Sharnin 2
Forumer storico
Al capezzale dell'economia
Il tema centrale del G20: come evitare la recessione
25 giu 2010
di ALFONSO TUOR
Il tema centrale delle discussioni del G20 che si apre stasera a Toronto è chiaro: come evitare una ricaduta in recessione dell’economia mondiale. Sino alla fine della settimana scorsa il copione delle discussioni sembrava già scritto: il principale imputato avrebbe dovuto essere la Cina. Il capo di imputazione era semplice: Pechino non contribuisce alla correzione degli squilibri dell’economia mondiale a causa della sua valuta da due anni legata al dollaro attraverso un tasso di cambio fisso.
La Banca centrale cinese ha stravolto il copione già preparato per questo G20, annunciando la settimana scorsa che il tasso di cambio del renminbi sarà d’ora in poi flessibile, anche se ha subito precisato che l’obiettivo resta quello di un tasso di cambio stabile. In altri termini la mossa, particolarmente azzeccata nella scelta dei tempi, è servita principalmente ad evitare a Pechino di finire in una posizione scomoda di fronte agli altri Paesi del G20 senza essere costretta a fare eccessive concessioni. Infatti non è assolutamente chiaro quale sarà l’ampiezza della rivalutazione della moneta cinese.
Essendo riuscita la Cina a sfilarsi dal ruolo di capro espiatorio, sono emerse in tutta chiarezza le profonde divergenze tra i Venti Grandi. Il pomo della discordia riguarda le politiche economiche necessarie per evitare la ricaduta dell’economia occidentale in recessione. Da una parte vi è l’amministrazione Obama sempre più giustamente preoccupata della solidità e soprattutto della sostenibilità della ripresa americana. Washington è consapevole che la politica fiscale non ha ulteriori spazi di manovra a causa del livello raggiunto dal deficit pubblico e anche che si stanno esaurendo le cartucce a disposizione della Federal Reserve. L’amministrazione americana chiede dunque ai Paesi con forti avanzi commerciali (Germania, Giappone e Cina) di adottare politiche espansive per sostenere la ripresa e sostituire la locomotiva americana, che è oramai spossata.
Dall’altra parte vi è l’Europa costretta, a causa della crisi di fiducia sulla sostenibilità dei debiti pubblici di molti Paesi di Eurolandia, ad adottare politiche fiscali restrittive. Ma soprattutto vi è la Germania, che si rifiuta di prendere il testimone della guida della crescita. Anzi, Berlino, sebbene non abbia il fiato dei mercati sul collo, ha sottolineato con forza, attraverso il varo di un piano di austerità di 80 miliardi di euro nell’arco di quattro anni, che non desidera che l’economia tedesca svolga la funzione di traino dell’economia europea né tanto meno di quella mondiale.
Queste divergenze non emergeranno sicuramente nel comunicato finale del vertice del G20 in terra canadese. Anzi è pressoché certo che con un linguaggio paludato si sottolineerà la forza della ripresa e si porrà l’accento sugli impegni congiunti per rendere la crescita solida e duratura.
La realtà rischia di essere ben diversa. L’unico e vero sostegno alla ripresa americana ed europea era costituito dalle politiche monetarie e fiscali espansive. Negli Stati Uniti l’esaurimento degli effetti di questi stimoli si accompagna, con una rapidità invero sorprendente, al moltiplicarsi di segnali di debolezza e al riemergere della crisi del mercato immobiliare, come ha anche messo in evidenza la Federal Reserve mercoledì scorso. In Europa la svolta nelle politiche fiscali è destinata a far ripiombare nella crisi la maggior parte dei Paesi del Vecchio Continente, anche perché il deprezzamento dell’euro sta aiutando soprattutto i Paesi europei forti.
