quando si scrive di fretta e con la testa altrove la cappella esce sempre
anyway ecco parte dell'articolo che cercavo di ricordare
Se si aumentasse l’aliquota sugli interessi dei titoli pubblici non si correrebbe il rischio di un aumento dei rendimenti lordi che lo Stato deve garantire ai sottoscrittori, con il risultato che il Governo pagherebbe con la mano sinistra quello che ha raccolto con la mano destra?
I titoli del debito pubblico sono per lo più detenuti da soggetti esteri (55 per cento) e per il 20 per cento da banche e imprese. Per questi soggetti l’aumento dell’aliquota del 12,5 per cento non avrebbe alcun effetto. I risparmiatori (persone fisiche residenti) per i quali l’aumento dell’aliquota del 12,5 per cento ha effetto detengono meno del 16 per cento dei titoli pubblici (il restante 9 per cento è nelle mani dei fondi comuni). Difficilmente la loro domanda sarà in grado di influenzare le condizioni di offerta, e ciò a maggior ragione a seguito del progressivo allineamento dei tassi di interesse lordi fra paesi, reso possibile dall’adesione del nostro paese all’Unione monetaria europea. Non si creerebbe una convenienza a modificare la composizione del portafoglio, perché la nuova aliquota sarebbe applicata ai redditi di tutti i tipi di attività finanziaria.
È possibile che un’eventuale riforma delle aliquote si applichi in modo retroattivo?
No. Eventuali nuove aliquote si applicherebbero solo ai nuovi redditi di capitale. Dunque, l’imposta non sarebbe retroattiva. Anche per quanto riguarda le plusvalenze, come si è fatto in passato, per evitare la tassazione retroattiva si calcolano le plusvalenze maturate fino al momento dell’introduzione della nuova aliquota in modo da assoggettare al nuovo regime solo quelle maturate dopo tale data.
Che differenza c’è fra tassare anche i redditi futuri di titoli già oggi in circolazione o limitare la tassazione solo ai redditi derivanti da titoli emessi dopo una eventuale riforma?
Se si limitasse la nuova aliquota ai soli titoli emessi dopo l’entrata in vigore della riforma si creerebbero differenze di trattamento tra titoli di vecchia e di nuova emissione, facendo un bel regalo in conto capitale (e cioè nella valutazione dei titoli) a chi ha titoli più vecchi, come è puntualmente avvenuto nel 1986, al momento dell’introduzione della tassazione sui titoli pubblici. Alla differenza attuale per durata del titolo, se ne sostituirebbe un’altra per data di emissione. Inoltre questo periodo di transizione si protrarrebbe per circa un trentennio, creando segmentazioni sui mercati secondari. Diventerebbe più complessa anche la tassazione dei fondi comuni, tassati sul risultato di gestione. Per motivi di equità e di efficiente funzionamento dei mercati è dunque decisamente preferibile estendere la riforma anche ai titoli già in circolazione.
Aumentare la tassazione sui titoli pubblici significherebbe colpire i piccoli risparmiatori?
I titoli pubblici sono una componente minoritaria del risparmio delle famiglie; rappresentano secondo l’ultimo bollettino economico della Banca d’Italia solo il 5,6 per cento delle attività finanziarie detenute dalle famiglie. Per affrontare il problema dell’equità della riforma proposta occorre considerare l’insieme di queste attività.
Quali sono allora gli effetti redistributivi della riforma?
Per rispondere a questa domanda occorre tener presente che la ricchezza finanziaria è nel nostro paese molto concentrata. Sulla base dei dati ricavabili dall’ultima inchiesta della Banca d’Italia sui redditi e la ricchezza delle famiglie italiane, corretti per tener conto delle note sottostime che emergono in questo tipo di rilevazioni campionarie, si evince che il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede, da solo, il 40 per cento dello stock di attività finanziarie (con l’esclusione di riserve assicurative e fondi pensione) dell’insieme delle famiglie, contro il solo 1,2 per cento posseduto dal 10 per cento delle famiglie più povere. Uniformare le aliquote a un livello intermedio (ad esempio, il 19-20 per cento) avrebbe quindi sicuramente effetti redistributivi positivi.
Si può fissare una esenzione per i piccoli risparmi?
Generalmente l’esenzione ai piccoli risparmiatori viene concessa nell’ambito di una tassazione personale, non di una tassazione sostitutiva, come la nostra, perché richiede di conoscere i redditi finanziari complessivamente ricevuti dal singolo risparmiatore. È comunque possibile studiare forme di esenzione, attraverso meccanismi di opzione per la tassazione ordinaria o di certificazione dell’imposta pagata da parte degli intermediari.
Quanto sarebbe il gettito che si potrebbe ottenere da una riforma di questo tipo?
Le stime del gettito atteso vanno prese con molta cautela, in quanto in larga parte dipendono dalle ipotesi che si fanno circa la rilevanza delle plusvalenze, che sono però una componente con un andamento molto erratico. Vi è poi difficoltà a stimare la tassazione dei fondi comuni, i quali stanno ancora sfruttando, in compensazione, ingenti crediti di imposta maturati in passato, a seguito delle minusvalenze conseguite sui mercati azionari.
Si parla comunque di una cifra compresa fra i 2,5 e i 4,2 miliardi. Di questi, meno di 400 milioni arriverebbero dalla tassazione dei titoli pubblici.
Ma se la nuova aliquota fosse applicata in modo uniforme a tutti i redditi di capitale e diversi, inclusi dividendi e plusvalenze azionarie, non si avrebbe un fenomeno di doppia imposizione, posto che dividendi e plusvalenze azionarie possono avere già subito un primo livello di tassazione in capo alla società?
Già oggi vi è doppia imposizione, ma questa aumenterebbe se ci si limitasse ad aumentare l’aliquota del 12,5 per cento anche sui dividendi e sulle plusvalenze azionarie. Una volta il problema non si poneva, perché c’erano delle compensazioni, che riducevano la tassazione complessiva (societaria e personale) sugli utili di impresa: la dual income tax in capo alla società e il credito di imposta ai dividendi, in capo al socio. Oggi questi correttivi non ci sono più. Se si vuole evitare di penalizzare le società che si finanziano con capitale proprio sul mercato dei capitali, occorrerà una riforma più organica che coinvolga anche la tassazione del reddito delle società. E’ questo un aspetto spesso trascurato nel dibattito, che meriterebbe maggiore attenzione .
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