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L'economia tra realtà e illusioni I pacchetti di rilancio hanno solo migliorato il clima 5 mag 2009 di ALFONSO TUOR «Non siamo più in caduta libera, ma non si può ancora dire che stiamo uscendo dalla crisi perché siamo nel mezzo di una grave e profonda recessione». Con queste parole Joaquin Almunia, commissario europeo agli Affari economici e monetari, ha commentato ieri le previsioni aggiornate di Bruxelles, secondo cui l’economia di Eurolandia si contrarrà quest’anno del 4%. Anche l’anno prossimo la crescita dovrebbe restare sotto lo zero, sebbene l’Unione Europea preveda che nel 2010 dovrebbe cominciare a prender corpo la ripresa. Le stime europee rafforzano le previsione della nostra Banca Nazionale che, come noto, prevede che quest’anno l’economia elvetica si contragga ad un tasso variante tra il 2,5 e il 3%. Siamo dunque entrati in una delle recessioni più severe di questo dopoguerra che avrà pesanti conseguenze sul mercato del lavoro e sulla dinamica dei prezzi. Bruxelles prevede che la disoccupazione in Eurolandia, già salita in marzo all’8,9%, che corrisponde a 14,2 milioni di persone senza lavoro, raggiunga l’anno prossimo l’11,5%. Per quanto riguarda i prezzi la Commissione europea ritiene che l’inflazione, che in aprile si è attestata allo 0,6%, il livello più basso da quando nel 1996 si è cominciato a calcolare l’evoluzione dei prezzi nell’area dell’euro, scenda sotto lo zero e che quindi vi sia un periodo di deflazione. Questa realtà la sta già vivendo il nostro Paese: in Svizzera in aprile l’inflazione su base annua è scesa dello 0,4% e la Banca Nazionale sta ricorrendo a misure eterodosse per evitare un rafforzamento del franco che potrebbe creare una spirale deflattiva. Anche il Consiglio federale ha preso atto dell’entità della contrazione dell’economia elvetica e dopo aver varato due pacchetti di rilancio, che spiccavano per la loro modestia, dovrebbe presentarne nei prossimi giorni un terzo. Queste stime confermano che almeno per quest’anno parlare di ripresa dell’economia nel Vecchio Continente appare azzardato, anche perché le previsioni di Bruxelles rischiano di rivelarsi ottimistiche. Ad esempio, il Governo tedesco prevede una contrazione dell’economia germanica del 6%, mentre Bruxelles del 5,4%. Ma la questione cruciale non riguarda un punto in più o in meno di crescita del PIL, ma l’evoluzione della crisi e la possibilità concreta di uscirne in tempi relativamente brevi. Come ha detto il commissario Almunia, è in corso il passaggio da una fase di caduta verticale dell’attività economica (negli ultimi tre mesi dell’anno scorso e nei primi mesi di quest’anno) ad una sua stabilizzazione a bassi livelli. Cominciano pure ad avvertirsi i primi effetti dei pacchetti di rilancio varati dai diversi Paesi e soprattutto lo stimolo determinato dalla forte diminuzione del costo del denaro, dal marcato ribasso del prezzo del petrolio e delle altre materie prime e dal calo dell’inflazione. La combinazione di questi fattori fa aumentare il potere d’acquisto delle famiglie, non ancora colpite dal peggioramento della situazione del mercato del lavoro, e quindi sostiene i consumi. Questi fattori positivi contribuiscono a diffondere la sensazione che «la crisi c’è, ma non si vede», soprattutto nei Paesi, come la Svizzera, in cui la crisi non si è manifestata attraverso il crollo del mercato immobiliare. Questi fattori positivi non bastano però né in Europa né in Svizzera a compensare la forte diminuzione delle esportazioni e degli investimenti delle aziende. Ma c’è di più. A partire dal vertice del G20 tenutosi a Londra all’inizio di aprile, si è capito che è stato raggiunto un accordo tacito tra i Grandi in base al quale si farà tutto il possibile e anche l’impossibile per evitare fallimenti di grandi gruppi bancari (insomma, non vi sarà un’altra bancarotta stile Lehman Brothers) e pure per impedire una crisi finanziaria di qualsiasi Paese (a questo scopo sono state aumentate le risorse a disposizione del Fondo Monetario Internazionale). Quest’intesa, combinata con i pacchetti di rilancio dei diversi Paesi e con le politiche monetarie fortemente espansive delle banche centrali (anche la nostra BNS si è messa a stampare moneta), ha diffuso la convinzione che non sia più possibile la caduta in un baratro: in termini economici vuol dire che si è scongiurata la depressione. Di questo cambiamento di clima hanno preso atto per primi i mercati finanziari e soprattuto le borse, che da alcune settimane vedono i listini azionari in forte rialzo. Tutto ciò rischia di rivelarsi un’illusione ottica sostenuta ed incoraggiata dalle autorità monetarie e politiche. La realtà rischia di essere ben diversa: l’economia mondiale continua a contrarsi, sebbene a ritmi meno rapidi, grazie soprattutto agli interventi di governi e banche centrali. Le reali condizioni di salute del sistema bancario non sono migliorate di una virgola. Gli utili annunciati da alcune banche nel primo trimestre di quest’anno non sono il frutto del risanamento del sistema, ma del cambiamento delle regole contabili (che permettono di differire la registrazione delle perdite dei titoli tossici e dei crediti in sofferenza) e anche di trucchi contabili. Il Fondo Monetario ritiene che le attività tossiche ancora detenute dalle banche superino i 4.000 miliardi di dollari e un rapporto interno dell’organo di sorveglianza del sistema bancario tedesco (Bafin) stima che le perdite solo per gli istituti germanici superino i 1.000 miliardi di dollari. In settimana saranno resi noti i risultati dello stress test condotto sulle maggiori banche americane. Nonostante tutte le facilitazioni contabili introdotte in queste settimane, dovrebbe emergere che molti istituti hanno bisogno di nuovi aumenti di capitale. In realtà quello che stiamo vedendo è solo l’impatto, relativo, degli innumerevoli e costosi interventi statali degli ultimi mesi (alle sole banche sono stati forniti finora finanziamenti per 8.900 miliardi di dollari). Questi interventi non hanno ancora creato le premesse di una ripresa sana (e non drogata). Occorre sempre ricordarsi che questa è una crisi originata da un eccesso di debito e che queste crisi, da un canto, richiedono tempi lunghi per essere superate e, dall’altro, provocano ridimensionamenti strutturali di quei settori che si erano eccessivamente espansi nei periodi delle vacche grasse, come il settore finanziario.