Il quadro è ancor più a tinte fosche se si guarda agli effetti della crisi finanziaria, tuttora in corso, sulle dinamiche dell’economia reale. Infatti occorre ricordare che dal fallimento della Lehman Brothers, ossia dall’autunno del 2008, è in atto una stretta creditizia. Negli Stati Uniti questa stretta si esplicita nella chiusura, pressoché totale, del mercato delle cartolarizzazioni, ossia della possibilità del sistema bancario di impacchettare i crediti erogati in titoli da collocare sul mercato. Questo vale soprattutto dopo che la Federal Reserve, alla fine dello scorso mese di marzo, ha concluso il suo programma di acquisti, che ha portato la banca centrale americana a rilevare titoli (principalmente quelli in cui erano impacchettate le ipoteche) per ben 1.250 miliardi di dollari. L’uscita dal mercato del principale acquirente di questi titoli, che finora è stata poco avvertita, porterà le banche americane a restringere ulteriormente i criteri per la concessione dei crediti. In Europa la crisi greca e le difficoltà dei Paesi deboli di Eurolandia hanno contribuito a rimettere al centro dell’attenzione lo stato di precarietà del sistema bancario europeo a tal punto che per gli istituti bancari di alcuni Paesi si è chiusa la possibilità di rifinanziarsi sul mercato, con la conseguenza che la Banca Centrale Europea è divenuta l’unica fonte di finanziamento. Ciò costringerà le banche a restringere ulteriormente la loro politica creditizia. Quindi, sebbene i tassi di interesse definiti dalle banche centrali siano molto bassi e sebbene le politiche monetarie siano espansive, rischia di risultare ancor più ostruito il canale di trasmissione costituito dalle banche e dai crediti concessi ad imprese e famiglie, ossia all’economia reale. Agli effetti delle stangate fiscali dei Paesi europei bisogna pertanto aggiungere un accesso al credito più difficile e anche più costoso.
Alla luce di queste considerazioni appaiono fortemente giustificate le apprensioni americane sul rischio di una ricaduta dell’economia occidentale in recessione. Più discutibili sono invece le ricette proposte da Washington. Le preoccupazioni dell’amministrazione americana riguardano infatti essenzialmente il breve termine. A Washington non ci si interroga invece sulla sostenibilità nel tempo di queste politiche espansive e soprattutto non si vuole prendere atto che questa crisi non è congiunturale, ma è strutturale e che quindi richiede riforme profonde delle regole di funzionamento non solo del sistema bancario, ma dell’intera economia mondiale.
Il tema centrale del G20: come evitare la recessione
25 giu 2010
di ALFONSO TUOR
Il tema centrale delle discussioni del G20 che si apre stasera a Toronto è chiaro: come evitare una ricaduta in recessione dell’economia mondiale. Sino alla fine della settimana scorsa il copione delle discussioni sembrava già scritto: il principale imputato avrebbe dovuto essere la Cina. Il capo di imputazione era semplice: Pechino non contribuisce alla correzione degli squilibri dell’economia mondiale a causa della sua valuta da due anni legata al dollaro attraverso un tasso di cambio fisso.
La Banca centrale cinese ha stravolto il copione già preparato per questo G20, annunciando la settimana scorsa che il tasso di cambio del renminbi sarà d’ora in poi flessibile, anche se ha subito precisato che l’obiettivo resta quello di un tasso di cambio stabile. In altri termini la mossa, particolarmente azzeccata nella scelta dei tempi, è servita principalmente ad evitare a Pechino di finire in una posizione scomoda di fronte agli altri Paesi del G20 senza essere costretta a fare eccessive concessioni. Infatti non è assolutamente chiaro quale sarà l’ampiezza della rivalutazione della moneta cinese.
Essendo riuscita la Cina a sfilarsi dal ruolo di capro espiatorio, sono emerse in tutta chiarezza le profonde divergenze tra i Venti Grandi. Il pomo della discordia riguarda le politiche economiche necessarie per evitare la ricaduta dell’economia occidentale in recessione. Da una parte vi è l’amministrazione Obama sempre più giustamente preoccupata della solidità e soprattutto della sostenibilità della ripresa americana. Washington è consapevole che la politica fiscale non ha ulteriori spazi di manovra a causa del livello raggiunto dal deficit pubblico e anche che si stanno esaurendo le cartucce a disposizione della Federal Reserve. L’amministrazione americana chiede dunque ai Paesi con forti avanzi commerciali (Germania, Giappone e Cina) di adottare politiche espansive per sostenere la ripresa e sostituire la locomotiva americana, che è oramai spossata.
