Sharnin 2
Forumer storico
Crisi dei mutui "subprime"
La ricetta Usa è tagliare i tassi
Alfonso Tuor
Gli Stati Uniti faranno tutto il possibile per far rientrare la crisi che da alcuni giorni tormenta i mercati finanziari. In pratica, ciò vuol dire che i tassi di interesse saranno abbassati fino a quando non tornerà la calma sui mercati dei capitali e che, quindi, la leva monetaria verrà usata come salvagente del sistema finanziario. Per far capire agli operatori che gli Stati Uniti sono uniti su questa scelta, il messaggio è stato comunicato dai tre principali centri di potere (Amministrazione, Congresso e banca centrale) e «santificato» da una foto di gruppo in cui compaiono il Segretario al Tesoro Hank Paulson, il Presidente della Commissione bancaria del Senato, il democratico Christopher Dodd, e il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke.
L’annuncio ha già prodotto un primo effetto: la certezza che la Federal Reserve taglierà i tassi statunitensi e soprattutto la dichiarazione, studiata anche dal punto di vista coreografico, che la banca centrale userà tutti gli strumenti a sua disposizione per far rientrare la crisi, ha riportato un po’ di fiducia nei mercati.
A questo punto le questioni fondamentali sono tre. Quale sarà l’ampiezza dei tagli dei tassi di interesse americani necessaria per riportare una calma duratura sui mercati finanziari? Questi tagli attutiranno il previsto rallentamento dell’economia statunitense? E, infine, questa scelta risolve oppure unicamente rinvia la soluzione dei problemi, di cui le forti turbolenze dei mercati degli ultimi giorni sono solo un sintomo?
È evidente che ora si entra in una fase in cui le scommesse sono unidirezionali. Infatti ad ogni periodo di nuova crisi dei mercati (e ve ne saranno altri nei prossimi mesi), è praticamente certo che la banca centrale statunitense sarà costretta a tagliare i tassi e ad immettere nuova liquidità nel sistema. Questa partita «truccata» già dall’inizio fa temere che in pratica si salveranno i responsabili di questa crisi (banche di investimento, hedge funds, fondi private equity, ecc.), creando però una nuova bolla e quindi le premesse per una nuova e più grave crisi. Infatti la nuova finanza con i suoi vecchi e nuovi protagonisti potrà continuare a giocare impunemente contando sull’aiuto della mano pubblica che provvederà a salvarla dai guai che il suo stesso comportamento ha prodotto. A pagare saranno i soliti: fondi pensione, assicurazioni e risparmiatori che si ritroveranno nei loro portafogli strumenti, attraverso cui sono stati cartolarizzati i mutui subprime americani. Quindi, la legge di mercato che si fonda sulla sanzione del fallimento continuerà a non valere nel mondo della finanza, ossia per i maggiori entusiasti del liberismo. È pure evidente che le autorità americane non potevano fare nulla di diverso per evitare che la crisi si trasformasse in una crisi dell’intero sistema finanziario mondiale e quindi di tutta l’economia. Quindi, come abbiamo sempre scritto, era scontato l’uso della leva monetaria per evitare che la crisi scappasse di mano.
