Il lento funerale di BP, l’occasione per ENI
Oscar Giannino
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Anticipo uno dei miei pezzi dal prossimo numero di Capo Horn
Penso che, se fossi l’azionista di controllo dell’ENI, avrei già fatto da tempo un ragionamento semplice semplice.
Argomento: come approfittare del disastro che ha investito BP.
Ma prima di arrivare alla considerazione e alla proposta, serve un bel passo indietro per valutare tutti gli aspetti “epocali” della vicenda.
I danni accollati a BP costituiranno un vero benchmark destinato a fare precedente. La compagnia mi pare che assai difficilmente possa sopravvivere. Non com’era fino a ieri, questo è sicuro.
Sono tre mesi che da 4mila metri di profondità, nel Golfo del Messico, fuoriescono ogni giorno nell’Oceano dapprima si era detto tra i 4 i 6 mila barili di petrolio al giorno, per poi ritoccare la stima fino a vette stellari, da un minimo di 35mila fino addirittura a un massimo di 60mila barili al dì. Il disastro della
Deepwater Horizon per British Petroleum appare ormai prossimo a sancire, a tutti gli effetti, la fine di un gigante storico tra le maggiori
oil companies. BP ha il 65% della concessione e dunque dell’impianto ma in pratica ne risponde integralmente, visto che
è nei suoi confronti che faranno azione per negligenza i soci di minoranza Mitsui e Anadarko, come tutte le compagnie fornitrici degli impianti collassati, tipo Halliburton, Transocean e Cameron.
Alla chiusura di Borsa di venerdì 9 luglio scorso, BP era ancora la terza compagnia petrolifera europea per capitalizzazione, a quota 81,8 miliardi di euro rispetto
agli 89 di Total,
e ai 128,8 miliardi a cui si giunge sommando le azioni di classe A e B di Royal Dutch Shell.
Ma, quando è cominciato il disastro nel Golfo BP sfiorava i 195 miliardi di capitalizzazione, apparteneva a pieno diritto alla serie A mondiale
come Exxon Mobil, che il 9 luglio capitalizzava 277 miliardi di dollari,
ed era ben sopra la Chevron, che ne vale 143,5.
In altre parole, in tre mesi in BP si sono liquefatti oltre 100 miliardi di valore. I suoi CDS sono passati da 55-60 punti base, a oltre 700: a tutti gli effetti, peggio del peggio nella lista internazionale dei candidati al fallimento.
Ma è una stima esagerata, oppure ragionevole, quella del mercato? Perché se fosse esagerata, decadrebbe del tutto ogni idea intono a che cosa potrebbe fare l’ENI. E invece no,
esaminata per benino la questione bisogna proprio concludere che il mercato non esagera. BP può andare in default eccome. Vediamo perché.
A tutti gli effetti,il disastro della Deepwater Horizon costituirà infatti il nuovo benchmark di tutte le politiche risarcitorie nella
oil industry mondiale. Un punto di riferimento integralmente nuovo, se si pensa che finora il disastro petro-ambientale più grave era quello della petroliera Exxon Valdez in Alaska, con 250mila barili in mare che fanno quasi sorridere, rispetto al milione e mezzo che ogni mese si riversano nel Golfo del Messico.
La stima di metà maggio, quando sembrava che BP potesse cavarsela con 7 o 8 miliardi di dollari in tutto, è ormai ridicola per quanto appare sottostimata.
L’Oil Pollution Act, la legge vigente negli USA che fu approvata proprio a fronte del disastro della Exxon Valdez, prescrive infatti a totale carico dell’inquinatore le spese per restituire l’ambiente alla sua condizione precedente.
Se ci si basa sul precedente della Exxon, che va matematicamente integrato e modificato come modello previsivo visto che in questo caso lo
spillover è continuativo e non concentrato nel tempo e con danni influenzati dalle correnti, al ritmo di un milione e mezzo di barili al mese il conto
per la sola “pulizia” è di circa 6 miliardi di dollari per ogni mese di dispersione. Al terzo mese compiuto, siamo già a quota 18 miliardi per questa sola voce.
C’è poi il capitolo delle sanzioni amministrative e regolatorie, disciplinate dal Clean Water Act. Nella prassi USA sin qui seguita, le multe vanno da
un minimo di 1.100 a un massimo sin qui di 4.300 dollari per ogni barile disperso, ma nulla vieta di credere che la somma potrebbe in questo caso ultimamente salire. In ogni caso, se si applica al milione e mezzo di barili persi ogni mese una stima prudenziale sanzionatoria di 3.500 $ per barrel, siamo a circa 5,2 miliardi di dollari al mese di multa. In tre mesi, siamo già insomma a quota 15,2 miliardi.
