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Forumer storico
Goldman Sachs prevede che la Fed lanci un nuovo Qe a partire da novembre. Per 15 miliardi al mese
E il miglioramento della situazione, a livello di tensione finanziaria, è stato testimoniato subito anche dai tassi repo che nei giorni scorso erano volati anche oltre l’8%, costringendo la Fed di New York a intervenire direttamente dopo 10 anni di assenza dal mercato: avendo aperto al 2,00%, sono quasi subito scesi a 1,90%. Più alto del 1,725% della chiusura del 19 settembre ma sideralmente normalizzato rispetto agli scossoni di inizio settimana. Resta un fatto, però: negli ultimi quattro giorni, la Fed ha dovuto forzatamente e in via emergenziale immettere sul mercato liquidità per 278,2 miliardi di dollari. Oltretutto, con richieste combinate superiori di quasi 15 miliardi all’offerta massima negli ultimi tre giorni di emissioni. Insomma, il bicchiere è in realtà anche mezzo vuoto e questo grafico
Fonte: St. Louis Fed
lo certifica, mettendo a nudo la gravità e profondità del problema. Ed ecco sorgere la domanda da un milione di dollari: avendo dovuto garantire a condizioni di favore liquidità per quell’ammontare e con queste modalità, sintomo che un problema esiste a livello finanziario, perché Jerome Powell ha detto no a un nuovo Qe, almeno in prima battuta, limitandosi a un taglio di 25 punti base del benchmark e di 30 dello Ioer che sovrintende appunto i tassi overnight? Insomma, la Fed – a dispetto del tono da falco che la Casa Bianca ha attribuito al comunicato del 18 settembre, parlando di ennesimo fallimento nel comprendere le necessità dell’economia Usa – ha supportato chiaramente Wall Street.
E lo ha fatto non in punta di piedi o dalla porta sul retro, bensì en plein air, avendo perso totalmente il controllo sul range di oscillazione dei tassi che regolano il meccanismo del mercato interbancario, di fatto il sistema circolatorio dell’intero carrozzone. Nel frattempo, la Borsa non ha fatto un plissè, come se nulla di importante fosse accaduto. Anzi, Wall Street ha dimostrato di aver digerito a tempo di record l’assenza di Qe nelle determinazioni della Federal Reserve, tanto che nella seduta di contrattazioni del giorno seguente ha flirtato con i massimi storici. Certo, il driver è stata la frase pronunciata da Jerome Powell nel corso della conferenza stampa, quando ha ammesso che la FED dovrà fare con ogni probabilità ritorno a un’espansione del suo stato patrimoniale prima del previsto.
Di fatto, porta spalancata al Qe in arrivo.
Non oggi, non domani. Ma presto.
E un’altra frase ha sostenuto gli indici, quella in base alla quale “se l’economia si indebolirà, potrebbero essere necessari tagli dei tassi più estensivi”.
Detto fatto, Michael Pillsbury, descritto da Trump in persona come “la massima autorità in campo di rapporti con la Cina”, ha sentito la necessità di rendere noto al South China Morning Post che “allo stato attuale, le tariffe in vigore verso Pechino sono molto basse e potrebbero salire fino al 50% o 100%”.
