare più da vicino la impressionante struttura. Sono note le vicende dei primi due tentativi di conquistare la cima, avvenuti quasi contemporaneamente, nell'inverno scorso, e tutti e due italiani. Parve quasi una corsa a chi arrivasse primo e l'emulazione era così accesa che ne sorsero delle polemiche, perchè anche sulle montagne più inesplorate si ritiene possa crearsi talora una specie di diritto di precedenza.
Un gruppo, di scalatori trentini, era capitanato dal sestogradista Bruno De Tassis e ne faceva parte Cesare Maestri, uno dei due protagonisti dell'ultima impresa. L'altro era imperniato su di una cordata eccezionale, quella formata da Walter Bonatti e Carlo Mauri, giustamente reputati fra i più forti scalatori del mondo. Né gli uni né gli altri riuscirono. Giunti alla base della sgomentante guglia, si resero conto che non poteva essere sconfitta al primo assalto ma che sarebbe occorso un lungo, arduo e pericolosissimo lavoro per «attrezzare» con chiodi e corde fisse la via di salita. Che insomma bisognava innalzarsi a successivi balzi i quali richiedevano molti giorni e soprattutto esigevano una quantità di «materiale» di cui le due spedizioni non disponevano. Tra parentesi, anche l'asso francese Jean Couzy aveva in animo quest'anno di tentare il Cerro Torre; ma la sua morte su una parete del Pic de Lur troncò tragicamente il progetto. Vennero salite altre cime vergini della catena ma si trattò di ascensioni secondarie. Sia Maestri, sia Bonatti, tornarono in Italia con la ferma intenzione di ripetere quanto prima il tentativo.
Anche quest'anno dunque si è riaccesa fra gli italiani la «rivalità» per il Cerro Torre. Ed è qui perfettamente inutile riferire la nuova polemica fra Maestri e Bonatti; risentimenti, malintesi, scatti di nervi avvengono anche sulle altissime montagne, benché comunemente si presuma che lassù debba regnare, fra gli alpinisti, una reciproca fraterna benevolenza. Pur comprendendo che alla vetta non sarebbero arrivati, dalla forcella della cresta fra Cerro Torre e Cima Adele, Bonatti e Mauri, a titolo di prova, attaccarono l'ertissima parete incombente e, superando vari strapiombi, si innalzarono per 120 metri. Dopodiché si calarono in basso, rassegnati a rinunciare. Il bilancio delle due comitive non fu del tutto negativo. Fatto sta che Maestri, per cui il lontano fantasma del Cerro Torre era diventato una sorta di ossessione - chissà che in questa travolgente passione per la rupe patagonica giocasse, nell'inconscio, la vaga somiglianza col «suo» Campanil Basso di Brenta - riuscì a racimolare una somma, non enorme per la verità, che tuttavia poteva servire di base minima per la spedizione