Dall’altra parte vi è l’Europa costretta, a causa della crisi di fiducia sulla sostenibilità dei debiti pubblici di molti Paesi di Eurolandia, ad adottare politiche fiscali restrittive. Ma soprattutto vi è la Germania, che si rifiuta di prendere il testimone della guida della crescita. Anzi, Berlino, sebbene non abbia il fiato dei mercati sul collo, ha sottolineato con forza, attraverso il varo di un piano di austerità di 80 miliardi di euro nell’arco di quattro anni, che non desidera che l’economia tedesca svolga la funzione di traino dell’economia europea né tanto meno di quella mondiale.
Queste divergenze non emergeranno sicuramente nel comunicato finale del vertice del G20 in terra canadese. Anzi è pressoché certo che con un linguaggio paludato si sottolineerà la forza della ripresa e si porrà l’accento sugli impegni congiunti per rendere la crescita solida e duratura.
La realtà rischia di essere ben diversa. L’unico e vero sostegno alla ripresa americana ed europea era costituito dalle politiche monetarie e fiscali espansive. Negli Stati Uniti l’esaurimento degli effetti di questi stimoli si accompagna, con una rapidità invero sorprendente, al moltiplicarsi di segnali di debolezza e al riemergere della crisi del mercato immobiliare, come ha anche messo in evidenza la Federal Reserve mercoledì scorso. In Europa la svolta nelle politiche fiscali è destinata a far ripiombare nella crisi la maggior parte dei Paesi del Vecchio Continente, anche perché il deprezzamento dell’euro sta aiutando soprattutto i Paesi europei forti.
Il quadro è ancor più a tinte fosche se si guarda agli effetti della crisi finanziaria, tuttora in corso, sulle dinamiche dell’economia reale. Infatti occorre ricordare che dal fallimento della Lehman Brothers, ossia dall’autunno del 2008, è in atto una stretta creditizia. Negli Stati Uniti questa stretta si esplicita nella chiusura, pressoché totale, del mercato delle cartolarizzazioni, ossia della possibilità del sistema bancario di impacchettare i crediti erogati in titoli da collocare sul mercato. Questo vale soprattutto dopo che la Federal Reserve, alla fine dello scorso mese di marzo, ha concluso il suo programma di acquisti, che ha portato la banca centrale americana a rilevare titoli (principalmente quelli in cui erano impacchettate le ipoteche) per ben 1.250 miliardi di dollari. L’uscita dal mercato del principale acquirente di questi titoli, che finora è stata poco avvertita, porterà le banche americane a restringere ulteriormente i criteri per la concessione dei crediti. In Europa la crisi greca e le difficoltà dei Paesi deboli di Eurolandia hanno contribuito a rimettere al centro dell’attenzione lo stato di precarietà del sistema bancario europeo a tal punto che per gli istituti bancari di alcuni Paesi si è chiusa la possibilità di rifinanziarsi sul mercato, con la conseguenza che la Banca Centrale Europea è divenuta l’unica fonte di finanziamento. Ciò costringerà le banche a restringere ulteriormente la loro politica creditizia. Quindi, sebbene i tassi di interesse definiti dalle banche centrali siano molto bassi e sebbene le politiche monetarie siano espansive, rischia di risultare ancor più ostruito il canale di trasmissione costituito dalle banche e dai crediti concessi ad imprese e famiglie, ossia all’economia reale. Agli effetti delle stangate fiscali dei Paesi europei bisogna pertanto aggiungere un accesso al credito più difficile e anche più costoso.
Alla luce di queste considerazioni appaiono fortemente giustificate le apprensioni americane sul rischio di una ricaduta dell’economia occidentale in recessione. Più discutibili sono invece le ricette proposte da Washington. Le preoccupazioni dell’amministrazione americana riguardano infatti essenzialmente il breve termine. A Washington non ci si interroga invece sulla sostenibilità nel tempo di queste politiche espansive e soprattutto non si vuole prendere atto che questa crisi non è congiunturale, ma è strutturale e che quindi richiede riforme profonde delle regole di funzionamento non solo del sistema bancario, ma dell’intera economia mondiale.