Sharnin 2
Forumer storico
Fed iperattiva ma la crisi si aggrava
Alfonso Tuor
Il periodo di apparente bonaccia sui mercati azionari e su quelli dei cambi sembra essersi concluso. Paradossalmente a dare il via alla nuova fase di turbolenze è stato il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, che la settimana scorsa davanti al Congresso ha fatto chiaramente capire che la banca centrale statunitense userà tutti i mezzi a propria disposizione per rilanciare un’economia americana oggi in crisi per lo scoppio di un’enorme bolla del credito creata dal sistema finanziario.
In buona sostanza, Ben Bernanke ha preannunciato che il prossimo 18 marzo la Federal Reserve taglierà i tassi di interesse di un altro mezzo punto e che a questo taglio ne seguiranno altri. In pratica, i tassi guida americani che lo scorso mese di agosto erano ancora al 5,25% scenderanno in marzo al 2,5%. E i mercati scommettono che presto scenderanno al di sotto del 2%. Si tratta di una vera e propria cura da cavallo che presenta parecchi rischi. Infatti i tassi americani, che già oggi sono inferiori al tasso di inflazione (superiore al 4%), saranno negativi anche rispetto al tasso di inflazione «core», ossia quello depurato dagli effetti sul rincaro dell’andamento dei prezzi energetici ed alimentari, che in gennaio ha raggiunto il 2,2%, e rispetto all’indice preferito dalla Fed, ossia l’indice dei prezzi delle spese di consumo delle famiglie americane, che in gennaio è salito al 3,7%.
In pratica Ben Bernanke ha detto inequivocabilmente che la Fed ritiene prioritario lottare contro i rischi per la crescita dovuti alle crisi del mercato immobiliare e del sistema bancario e che ritiene, almeno in questa fase, secondario o non importante occuparsi delle tensioni che si stanno manifestando sul fronte dei prezzi.
Le parole del presidente della Fed sono state subito tradotte in soldoni dai mercati finanziari: il dollaro si è mosso al ribasso stabilendo nuovi minimi storici rispetto all’euro, al franco svizzero e a numerose altre valute, mentre i prezzi delle materie prime (in primis il petrolio), quelli delle derrate alimentari e dei metalli preziosi sono saliti stabilendo nuovi massimi storici.
E proprio la reazione di questi mercati pone dei limiti alla libertà d’azione della banca centrale americana. Infatti l’indebolimento del dollaro dà ulteriore fiato alle esportazioni americane, che sono in crescita e che rappresentano l’unico spiraglio di luce in un quadro economico altrimenti a tinte fosche. Ma non deve trasformarsi in una fuga dal dollaro che provocherebbe un’impennata dei tassi americana a lunga scadenza. D’altro canto il rialzo dei prezzi delle materie prime e delle derrate agricole, che immancabilmente segue un indebolimento del dollaro, decurta il potere d’acquisto delle famiglie americane e quindi non favorisce la ripresa. Inoltre l’impennata dei prezzi delle materie prime e soprattutto dell’oro, pur essendo in parte il frutto della speculazione e pur facendo temere il formarsi di un’altra pericolosa bolla, può essere anche considerato un termometro di crescenti paure inflazionistiche.
La Federal Reserve è perfettamente consapevole di questi pericoli, che ritiene di poter scongiurare rialzando rapidamente il costo del denaro, se l’economia dovesse cominciare a dare segnali di ripresa. Nell’immediato la Fed è però ben più preoccupata dalla forte frenata della crescita e dal rischio che una prolungata e profonda recessione (probabilmente oggi già in corso) possa aggravare la crisi dei mercati finanziari, portando ad un circolo vizioso, in cui – come ha scritto l’economista Nouriel Roubini – «una profonda recessione aggrava le perdite finanziarie e dove, a loro volta, le perdite finanziarie ingenti e in aumento e il tracollo del settore finanziario rendono la recessione ancora più grave».