IL BOSCAIOLO SCALATORE

La guida Maestri è famosa per le scalate solitarie. Grazie alla sua potenza atletica, al suo coraggio senza limiti e a ingegnose manovre di sua invenzione con staffe multiple, egli ha ripetuto parecchi «sesti gradi superiori», per cui il binomio della cordata era generalmente ritenuto indispensabile. Maestri però non è un presuntuoso e non pensava certo di poter affrontare il picco terminale del Cerro Torre da solo. Doveva insomma trovare un compagno degno di lui. A Buenos Aires poteva contare su diversi amici, nessuno però di questi gli avrebbe potuto dare un aiuto valido e sicuro su quella terrificante parete. In un primo tempo pensò di farsi affiancare dall'amico Baldessari, col quale l'estate scorsa aveva vinto i repellenti strapiombi dei Grande Daino, in Trentino. Ma Baldessari, ufficiale dell'esercito, non poteva allontanarsi a lungo dall'Italia.
Maestri stava quasi scoraggiandosi quando si offrì, come compagno d'impresa, la guida Toni Egger, di 32 anni nato a Bolzano ma residente ad Innsbruck uno dei più formidabili scalatori, specialista (cosa importantissima) in salite di ghiaccio. Si può dire che Toni Egger, per la sua fenomenale abilità tecnica, l'intuito della montagna e la quasi sovrumana resistenza agli sforzi e ai disagi, avesse preso il posto lasciato tragicamente vuoto dalla morte di Hermann Buhl, perito due anni fa sul Chogolisa (Karakorum). Come Buhl, Egger aveva ripetuto praticamente tutte le più classiche vie di sesto grado sulle Alpi in tempi eccezionali, talora impiegando meno della metà di quanto ci mettessero i normali sestogradisti. (In undici ore, per esempio, aveva fatto consecutivamente la nord della Cima Ovest di Lavaredo e la nord della Cima Grande).
Toni Egger, fra le moltissime ascensioni di estrema difficoltà, aveva poi al suo attivo una vittoria che rappresentava il più rassicurante titolo per una candidatura al Cerro Torre. Egger infatti, nel 1957, aveva conquistato per primo l'Jirishanca, stupendo pinnacolo delle Ande del Perù, superando difficoltà analoghe a quelle che si poteva presumere d'incontrare sul Cerro Torre. Anche sull'Jirishanca cioè, l'ostacolo maggiore consisteva in una serie di strapiombi di ghiaccio sporgenti a baldacchino; e Toni Egger era riuscito a passare perforandoli con la piccozza e il martello, come uno che uscisse da una stanza aprendosi una breccia nel soffitto (cinque bivacchi consecutivi oltre 1 6000 metri).

IPOTESI DELLA SCIAGURA

Naturalmente Maestri accettò con entusiasmo. E i due si riunirono a Buenos Aires poco prima di Natale. (Il povero Egger, per partire, aveva dovuto farsi prestare una somma dagli amici).
La preparazione, la raccolta dei fondi, la scelta del materiale, il piano d'attacco costituirono per la guida trentina un vero «tour-de-force» massacrante. Basti dire che nel giro di pochi giorni egli percorse con l'auto, in Buenos Aires, ben 2600 chilometri passando da un Ministero all'altro, da un ufficio all'altro, da un negozio all'altro. Seguì - a motivo delle agitazioni politiche venne a mancare l'aereo promesso - un massacrante viaggio in camion fino alla lontana «estancia» Las Margaritas, in Patagonia, che doveva servire di base arretrata. Erano con loro alcuni amici abitanti a Buenos Aires, alpinisti anch'essi, benché di classe inferiore: gli studenti milanesi Gianni e Augusto Dalbani, Gian Pietro Spikerman e Romano Angelo Vincitorio.
Da allora, fino a ieri, non si erano avute più notizie. Ed ecco il lieto e funesto cablogramma: la diabolica guglia è stata sconfitta ma Toni Egger non tornerà più alla sua Lienz, non potrà più riabbracciare la mamma.
Che cosa è successo? In mancanza di precise indicazioni non si possono fare che ipotesi. La espressione «scomparso in un crepaccio» del cablogramma non è abbastanza indicativa. Nel linguaggio dei profani questa è la formula generica di ogni disgrazia alpinistica. Tanto più che per arrivare alla base del picco i precedenti esploratori non avevano incontrato ghiacciai specialmente pericolosi.
Sembra possibile, piuttosto, che la sciagura sia avvenuta durante una manovra di calata a corda doppia, quando, normalmente, gli alpinisti non sono legati fra di loro; un chiodo, confitto nel ghiaccio malfermo, potrebbe aver ceduto al peso. O durante il laborioso recupero di una di quelle corde doppie: un falso, brusco movimento in uno dei punti di sosta potrebbe essere riuscito fatale. Da notare al proposito che Toni Egger raccontava come, sull'Jirishanca, il rischio peggiore fosse stato appunto nella discesa: le calate a corda doppia erano non di 30, 40 metri come di solito ma addirittura di cento e oltre, questo perché dall'alto non si poteva valutare dove fermarsi e quindi occorreva avere un largo margine di sicurezza. Il recupero di una corda così lunga era addirittura estenuante, oltre che problematico.
O invece Toni Egger è stai ucciso da una scarica di sassi? Oppure è caduto nell'ultima parte della discesa, «sul facile», quando la stanchezza e lo stesso rilassamento dei nervi dopo il prolungato pericolo tendono a intorpidire l'attenzione? La storia dell'alpinismo è piena di casi del genere, e ne sono rimasti vittime anche grandissimi campioni. Una volta precipitato nell'abisso, non meraviglia poi che l'infelice Egger sia «scomparso» in qualche meandro della parete e magari sia stato inghiottito da un crepaccio del ghiacciaio sottostante.
Innumerevoli sono le ipotesi possibili. Per sapere, non resta che attendere. Ma, comunque le cose siano andate, il bilancio non muta. Una grande vittoria, che avrà un'eco internazionale, e un dolorosissimo lutto per la grande famiglia degli alpinisti e per quanti sanno capire la bellezza di tali imprese. Il Cerro Torre si è vendicato crudelmente.