È tuttavia altrettanto certo che gli strumenti monetari da soli mettono una toppa e rinviano la crisi (come è già capitato nel 1998 dopo il collasso di LTCM, un grande hedge fund americano, e come è capitato all’inizio di questo decennio dopo il crollo delle borse), ma non sono adatti per affrontare i problemi che l’hanno originata. Il primo e sicuramente il più importante è la crescente finanziarizzazione dell’economia e i meccanismi di funzionamento della finanza globale. Questa è una crisi prodotta dallo stesso settore finanziario, il quale ha creato nuovi soggetti (hedge funds, ecc.) e strumenti sempre più sofisticati che non solo sfuggono alle regolamentazioni cui è sottoposto il settore bancario, ma che spesso non hanno nemmeno dei prezzi di mercato. Molti sostenevano che questi nuovi soggetti dovevano essere salutati come dei benefattori, poiché oliavano le rotelle dei mercati finanziari e che i nuovi strumenti (dall’impacchettamento dei debiti in emissioni obbligazionarie agli strumenti derivati e così via) rendevano l’intero sistema più solido, poiché distribuivano i rischi ed evitavano la loro concentrazione nel sistema bancario. La prima crisi di una certa serietà ha dimostrato l’inconsistenza di queste teorie. In primo luogo, le banche non svolgono più alcuna selezione dei crediti, poiché questi restano solo temporaneamente nei loro bilanci in attesa di essere impacchettati in emissione obbligazionarie da vendere sul mercato. Anzi, il loro interesse è creare la maggior quantità di crediti non di vagliarne la bontà. Ma l’aspetto paradossale venuto alla luce in questi giorni è che questi rischi ritornano nelle braccia delle banche in caso di crisi, poiché gli acquirenti di questi titoli sono spesso fondi di hedge, che possono contare su ampie linee di credito bancarie, o affiliate delle stesse banche. Inoltre dato che su questi strumenti sono spesso stati creati strumenti derivati, le grandi banche di investimento si ritrovano di nuovo in trincea poiché sono i market makers di questi mercati e spesso anche la controparte. Questi fenomeni perversi sono solo alcuni di quelli prodotti dalla crescente finanziarizzazione dell’economia. Basti pensare agli squilibri tra economie (emblematico è il crescente debito estero americano) e all’interno delle singole economie, ossia alla tendenza secondo cui le famiglie e gli enti pubblici tendono ad indebitarsi sempre più, mentre gli investimenti aziendali crescono meno degli utili e gli investimenti pubblici si assottigliano sempre di più. Consumare e non investire per il futuro è la ricetta del fallimento futuro.
In conclusione, la decisione statunitense di fare tutto il possibile per far rientrare la crisi non significa la fine delle turbolenze dei mercati. Anzi è molto probabile che presto la tensione riprenderà a salire, ma significa unicamente che la crisi non scapperà di mano. Il previsto taglio dei tassi americani risulterà molto probabilmente a tal punto ampio da costringere anche le autorità monetarie europee a muoversi nella stessa direzione. E l’ampia riduzione del costo del denaro attutirà di molto gli effetti di questa crisi sull’economia reale, la cui crescita è comunque destinata a subire un certo rallentamento. Ma è bene ripeterlo: attraverso i tagli dei tassi e le iniezioni di liquidità non si risolverà la crisi, ma semplicemente la si rinvierà.
22/08/2007
La ricetta Usa è tagliare i tassi
Alfonso Tuor
Gli Stati Uniti faranno tutto il possibile per far rientrare la crisi che da alcuni giorni tormenta i mercati finanziari. In pratica, ciò vuol dire che i tassi di interesse saranno abbassati fino a quando non tornerà la calma sui mercati dei capitali e che, quindi, la leva monetaria verrà usata come salvagente del sistema finanziario. Per far capire agli operatori che gli Stati Uniti sono uniti su questa scelta, il messaggio è stato comunicato dai tre principali centri di potere (Amministrazione, Congresso e banca centrale) e «santificato» da una foto di gruppo in cui compaiono il Segretario al Tesoro Hank Paulson, il Presidente della Commissione bancaria del Senato, il democratico Christopher Dodd, e il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke.
L’annuncio ha già prodotto un primo effetto: la certezza che la Federal Reserve taglierà i tassi statunitensi e soprattutto la dichiarazione, studiata anche dal punto di vista coreografico, che la banca centrale userà tutti gli strumenti a sua disposizione per far rientrare la crisi, ha riportato un po’ di fiducia nei mercati.
A questo punto le questioni fondamentali sono tre. Quale sarà l’ampiezza dei tagli dei tassi di interesse americani necessaria per riportare una calma duratura sui mercati finanziari? Questi tagli attutiranno il previsto rallentamento dell’economia statunitense? E, infine, questa scelta risolve oppure unicamente rinvia la soluzione dei problemi, di cui le forti turbolenze dei mercati degli ultimi giorni sono solo un sintomo?