E su questo fronte la situazione si fa sempre più cupa. Gli ultimi dati economici indicano – come sostiene Warren Buffett – che l’economia americana è già di fatto in recessione. La crisi del mercato immobiliare continua ad acuirsi con la discesa ulteriore dei prezzi delle case e l’impennata dei pignoramenti. L’ampliamento a 120 punti di base del differenziale tra i Buoni del Tesoro a tre mesi e il Libor dimostrano che la tensione sui mercati dei crediti continua a crescere, nonostante le iniezioni di liquidità e i ribassi dei tassi della Fed. La situazione rischia di peggiorare ulteriormente, poiché non si riesce a trovare una soluzione per le compagnie che assicuravano i crediti (le cosiddette monolines). Inoltre continuano ad emergere nuove strane costruzioni finanziarie, in cui le banche americane avevano «nascosto» i titoli legati alla cartolarizzazione dell’enorme bolla del credito. Le ultime in ordine di tempo sono le VIE (Variable Interest Entities) in cui sarebbero parcheggiati altri 88 miliardi di dollari di titoli a rischio.
Insomma, nonostante i ripetuti interventi della Fed, il quadro della crisi economica e di quella finanziaria non è migliorato e l’unico successo che può vantare finora la Fed è di aver fatto sì che i tassi a breve siano inferiori a quelli a lungo termine, dando in questo modo un po’ di fiato alle banche. In queste condizioni è inevitabile che i mercati finanziari riprendano a fare le bizze, anche perché il continuo ribasso del tasso di cambio del dollaro, l’impennata dei prezzi delle materie prime e la brusca frenata americana sono destinate ad intaccare anche la crescita del Vecchio Continente, che è per di più appensantito dalla crisi di molti istituti bancari, come UBS, che seppure in diverso modo pensavano fosse destinato a durare ancora a lungo il banchetto dell’enorme bolla dei crediti creata dal sistema finanziario.
03/03/2008 19:15
http://www.cdt.ch/interna.asp?idarticolo=136618
Alfonso Tuor
Il periodo di apparente bonaccia sui mercati azionari e su quelli dei cambi sembra essersi concluso. Paradossalmente a dare il via alla nuova fase di turbolenze è stato il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, che la settimana scorsa davanti al Congresso ha fatto chiaramente capire che la banca centrale statunitense userà tutti i mezzi a propria disposizione per rilanciare un’economia americana oggi in crisi per lo scoppio di un’enorme bolla del credito creata dal sistema finanziario.
In buona sostanza, Ben Bernanke ha preannunciato che il prossimo 18 marzo la Federal Reserve taglierà i tassi di interesse di un altro mezzo punto e che a questo taglio ne seguiranno altri. In pratica, i tassi guida americani che lo scorso mese di agosto erano ancora al 5,25% scenderanno in marzo al 2,5%. E i mercati scommettono che presto scenderanno al di sotto del 2%. Si tratta di una vera e propria cura da cavallo che presenta parecchi rischi. Infatti i tassi americani, che già oggi sono inferiori al tasso di inflazione (superiore al 4%), saranno negativi anche rispetto al tasso di inflazione «core», ossia quello depurato dagli effetti sul rincaro dell’andamento dei prezzi energetici ed alimentari, che in gennaio ha raggiunto il 2,2%, e rispetto all’indice preferito dalla Fed, ossia l’indice dei prezzi delle spese di consumo delle famiglie americane, che in gennaio è salito al 3,7%.
In pratica Ben Bernanke ha detto inequivocabilmente che la Fed ritiene prioritario lottare contro i rischi per la crescita dovuti alle crisi del mercato immobiliare e del sistema bancario e che ritiene, almeno in questa fase, secondario o non importante occuparsi delle tensioni che si stanno manifestando sul fronte dei prezzi.