Dino Buzzati
 
Il racconto di Cesare Maestri

Cesare Maestri racconta la tragedia sul Cerro Torre
Un urlo, ma Egger fu strappato via
Durante la discesa la temperatura in aumento trasformò le pareti incrostate di ghiaccio in una trappola micidiale
Pubblichiamo, benché giunto con molto ritardo, dato il suo eccezionale interesse, il resoconto della drammatica scalata del Cerro Torre, in Patagonia, che Cesare Maestri ci ha inviato dal campo base: come è noto, in questa difficilissima impresa ha trovato la morte il compagno di cordata di Maestri, Toni Egger, austriaco, ritenuto uno dei più grandi alpinisti del mondo. La seguente relazione, di fonte autentica, rettifica varie circostanze della sciagura, quali erano state pubblicate da vari giornali.


Dal campo base, febbraio

Alle ore quindici del trentuno gennaio un improvviso e caldo vento dall'ovest fa scattare ad una ad una le trappole che salendo abbiamo lasciato aperte lungo la paurosa e ripida parete nord-ovest dei Cerro Torre.
L'altimetro segna 250 metri oltre la quota conosciuta della cima del Torre. Non c'è tempo da perdere. Assicurati con le piccozze piantate fonde nella neve per non essere strappati dal vento facciamo sventolare cinque piccole bandiere: l'italiana, l'austriaca, l'argentina, quella della città di Trento e la fiamma della Società Alpinisti Tridentini. Poi, velocemente, le solite cose: fotografie, trangugiare in fretta l'ultima scatola di frutta sciroppata, scrivere su di un foglio i nostri nomi e depositarli su questa cinta di ghiaccio e scendere scendere con più velocità possibile.
Non c'è posto in noi per la felicità; un infinito senso di morte ci sovrasta. Sono circa cento ore che viviamo su questa lontana montagna patagonica, cento ore di fatiche che rappresentano per noi, in qualsiasi caso, l'ultimo atto di questa nostra avventura cominciata il 21 dicembre quando in compagnia di Toni Egger, Cesarino Fava, Angelo Vincitorio studente in medicina, Juan Pedro Spikermann studente in geologia, Augusto Dalbagni studente in chimica e Gianni Dalbagni studente in ingegneria, abbiamo lasciato Buenos Aires a bordo di un camion che ci portò in una settimana all'estancia «La Primera», posto di partenza per l'avvicinantento al Cerro Torre.
E' lunga la strada da Buenos Aires alla base del Torre, e noi abbiamo attraversato questa immensa e piatta Patagonia, un po' in camion, un po' a cavallo e un po' a piedi. Ma quello che conta è che tutti hanno lavorato bene. Abbiamo fatto un lavoro da formiche portando i mille chili di carico dalla estancia «Fitz Roy» fin qui, ai piedi del Torre.