È evidente che ora si entra in una fase in cui le scommesse sono unidirezionali. Infatti ad ogni periodo di nuova crisi dei mercati (e ve ne saranno altri nei prossimi mesi), è praticamente certo che la banca centrale statunitense sarà costretta a tagliare i tassi e ad immettere nuova liquidità nel sistema. Questa partita «truccata» già dall’inizio fa temere che in pratica si salveranno i responsabili di questa crisi (banche di investimento, hedge funds, fondi private equity, ecc.), creando però una nuova bolla e quindi le premesse per una nuova e più grave crisi. Infatti la nuova finanza con i suoi vecchi e nuovi protagonisti potrà continuare a giocare impunemente contando sull’aiuto della mano pubblica che provvederà a salvarla dai guai che il suo stesso comportamento ha prodotto. A pagare saranno i soliti: fondi pensione, assicurazioni e risparmiatori che si ritroveranno nei loro portafogli strumenti, attraverso cui sono stati cartolarizzati i mutui subprime americani. Quindi, la legge di mercato che si fonda sulla sanzione del fallimento continuerà a non valere nel mondo della finanza, ossia per i maggiori entusiasti del liberismo. È pure evidente che le autorità americane non potevano fare nulla di diverso per evitare che la crisi si trasformasse in una crisi dell’intero sistema finanziario mondiale e quindi di tutta l’economia. Quindi, come abbiamo sempre scritto, era scontato l’uso della leva monetaria per evitare che la crisi scappasse di mano.
È tuttavia altrettanto certo che gli strumenti monetari da soli mettono una toppa e rinviano la crisi (come è già capitato nel 1998 dopo il collasso di LTCM, un grande hedge fund americano, e come è capitato all’inizio di questo decennio dopo il crollo delle borse), ma non sono adatti per affrontare i problemi che l’hanno originata. Il primo e sicuramente il più importante è la crescente finanziarizzazione dell’economia e i meccanismi di funzionamento della finanza globale. Questa è una crisi prodotta dallo stesso settore finanziario, il quale ha creato nuovi soggetti (hedge funds, ecc.) e strumenti sempre più sofisticati che non solo sfuggono alle regolamentazioni cui è sottoposto il settore bancario, ma che spesso non hanno nemmeno dei prezzi di mercato. Molti sostenevano che questi nuovi soggetti dovevano essere salutati come dei benefattori, poiché oliavano le rotelle dei mercati finanziari e che i nuovi strumenti (dall’impacchettamento dei debiti in emissioni obbligazionarie agli strumenti derivati e così via) rendevano l’intero sistema più solido, poiché distribuivano i rischi ed evitavano la loro concentrazione nel sistema bancario. La prima crisi di una certa serietà ha dimostrato l’inconsistenza di queste teorie. In primo luogo, le banche non svolgono più alcuna selezione dei crediti, poiché questi restano solo temporaneamente nei loro bilanci in attesa di essere impacchettati in emissione obbligazionarie da vendere sul mercato. Anzi, il loro interesse è creare la maggior quantità di crediti non di vagliarne la bontà. Ma l’aspetto paradossale venuto alla luce in questi giorni è che questi rischi ritornano nelle braccia delle banche in caso di crisi, poiché gli acquirenti di questi titoli sono spesso fondi di hedge, che possono contare su ampie linee di credito bancarie, o affiliate delle stesse banche. Inoltre dato che su questi strumenti sono spesso stati creati strumenti derivati, le grandi banche di investimento si ritrovano di nuovo in trincea poiché sono i market makers di questi mercati e spesso anche la controparte. Questi fenomeni perversi sono solo alcuni di quelli prodotti dalla crescente finanziarizzazione dell’economia. Basti pensare agli squilibri tra economie (emblematico è il crescente debito estero americano) e all’interno delle singole economie, ossia alla tendenza secondo cui le famiglie e gli enti pubblici tendono ad indebitarsi sempre più, mentre gli investimenti aziendali crescono meno degli utili e gli investimenti pubblici si assottigliano sempre di più. Consumare e non investire per il futuro è la ricetta del fallimento futuro.
In conclusione, la decisione statunitense di fare tutto il possibile per far rientrare la crisi non significa la fine delle turbolenze dei mercati. Anzi è molto probabile che presto la tensione riprenderà a salire, ma significa unicamente che la crisi non scapperà di mano. Il previsto taglio dei tassi americani risulterà molto probabilmente a tal punto ampio da costringere anche le autorità monetarie europee a muoversi nella stessa direzione. E l’ampia riduzione del costo del denaro attutirà di molto gli effetti di questa crisi sull’economia reale, la cui crescita è comunque destinata a subire un certo rallentamento. Ma è bene ripeterlo: attraverso i tagli dei tassi e le iniezioni di liquidità non si risolverà la crisi, ma semplicemente la si rinvierà.
22/08/2007