Tuor - Brace sotto le ceneri della crisi

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Brace sotto le ceneri della crisi
Nessuna ripresa duratura nonostante le misure di stimolo
31 mar 2010
di ALFONSO TUOR

Senza un’azione coordinata dei Paesi del G20 «c’è il rischio di una crescita debole e di una nuova crisi». Lo hanno scritto in una lettera inviata ai capi di Stato e di Governo dei venti maggiori Paesi industrializzati il presidente americano Barack Obama, quello francese Nicolas Sarkozy e il primo ministro britannico Gordon Brown. Nella lettera si legge anche che «la ripresa in corso dell’economia mondiale è fragile e che le tensioni attuali illustrano i rischi che persistono per l’economia e la stabilità finanziaria». I tre leader aggiungono che gli sforzi del G20 «hanno permesso di evitare il crollo completo del sistema finanziario». Ora «l’obiettivo è costruire un’economia mondiale più solida, fondata su una crescita durevole e una prosperità per tutti».
L’analisi di Obama, Sarkozy e Brown non può che essere condivisa. I timidi segnali di ripresa che si registrano in alcuni Paesi sono il frutto delle eccezionali misure di stimolo, che sono consistite in piani di rilancio, tassi di interesse prossimi allo zero, stampa di moneta e salvataggi di numerosi gruppi bancari. Queste politiche stanno però mostrando la corda, poiché non hanno affrontato le cause della crisi e poiché non possono essere continuate a lungo. Infatti in una normale recessione impulsi monetari e fiscali di questa entità avrebbero generato una forte ripresa. Nella situazione attuale invece sono serviti per salvare il sistema finanziario e per evitare una depressione, ma non sono bastati e non bastano per imboccare la strada di una ripresa sana e duratura.
Il motivo è semplice. La crisi affonda le sue radici in un eccesso di indebitamento dei diversi attori economici (famiglie, imprese, sistema finanziario e Stati). Secondo alcuni economisti, il volume dei debiti è giunto ad un livello tale da non essere più sostenibile dall’economia. Ciò vuol dire che oggi un dollaro di debito/credito aggiuntivo non solo non ha un effetto moltiplicatore sulla crescita economica, ma addirittura non si traduce nemmeno più in una crescita economica addizionale di un dollaro (anzi, addirittura si traduce in una crescita negativa). Quindi la politica monetaria espansiva serve unicamente al settore bancario, che può rifinanziarsi a costi di poco superiori allo zero, può guadagnare commissioni ristrutturando i debiti di famiglie, imprese e Stati e può ottenere liquidità per riprendere a speculare sui mercati finanziari. Ed infatti il risultato di queste politiche è che i principali responsabili della crisi, ossia le grandi banche (alcune delle quali hanno dovuto essere salvate dagli Stati), sono i principali beneficiari di queste politiche economiche. La ripresa dell’economia reale è invece incerta e a macchie di leopardo.
I timori di ricaduta in una nuova crisi espressi da Barack Obama, Nicolas Sarkozy e Gordon Brown sono completamente giustificati. Anzi, diventano ancora più forti, poiché si moltiplicano i segnali che indicano che anche gli investitori cominciano a percepire che sono rischiosi non solo i titoli in cui sono stati impacchettati diversi crediti (come i mutui ipotecari americani, i crediti al consumo, ecc.), ma anche le obbligazioni statali. La crisi fiscale della Grecia è stato il primo avvertimento che il rischio di un titolo statale non è più appannaggio solo dei Paesi emergenti, ma anche dei Paesi di vecchia industrializzazione. L’emissione di 5 miliardi di euro effettuata due giorni fa dalla Grecia dimostra inoltre che il piano di emergenza varato dall’Unione europea non è credibile. Infatti la Grecia dovrà pagare tassi del 5.9%, ossia più del doppio dei Bunds tedeschi e 200 punti di base più dei titoli statali del Portogallo, che è un altro Paese europeo a rischio.
Ma vi è di più. Negli ultimi giorni sono aumentati in modo significativo i rendimenti sui titoli di Stato statunitensi. Secondo alcuni analisti, l’attenzione dei mercati si sta spostando dalla Grecia agli Stati Uniti. E ce ne è ben donde. Il debito pubblico, quello delle famiglie e delle imprese americane, supera il 300% del PIL statunitense. Il debito dello Stato federale è nettamente superiore alle cifre diffuse da Washington. Nel bilancio non vengono infatti tenuti in considerazione una serie di enti pubblici che sono fortemente indebitati. Basti pensare a Fannie Mae e Freddie Mac, che garantiscono la stragrande maggioranza dei mutui ipotecari americani e i cui debiti dall’estate del 2008 sono esplicitamente garantiti dallo Stato americano. Inoltre la qualità di questi debiti è sicuramente discutibile e la possibilità di onorarli e di rimborsarli è altamente in dubbio. Le famiglie si sono indebitate per sostenere un tenore di vita superiore ai loro redditi (crediti al consumo) o per acquistare case il cui valore è fortemente sceso a causa della crisi immobiliare. Il settore finanziario è molto esposto a causa delle sue attività speculative. Lo Stato federale ha accumulato un debito che si avvicina al 100% del PIL, nonostante gli scarsi investimenti infrastrutturali realizzati negli ultimi anni. Oggi la Federal Reserve dovrebbe smettere di stampare moneta per acquistare i titoli in cui sono impacchettati i mutui ipotecari e gli altri crediti di dubbia qualità e dovrebbe pure smettere di acquistare le obbligazioni emesse dallo Stato americano. I mercati sono dunque nervosi e chiedono rendimenti superiori, poiché sanno che se la Fed smettesse veramente di comprare, sarebbe difficile assorbire l’enorme quantità di crediti privati e pubblici che verranno emessi negli Stati Uniti nei prossimi mesi. Per questo motivo il rialzo dei rendimenti obbligazionari può essere letto come la richiesta di premi maggiori per sottoscrivere il rischio rappresentato dall’acquisto di questi titoli. Ma dato che il risparmio interno degli Stati Uniti non è sufficiente per assorbire tutta questa offerta, c’è da prevedere (soprattutto se ci saranno meno acquisti stranieri) che la Federal Reserve sia costretta ad operare un voltafaccia e a riprendere ad acquistare titoli privati e pubblici per evitare un forte rialzo dei tassi di interesse, esplicitando di fatto il fallimento del tentativo di ritorno graduale ad una politica monetaria normale.
La crisi fiscale della Grecia, le difficoltà di Portogallo, Spagna ed Irlanda, i segnali che giungono dagli Stati Uniti dimostrano che il problema dell’indebitamento ha investito ora anche gli Stati e fanno ritenere che sia prossima una nuova fase di eruzione del vulcano della crisi finanziaria scoppiata nell’estate del 2007.
 

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