Cesare Maestri, l'uomo del Cerro Torre clicca su una foto

Settimana di maltempo

In 10 giorni di continuo e massacrante lavoro riusciamo ad installare 3 campi. Il primo alla Laguna Torre a 750 metri di altitudine, il secondo ai piedi del «Mocho» a quota 950 ed il terzo a 1.650 metri, un buco di ghiaccio esattamente a 200 metri dalla formidabile parete che ci sovrasta.
Il giorno 9 cominciamo il duro lavoro di salire e scendere per la parete est attrezzando, con corde fisse, i metri che faticosamente conquistiamo.
Ma il maltempo ci blocca due settimane continue. Vento e neve, sempre, di giorno e di notte, finché lentamente si riaffaccia il bello. Arriva così il 28 gennaio quando in silenzio Fava, Egger ed io ci leghiamo alla base della parete est.
Fava è carico come un mulo. Risaliamo velocemente, usufruendo delle corde fisse, tutto il primo diedro e poi il secondo, arrivando dopo undici ore alla piccola forcella a nord del Torre. Da qui possiamo vedere tutta la parete nord nord-ovest.
Due sarebbero le soluzioni: attraversarla tutta per entrare in un gran camino che sembra porti alla base del grande strapiombo di ghiaccio orientato a sud-ovest per poi riattraversare in alto verso nord-ovest. Ma in alto ci sono grandi funghi di neve e molte cornici da superare.
La seconda sta sopra alle nostre teste. Sulle ripide placche a destra dello spigolo nord che scende qui alla forcella si è accumulata molta neve portata dal vento e gelata dal freddo, formando una ripidissima parete di ghiaccio.
Toni ne prova la resistenza. Il ghiaccio sembra tenere, però il suo spessore non supera mai i cinquanta centimetri.
Il tempo tende al bello e fa freddo. Ci guardiamo tutti e tre. Questa volta, o mai. Ma sappiamo che se la temperatura risale, questa parete diventerà una trappola.
Nessuno di noi parla, in silenzio accettiamo tutto quello che dovrà avvenire. Fava scende, solo. Sparisce veloce lungo la corda doppia. Restiamo soli Toni ed io. Abbiamo con noi duecento metri di «perlon», 50 chiodi da ghiaccio, 50 chiodi normali e 50 ad espansione.
L'ascesa nel vento

Prepariamo il bivacco mentre il tempo migliora ogni momento. Una sera fredda e calma ci lascia riposare, ma la notte è subito passata. Bisogna partire. Il freddo è intenso; decidiamo che Toni, più veloce e leggero di me, salga per primo. Io cercherò di ricuperare tempo salendo da secondo il più veloce possibile. La neve «porta» bene e Toni è un artista sul ghiaccio, fa quello che vuole; dal canto mio cerco di risparmiare tempo.
Tutto il giorno dura questo rincorrersi per questa ripida e pericolosa parete divenuta di ghiaccio, finché la pendenza diminuisce ed arriviamo su ghiaccio vero dove i chiodi possono entrare profondamente e non per pochi centimetri. Ora non sentiamo più il rumore sordo dei nostri passi che rimbombava paurosamente.
Alla sera del 29 abbiamo fatto 350 metri ma sopra di noi rimane molto da fare. Il tempo si mantiene bello. Scaviamo
la nostra tana, mangiamo e beviamo tè caldo.
La mattina del 30 riprendiamo a salire obliquando verso destra. Andiamo a comando alternato e buchiamo due grandi coni di ghiaccio che richiedono molto tempo.
Canali formati dal vento ci aiutano a salire e ricuperare un po' di tempo perduto; arriviamo alla sera del 30 sul pianoro, a circa 150 metri dalla cima. Ancora una tana per la notte, ancora la preoccupazione di quello che sarà la discesa.
Ed arriva la mattina del 31. Il primo salto di circa 70 metri è ripidissimo, quasi verticale, ma saliamo senza fermarci. Per un canalino facile ma pericoloso ci alziamo un bel po' fino ad un altro piccolo pianoro.
Fa molto caldo e dall'ovest comincia a soffiare un fortissimo vento caldo; acceleriamo l'andatura. Toni al termine della sua filata di corda mi urla: «la cima». Salgo di corsa con un sapore di fatica nella gola. A circa 50 metri sta la cima. Saliamo assieme mentre il vento continua a soffiare con violenza.
Ci sembra impossibile. Io non sono felice, è una cima come le altre. Quanta fatica, quanto rischio, quanti fattori estranei all'alpinismo m'hanno dato la forza di salire! No, non sono felice.
Mangiamo qualche cosa, fotografiamo le bandierine che non possianto attaccare alle piccozze perchè ci servono ad ancorarci alla cima tanto è forte il vento. E poi scendere il più velocemente possibile, lasciando sulla cinta qualche impronta e il vento che gioca con una latta vuota.
Ci fermiamo al bivacco del 30. II vento continua, sembra che sopra di noi corra continuamente un treno. Dalla cima cominciano a discendere grosse slavine. La notte passa, male, sappiamo che cosa ci aspetta più sotto.
Scendiamo per tutto il giorno 1, il vento caldo rende tutta la neve come poltiglia che si stacca e precipita rumorosa. In dieci ore riusciamo a scendere solo 400 metri. La sera ci sorprende poco sopra la forcella. Scendere è qualche cosa di tragico: il calore, sciolta la neve che ci aveva permesso di salire, lascia pulita la roccia. Nessuna possibilità di piantare chiodi normali. Ogni corda doppia dobbiamo piantare due chiodi a espansione sotto il continuo bombardamento di grosse slavine. Ma anche la sera dell'uno ci vede vivi.
Il tempo ormai è «caduto», non c'è più nulla da fare. La notte passa fra il rumore del vento e delle valanghe. Il 2 febbraio continuiamo a scendere lungo le placche che sono coperte di un leggero strato di neve spazzato continuamente dal vento e dalle valanghe.