E in perfetto stile pavloviano, ennesimo crollo delle aspettative di mercato per un accordo commerciale in tempi brevi, come mostra il grafico:
Fonte: Zerohedge/Bloomberg
nulla di meglio per mettere di buon umore gli indici, visto che bad news is goog news se serve un pretesto per armare la mano della Fed. E tanto per gettare benzina sul fuoco, ecco che il flip-flop nello scontro con la Cina è entrato di colpo in un loop assoluto. Da un lato, la Casa Bianca ha forzato la mano su nuove esenzioni relative ad alcune tipologie merceologiche cinesi, quasi a voler lanciare un ramoscello d’ulivo ma al tempo stesso il vice-presidente, Mike Pence, avvisava Pechino che “l’era della resa economica è finita “. Cortocircuito assoluto, arrivando i due messaggi dal medesimo mittente. Quantomeno, a livello di indirizzo al civico di Pennsylvania Avenue. Ed ecco che, con timing perfetto, l’uomo che non più tardi del 18 settembre aveva votato contro in sede di Consiglio monetario, poiché riteneva necessario un taglio immediato di 50 punti base, lanciava la bomba a mano nello stagno. Per il capo della Fed di St. Louis, James Bullard, da più parti visto come l’uomo che Trump vorrebbe al posto di Powell, un intervento più drastico era necessario, poiché “l’economia sta rallentando e in alcuni settori della manifattura si scorgono già i segnali di recessione conclamata”. Vero? Falso? Questo grafico:
Fonte: Bloomberg
sembra smentire questa narrativa e dare ragione a chi, come Eric Rosengren della Fed di Boston, ritiene che un intervento di stimolo diretto sia non solo superfluo ma, anzi, potenzialmente dannoso, stante il ritmo ancora sostenuto da fine ciclo che l’economia Usa pare aver ripreso da qualche settimana. Una cosa è certa, insomma: se già per Jerome Powell il Qe è vicino, qualcuno ha reso chiaro da subito che sta lavorando per accorciare ancora le attese. Ma quanto presto? La risposta l’ha data, come spesso accade, Goldman Sachs.
E senza particolari giri di parole e teorie ipotetiche fumose: per la banca d’affari più politica d’America, da novembre la Fed partirà con operazioni di mercato continuative. In perfetta contemporanea con la riattivazione degli acquisti della Bce, sotto la guida di Christine Lagarde. Di fatto, il Qe4 è servito. E i particolari sono tutti contenuti in questo grafico:
Fonte: Goldman Sachs
dal quale si evince che gli acquisti attraverso il mercato secondario in seno a un programma permanente di aumento del bilancio (barre di colore grigio) saranno nell’ordine dei 15 miliardi di dollari al mese per due anni, necessari per aumentare lo stato patrimoniale, ricostituire il cuscinetto di riserve e alleviare strutturalmente le necessità legate alla liquidità di mercato emerse in questi giorni. A questo si uniranno reinvestimenti in massa di Treasuries a maturazione e di Mbs da tramutare in Treasuries attraverso il mercato secondario, mosse tali da raggiungere circa 375 miliardi di controvalore annuo fino al novembre 2021.
Insomma, circa 180 miliardi l’anno di acquisti per necessità di bilancio più 375 di acquisti netti: un bazooka, insomma.
Dopo 5 anni di attesa, l’America sarebbe pronta a tornare in modalità di espansione monetaria, nonostante le ultime letture macro sembrino ridimensionare l’allarme. Il quale, invece, è stato suonato a passo di carica dal sistema finanziario e dai mercati attraverso tassi fuori controllo che hanno reso noto ai controllori come la liquidità stesse finendo e che non sarebbero stati accettati ulteriori rinvii o pannicelli caldi.
Insomma, si torna a stampare per Wall Street e non per Main Street? Questo ultimo grafico:
Fonte: Longview Economics/Macrobond
sembra confermare questa tesi, in sé nota ai più ma sempre sottaciuta: il legame incestuoso fra liquidità a costo zero delle Banche centrali e rallies azionari è tale da non permettere alle prime di normalizzare le loro politiche senza che i secondi crollino, per reazione diretta. Soprattutto da una politica che vede alla Casa Bianca l’uomo che dovrebbe, per promessa elettorale, contrastare elites ed establishment ma che sta premendo più di ogni altro – ormai da mesi – per una rottura degli indugi rispetto a nuova monetizzazione del debito in modalità sistemica.
Anche perché, stante le necessità elettorali in vista delle presidenziali del novembre 2020, Donald Trump sa che nuovo deficit a fine di consenso politico presuppone la necessità matematica di una Fed in modalità di acquirente marginale di Treasuries da emettere con sempre maggiore lena. E, magari, con scadenze più lunghe, tanto che il Tesoro parla chiaramente di discussioni in atto riguardo la nascita del Treasury a 50 anni. Sarà Qe elettorale e tutto finanziario, alla faccia dell’America first di Mid-West e blue collars? Quanto accaduto negli ultimi quattro giorni alla Fed di New York, pare confermare la teoria.