C’è poi una terza voce, quella che riguarda i rimborsi su causa intentata da chiunque possa rivendicare un danno o un lucro cessante, a seguito dell’inquinamento. E quando si dice chiunque vale proprio per chiunque, dagli Stati rivieraschi che possono chiedere il rimborso per gli interventi speciali che hanno dovuto sostenere e per gli aggravi di tasse e tariffe che hanno dovuto imporre, alle municipalità e comunità locali per danni al turismo, a ogni singolo albergo, ristorante, pescatore che legittimamente ritengano di essere stati danneggiati. L’
Oil Pollution Act pone un tetto esplicito a 75 milioni di dollari, per tali rimborsi. Ma il presidente Obama, nella seconda settimana di giugno, con un gesto degno del venezuelano bolivarista Chavez ha sbattuto i pugni sul tavolo, sostenendo che il
cap posto per legge era inadeguato, e BP avrebbe fatto bene a mettere subito sul tavolo almeno 20 miliardi di dollari. Tanto per cominciare, ha detto il presidente. Con un bel saluto allo Stato di diritto, anche se so che nel dirlo tutti gli ambientalisti mi azzanneranno.
Poiché l’economia legata a turismo marino e pesca dei quattro Stati rivieraschi - Alabama, Louisiana, Mississippi e Florida – si può cifrare intorno ai 30 miliardi di dollari, e il tratto di costa investito sino a inizio luglio era di circa 120 km, una previsione dei rimborsi ai quali BP può essere obbligata dai tribunali americani può agevolmente raggiungere i 18-20 miliardi.
Se si sommano le stime delle tre voci di costo per BP, siamo sui 75 miliardi. Per i soli primi tre mesi. A prescindere da quanto bisognerà aggiungere, se non ha successo nei prossimi giorni e settimane il nuovo “tappo”. 75 miliardi: non tutti in un anno, d’accordo. Ma le stime finanziarie e di cassa per BP nel 2010, con un barile intorno ai 65-70 $ per barile, parlavano di 30 miliardi di generazione di cassa, di cui 20 da destinare a investimenti e oneri finanziari, 10 a dividendo per i soci. E’ vero che BP ha circa 14 miliardi tra liquidità e linee di credito inutilizzate, ma c’erano già 17 miliardi di bonds e prestiti da rimborsare, tra 2010 e 2011.
La domanda a questo punto è duplice. Va bene non distribuire dividendi, come subito l’Amministrazione Obama ha irritualmente chiesto e ottenuto da BP per il 2010: ma per quanti anni? E inoltre: i tribunali USA seguiranno il principio che occorre sempre porre un limite ragionevole alla responsabilità illimitata di una società per danni catastrofici da eventi estremi, oppure faranno propria la demagogia populista del presidente ?
In ogni caso, nelle condizioni attuali per il board di Bp non c’è alternativa. A parte la speranza che qualche nuovo marchingegno consenta di mettere uno stop al deflusso, occorre far cassa subito per miliardi, per evitare un nuovo downgrading come quello che Fitch ha già comminato a metà giugno, e che ha fatto schizzare il costo del debito. Secondo le malelingue, in realtà Obama picchia duro non solo perché, come BP, deve recuperare sull’impressione popolare che abbia del tutto sottovalutato l’evento e la sua portata, per lunghe settimane. Ma anche perché, a questo punto, tanto vale portare BP alla canna del gas il più possibile sotto le elezioni del
midterm del prossimo autunno. Magari assicurando alle
oil companies americane buona parte di ciò che BP ha in pancia di più prezioso, e cioè moltissimo
upstream di grande qualità e in aree non devastate da pericolosa instabilità mondiale.
Ma se è così, perché non arrivare per primi dico io? Per questo dico che, se fossi stato l’azionista pubblico di controllo italiano dell’ENI, e cioè il governo, in queste settimane avrei fatto un bel pensierino. Perché non farsi subito vivi con il
board di BP, e fare una bella offerta per 10-15 bn di
uspstream pregiato, prima che le procedure giudiziarie mettano inequivocabilmente BP alla mercé sei suoi creditori?
Per conto mio, è un’operazione che da sola varrebbe la cessione di tutta la filiera nazionale del gas, approvvigionamento stoccaggio e distribuzione, che nessun concorrente di Eni mantiene altrettanto integrata. Non è un’idea balzana, perché ne ho parlato con banchieri e oilmen e tutti mi hanno dato ragione. Ma è il governo italiano, che da questo punto di vista non ci sente. Peccato, dico io. Non tutti i mali vengono per nuocere, aggiungo cinicamente. Ma vale solo per chi ne sa approfittare, ovvio.