L’autocritica del Fmi e il caso Italia
Il giusto equilibrio tra aggiustamento e crescita è da tempo argomento all’ordine del giorno nella risposta alla crisi dell’euro, figurando in primo piano anche nel dibattito elettorale italiano. Gli argomenti sono però spesso manichei, se non largamente emotivi, come denotano le parole «rigore» e «austerità». Se la scelta fosse semplicemente tra austerità e crescita, chi mai sceglierebbe la prima? Evidentemente, le cose non sono così semplici e non si tratta di una facile scelta tra due opzioni binarie.
Ben venga quindi un lavoro di ricerca approfondito che cerchi di far luce sulla questione. A maggior ragione quando il lavoro è firmato da un economista rinomato e protagonista di rilievo nella gestione della crisi, qual è il capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard. È di questi giorni un suo paper, con co-autore Daniel Leigh del dipartimento ricerca del Fmi, dal titolo astruso («Errori Previsionali di Crescita e Moltiplicatori Fiscali») ma dal contenuto concreto. La ricerca fa seguito a – e conferma – uno studio già apparso nel World Economic Outlook dell’ottobre scorso, che indicava come i piani di aggiustamento fiscale nella zona euro avevano avuto un impatto negativo sulla crescita nettamente superiore a quanto originariamente stimato.
Va innanzitutto riconosciuto al Fmi il merito di essere disposto a mettere in discussione il proprio lavoro e riconoscere eventuali errori. Paul Krugman, solitamente non tenero col Fondo, lo ha fatto, aggiungendo: «La cosa più inquietante è quanti pochi altri protagonisti siano disposti a fare altrettanto», additando i leader europei.
Quali, in sostanza, le conclusioni del paper di Blanchard-Leigh? Si tratta, come intitolato con clamore dal Washington Post, di «uno sbalorditivo mea culpa del capo economista Fmi sull’austerità» o, più modestamente, di uno studio tecnico le cui implicazioni di politica economica sono limitate, come suggerito dal Financial Times? Vi è della verità in entrambe le letture. Il lavoro verte sulla stima dei moltiplicatori fiscali, cioè del rapporto fra una riduzione del deficit pubblico e la crescita dell’economia. I modelli usati dalla troika per i programmi di aggiustamento dei Paesi euro si basavano su un moltiplicatore intorno allo 0,5: cioè stimavano che un punto di taglio nel deficit avrebbe implicato una minore crescita di circa mezzo punto.