- Mauro Bottarelli 20/9/2019 5:40:09 PM
E il miglioramento della situazione, a livello di tensione finanziaria, è stato testimoniato subito anche dai tassi repo che nei giorni scorso erano volati anche oltre l’8%, costringendo la Fed di New York a intervenire direttamente dopo 10 anni di assenza dal mercato: avendo aperto al 2,00%, sono quasi subito scesi a 1,90%. Più alto del 1,725% della chiusura del 19 settembre ma sideralmente normalizzato rispetto agli scossoni di inizio settimana. Resta un fatto, però: negli ultimi quattro giorni, la Fed ha dovuto forzatamente e in via emergenziale immettere sul mercato liquidità per 278,2 miliardi di dollari. Oltretutto, con richieste combinate superiori di quasi 15 miliardi all’offerta massima negli ultimi tre giorni di emissioni. Insomma, il bicchiere è in realtà anche mezzo vuoto e questo grafico
lo certifica, mettendo a nudo la gravità e profondità del problema. Ed ecco sorgere la domanda da un milione di dollari: avendo dovuto garantire a condizioni di favore liquidità per quell’ammontare e con queste modalità, sintomo che un problema esiste a livello finanziario, perché Jerome Powell ha detto no a un nuovo Qe, almeno in prima battuta, limitandosi a un taglio di 25 punti base del benchmark e di 30 dello Ioer che sovrintende appunto i tassi overnight? Insomma, la Fed – a dispetto del tono da falco che la Casa Bianca ha attribuito al comunicato del 18 settembre, parlando di ennesimo fallimento nel comprendere le necessità dell’economia Usa – ha supportato chiaramente Wall Street.
E lo ha fatto non in punta di piedi o dalla porta sul retro, bensì en plein air, avendo perso totalmente il controllo sul range di oscillazione dei tassi che regolano il meccanismo del mercato interbancario, di fatto il sistema circolatorio dell’intero carrozzone. Nel frattempo, la Borsa non ha fatto un plissè, come se nulla di importante fosse accaduto. Anzi, Wall Street ha dimostrato di aver digerito a tempo di record l’assenza di Qe nelle determinazioni della Federal Reserve, tanto che nella seduta di contrattazioni del giorno seguente ha flirtato con i massimi storici. Certo, il driver è stata la frase pronunciata da Jerome Powell nel corso della conferenza stampa, quando ha ammesso che la FED dovrà fare con ogni probabilità ritorno a un’espansione del suo stato patrimoniale prima del previsto.
Di fatto, porta spalancata al Qe in arrivo.
Non oggi, non domani. Ma presto.
E un’altra frase ha sostenuto gli indici, quella in base alla quale “se l’economia si indebolirà, potrebbero essere necessari tagli dei tassi più estensivi”.
Detto fatto, Michael Pillsbury, descritto da Trump in persona come “la massima autorità in campo di rapporti con la Cina”, ha sentito la necessità di rendere noto al South China Morning Post che “allo stato attuale, le tariffe in vigore verso Pechino sono molto basse e potrebbero salire fino al 50% o 100%”.
