Quando a salvare le banche era la Germania 
                                                   
                                                                               Non solo i derivati Alexandria e Santorini. Non solo la "banda del 5%".  Non solo la dissennata difesa di una senesità obsoleta. Il Monte dei  Paschi ha avuto a sfavore anche il calendario: perché se la crisi di  Rocca Salimbeni si fosse presentata nel 2007-2008 e non nel 2012-2013,  nessuno avrebbe avuto nulla da dire. Probabilmente neppure Bruxelles.  Nei primi anni della crisi finanziaria, dopo il crack di Lehman, di  banche salvate e nazionalizzate in Europa ce ne sono infatti state a  decine                     
                       La Gran Bretagna ha nazionalizzato colossi come Royal Bank of Scotland e  Lloyds. La Germania ha messo sotto il controllo pubblico la Hypo Real  Estate bank. L’Austria ha fatto lo stesso con Kommunalkredit e Hypo  group Alpe Adria. E nessuno ha battuto ciglio. Neppure Bruxelles. Ora,  cinque anni più tardi, operazioni di questo tipo sarebbero impossibili:  ormai le regole sono diverse. Ormai a pagare il conto per primi devono  essere gli investitori privati. Risparmiatori inclusi.                     
                       La stagione dei salvataggi                     
                       I salvataggi bancari in Europa sono stati all’ordine del giorno negli  anni più duri della crisi. R&S Mediobanca ha calcolato a giugno 2012  che per aiutare le proprie banche, con aumenti di capitale sottoscritti  dalla mano pubblica oppure con garanzie, gli Stati del Vecchio  continente hanno speso (o vincolato a garanzia) ben 2.696 miliardi di  euro. Altre stime più recenti parlano di 4.500 miliardi a livello di  Unione europea. Da allora più della metà di questi soldi sono però  rientrati nelle casse degli Stati, dato che la crisi bancaria – proprio  grazie alla massiccia campagna di salvataggi di quegli anni - è in gran  parte rientrata.                     
                       Anche la Germania, che oggi tuona contro l’ipotesi di usare i soldi dei  contribuenti per salvare le banche, negli anni passati era di parere  opposto: il Governo ha infatti speso 47 miliardi per ricapitalizzare o  nazionalizzare le banche in crisi (11 volte più dei Monti-Bond per MPS ) e 365  miliardi per garantirle. Anche attraverso il braccio finanziario Kfw  (80% del Governo federale e 20% dei Land) ha salvato banche come Ikb,  dove alla fine ha speso (e poi recuperato) 21 miliardi di euro. Altro  che i 4 miliardi di Monti-bond: i soldi spesi sono stati molti di più in  Germania.                     
                  
                                                                 Lo scenario futuro                     
                                               Nell’eventualità che in futuro possa toccare all’Italia o a  qualche altro Paese la necessità di salvare una banca in crisi, tutto  sarebbe diverso. Intervenire con soldi pubblici come si faceva nel 2008  non è più possibile. Perché l’Europa, proprio per evitare che ogni Paese  facesse a modo suo, ha appena approvato una normativa che disciplina le  nuove modalità con cui dal 2015 andranno gestite le crisi bancarie. La  logica della riforma è: i primi a pagare il conto della crisi devono  essere gli investitori privati. Cioè – a scalare – gli azionisti, poi  gli obbligazionisti subordinati, poi quelli senior e infine i  correntisti con depositi superiori ai 100mila euro.                     
                                               Questi devono contribuire a coprire il buco fino a un importo pari  all’8% del totale passività della banca in crisi. Solo dopo, se il loro  contributo non fosse sufficiente per risanare l’istituto di credito,  entrerà in funzione un fondo europeo di risoluzione finanziato dalle  banche di tutta Europa. Questo fondo entrerà nel vivo tra 10 anni, ma  nel frattempo l’Europa ha trovato un accordo (un po’ fumoso in realtà)  per gestire il periodo intermedio.                     
                                               Il nuovo meccanismo di salvataggio entrerà in vigore nei prossimi  anni, ma già nei mesi passati – come hanno dimostrato le crisi di Cipro o  dell’olandese Sns Bank – gli investitori privati sono stati chiamati a  pagare il conto per primi. Dunque il principio del «prima pagano gli  investitori» è ormai assodato, prima ancora che nelle regole, nel modus  operandi. Se questo principio venisse applicato in Italia (l’ipotesi è  solo teorica), le obbligazioni sarebbero più che sufficienti per  arrivare alla soglia dell’8%: secondo i dati Bce  infatti, mediamente le banche italiane hanno sul mercato una  quantità di obbligazioni (subordinate e senior) pari al 22,3% del totale  passività delle banche stesse.                     
                         Difficilmente, dunque, in Italia verrebbero intaccati i depositi  in caso di una qualunque crisi bancaria. Il problema, però, è che buona  parte dei bond bancari sono in mano ai risparmiatori. Insomma: le  famiglie sarebbero penalizzate.