La tremenda valanga

Per scendere adottiamo il sistema che si usa nei salvataggi: uno si lega attorno alla corda doppia e l'altro lo cala di peso a carrucola su due moschettoni frenanti. Dobbiamo fare così altrimenti le corde verrebbero portate via dalla forza del vento. Arriviamo così verso le 19 del 2 febbraio a circa 150 metri dalle corde fisse.
Decidiamo di passare la notte sulla cima di un piccolo nevaio pensile. Pianto tre chiodi e cominciamo a fare il buco per passare la notte. Ma a Toni questo posto non sembra tanto sicuro, vuole vedere a destra più in basso se c'è una sistemazione migliore fuori dal tiro delle valanghe.
Mentre lo calo ed egli è arrivato a una quindicina di metri da me, un rumore assordante mi fa alzare il capo: una enorme massa di neve e ghiaccio si tacca dalla cima.
Urlo: «Attento, Toni» e mi appiattisco contro la parete.
Un colpo sordo e la corda si tende, Toni è investito e coperto dalla valanga. Un pezzo di ghiaccio mi colpisce duramente alla testa.
La tensione della corda diventa insopportabile, poi si rilascia. La valanga continua a cadere con sempre minore forza finché solo pochi pezzi di ghiaccio passano fischiando. Il piccolo nevaio è stato letteralmente spazzato.
Chiamo Toni. Nessuno risponde. Non rimane nessuna speranza. La valanga ha portato con sè tutto l'occorrente per bivaccare. Mi rannicchio nel mio buco di neve e aspetto che passi questa notte tremenda. Sapevo fin dall'inizio che sarebbe dovuta finire così e che domani sarebbe stata la volta mia.
All'alba del 3 febbraio esco dal mio buco come un condannato a morte. Comincio a scendere a corda doppia con lo spezzone che mi rimane, dalla cima continuano a cadere valanghe.
Dopo varie ore, arrivo finalmente alle corde fisse. La parete è un inferno. A pochi metri dal cono di deiezione mi scivolano i piedi e non riesco più a tenermi con le mani; volo così per circa una diecina di metri, la neve caduta durante la notte mi accoglie materna ed attutisce il colpo. Lo spirito di conservazione mi porta attraverso il tormentato ghiacciaio a circa 300 metri dal campo tre dove mi trova Cesarino per caso, molte ore dopo, in uno stato di semi-incoscienza, mentre balbettavo: «Toni è caduto».
Su questa montagna dopo circa duecento ore Toni ha perso la vita, ha pagato a caro prezzo il suo sogno, ma ora dorme tranquillo. Non lo disturberà mai più il freddo o l'urlo del vento. Dorme avvinto nei colori delle bandiere chehanno sventolato sulla cima. Il celeste del cielo, il bianco della neve, il verde dei boschi e il rosso del calore. Lui ora dorme, ha lasciato a noi il doloroso racconto e un vuoto incolmabile nell'alpinismo mondiale e nei nostri cuori.

Cesare Maestri
 

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