E in perfetto stile pavloviano, ennesimo crollo delle aspettative di mercato per un accordo commerciale in tempi brevi, come mostra il grafico:
nulla di meglio per mettere di buon umore gli indici, visto che bad news is goog news se serve un pretesto per armare la mano della Fed. E tanto per gettare benzina sul fuoco, ecco che il flip-flop nello scontro con la Cina è entrato di colpo in un loop assoluto. Da un lato, la Casa Bianca ha forzato la mano su nuove esenzioni relative ad alcune tipologie merceologiche cinesi, quasi a voler lanciare un ramoscello d’ulivo ma al tempo stesso il vice-presidente, Mike Pence, avvisava Pechino che “l’era della resa economica è finita “. Cortocircuito assoluto, arrivando i due messaggi dal medesimo mittente. Quantomeno, a livello di indirizzo al civico di Pennsylvania Avenue. Ed ecco che, con timing perfetto, l’uomo che non più tardi del 18 settembre aveva votato contro in sede di Consiglio monetario, poiché riteneva necessario un taglio immediato di 50 punti base, lanciava la bomba a mano nello stagno. Per il capo della Fed di St. Louis, James Bullard, da più parti visto come l’uomo che Trump vorrebbe al posto di Powell, un intervento più drastico era necessario, poiché “l’economia sta rallentando e in alcuni settori della manifattura si scorgono già i segnali di recessione conclamata”. Vero? Falso? Questo grafico:
sembra smentire questa narrativa e dare ragione a chi, come Eric Rosengren della Fed di Boston, ritiene che un intervento di stimolo diretto sia non solo superfluo ma, anzi, potenzialmente dannoso, stante il ritmo ancora sostenuto da fine ciclo che l’economia Usa pare aver ripreso da qualche settimana. Una cosa è certa, insomma: se già per Jerome Powell il Qe è vicino, qualcuno ha reso chiaro da subito che sta lavorando per accorciare ancora le attese. Ma quanto presto? La risposta l’ha data, come spesso accade, Goldman Sachs.
E senza particolari giri di parole e teorie ipotetiche fumose: per la banca d’affari più politica d’America, da novembre la Fed partirà con operazioni di mercato continuative. In perfetta contemporanea con la riattivazione degli acquisti della Bce, sotto la guida di Christine Lagarde. Di fatto, il Qe4 è servito. E i particolari sono tutti contenuti in questo grafico:
dal quale si evince che gli acquisti attraverso il mercato secondario in seno a un programma permanente di aumento del bilancio (barre di colore grigio) saranno nell’ordine dei 15 miliardi di dollari al mese per due anni, necessari per aumentare lo stato patrimoniale, ricostituire il cuscinetto di riserve e alleviare strutturalmente le necessità legate alla liquidità di mercato emerse in questi giorni. A questo si uniranno reinvestimenti in massa di Treasuries a maturazione e di Mbs da tramutare in Treasuries attraverso il mercato secondario, mosse tali da raggiungere circa 375 miliardi di controvalore annuo fino al novembre 2021.
Insomma, circa 180 miliardi l’anno di acquisti per necessità di bilancio più 375 di acquisti netti: un bazooka, insomma.
Dopo 5 anni di attesa, l’America sarebbe pronta a tornare in modalità di espansione monetaria, nonostante le ultime letture macro sembrino ridimensionare l’allarme. Il quale, invece, è stato suonato a passo di carica dal sistema finanziario e dai mercati attraverso tassi fuori controllo che hanno reso noto ai controllori come la liquidità stesse finendo e che non sarebbero stati accettati ulteriori rinvii o pannicelli caldi.
Insomma, si torna a stampare per Wall Street e non per Main Street? Questo ultimo grafico:
sembra confermare questa tesi, in sé nota ai più ma sempre sottaciuta: il legame incestuoso fra liquidità a costo zero delle Banche centrali e rallies azionari è tale da non permettere alle prime di normalizzare le loro politiche senza che i secondi crollino, per reazione diretta. Soprattutto da una politica che vede alla Casa Bianca l’uomo che dovrebbe, per promessa elettorale, contrastare elites ed establishment ma che sta premendo più di ogni altro – ormai da mesi – per una rottura degli indugi rispetto a nuova monetizzazione del debito in modalità sistemica.
Anche perché, stante le necessità elettorali in vista delle presidenziali del novembre 2020, Donald Trump sa che nuovo deficit a fine di consenso politico presuppone la necessità matematica di una Fed in modalità di acquirente marginale di Treasuries da emettere con sempre maggiore lena. E, magari, con scadenze più lunghe, tanto che il Tesoro parla chiaramente di discussioni in atto riguardo la nascita del Treasury a 50 anni. Sarà Qe elettorale e tutto finanziario, alla faccia dell’America first di Mid-West e blue collars? Quanto accaduto negli ultimi quattro giorni alla Fed di New York, pare confermare la teoria.