Le parole del presidente della Fed sono state subito tradotte in soldoni dai mercati finanziari: il dollaro si è mosso al ribasso stabilendo nuovi minimi storici rispetto all’euro, al franco svizzero e a numerose altre valute, mentre i prezzi delle materie prime (in primis il petrolio), quelli delle derrate alimentari e dei metalli preziosi sono saliti stabilendo nuovi massimi storici.
E proprio la reazione di questi mercati pone dei limiti alla libertà d’azione della banca centrale americana. Infatti l’indebolimento del dollaro dà ulteriore fiato alle esportazioni americane, che sono in crescita e che rappresentano l’unico spiraglio di luce in un quadro economico altrimenti a tinte fosche. Ma non deve trasformarsi in una fuga dal dollaro che provocherebbe un’impennata dei tassi americana a lunga scadenza. D’altro canto il rialzo dei prezzi delle materie prime e delle derrate agricole, che immancabilmente segue un indebolimento del dollaro, decurta il potere d’acquisto delle famiglie americane e quindi non favorisce la ripresa. Inoltre l’impennata dei prezzi delle materie prime e soprattutto dell’oro, pur essendo in parte il frutto della speculazione e pur facendo temere il formarsi di un’altra pericolosa bolla, può essere anche considerato un termometro di crescenti paure inflazionistiche.
La Federal Reserve è perfettamente consapevole di questi pericoli, che ritiene di poter scongiurare rialzando rapidamente il costo del denaro, se l’economia dovesse cominciare a dare segnali di ripresa. Nell’immediato la Fed è però ben più preoccupata dalla forte frenata della crescita e dal rischio che una prolungata e profonda recessione (probabilmente oggi già in corso) possa aggravare la crisi dei mercati finanziari, portando ad un circolo vizioso, in cui – come ha scritto l’economista Nouriel Roubini – «una profonda recessione aggrava le perdite finanziarie e dove, a loro volta, le perdite finanziarie ingenti e in aumento e il tracollo del settore finanziario rendono la recessione ancora più grave».
E su questo fronte la situazione si fa sempre più cupa. Gli ultimi dati economici indicano – come sostiene Warren Buffett – che l’economia americana è già di fatto in recessione. La crisi del mercato immobiliare continua ad acuirsi con la discesa ulteriore dei prezzi delle case e l’impennata dei pignoramenti. L’ampliamento a 120 punti di base del differenziale tra i Buoni del Tesoro a tre mesi e il Libor dimostrano che la tensione sui mercati dei crediti continua a crescere, nonostante le iniezioni di liquidità e i ribassi dei tassi della Fed. La situazione rischia di peggiorare ulteriormente, poiché non si riesce a trovare una soluzione per le compagnie che assicuravano i crediti (le cosiddette monolines). Inoltre continuano ad emergere nuove strane costruzioni finanziarie, in cui le banche americane avevano «nascosto» i titoli legati alla cartolarizzazione dell’enorme bolla del credito. Le ultime in ordine di tempo sono le VIE (Variable Interest Entities) in cui sarebbero parcheggiati altri 88 miliardi di dollari di titoli a rischio.
Insomma, nonostante i ripetuti interventi della Fed, il quadro della crisi economica e di quella finanziaria non è migliorato e l’unico successo che può vantare finora la Fed è di aver fatto sì che i tassi a breve siano inferiori a quelli a lungo termine, dando in questo modo un po’ di fiato alle banche. In queste condizioni è inevitabile che i mercati finanziari riprendano a fare le bizze, anche perché il continuo ribasso del tasso di cambio del dollaro, l’impennata dei prezzi delle materie prime e la brusca frenata americana sono destinate ad intaccare anche la crescita del Vecchio Continente, che è per di più appensantito dalla crisi di molti istituti bancari, come UBS, che seppure in diverso modo pensavano fosse destinato a durare ancora a lungo il banchetto dell’enorme bolla dei crediti creata dal sistema finanziario.
03/03/2008 19:15
http://www.cdt.ch/interna.asp?idarticolo=136618