Sharnin 2
Forumer storico
Se la crisi si estende al lavoro
La congiuntura negativa non è finita, ma in mutamento
6 ott 2009
di ALFONSO TUOR
La situazione economica sta migliorando, ma la crisi non è finita. I germogli verdi, che si vedono qua e là nei Paesi occidentali, sono unicamente dovuti alla ricostituzione delle scorte e alle misure statali anticrisi che, se ritirate, farebbero ripiombare il mondo nella recessione. Questo giudizio è stato espresso da Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, nel corso della presentazione dello studio sulle prospettive dell’economia mondiale. Lo scenario dell’FMI deve però fare i conti con due incognite: il forte aumento della disoccupazione che si sta registrando sia negli Stati Uniti sia in Europa e la sostenibilità nel tempo delle misure di politica monetaria e fiscale adottate dai Governi.
In una delle sue numerose metamorfosi la crisi, che all’inizio riguardava solamente i mutui ipotecari americani subprime, si è da mesi trasformata in una pesante crisi del mercato del lavoro. I dati diffusi venerdì scorso dagli Stati Uniti confermano che, se si escludono gli interventi governativi, non vi è alcuna forza in grado di trainare una ripresa dell’economia americana. Infatti in settembre per il ventunesimo mese consecutivo negli Stati Uniti sono stati distrutti posti di lavoro (per l’esattezza 263mila), portando a 7,6 milioni il numero delle persone che hanno perso l’impiego a partire dall’inizio di questa recessione, ossia dal mese di dicembre del 2007. I dati mettono inoltre in evidenza che la durata media della settimana lavorativa è scesa a 33 ore e che l’aumento dei salari è stato modesto. Queste cifre, come sostiene Neal Soss del Credit Suisse, sono preoccupanti, poiché per esserci una ripresa occorre un aumento dei consumi che non è possibile con il peggioramento della situazione del mercato del lavoro. La realtà non è molto diversa in Eurolandia, dove la disoccupazione è salita in agosto al 9,6%. Anche in Svizzera i senza lavoro sono saliti a 150mila con un tasso di disoccupazione del 3,8%.
Ma c’è di più: tutti prevedono un ulteriore deterioramento del mercato del lavoro nei prossimi mesi. Ciò non è destinato a limitare le possibilità di consumo delle famiglie, ma molto probabilmente a provocare un’ulteriore metamorfosi della crisi, ossia un aumento delle sofferenze bancarie sui crediti al consumo e in alcuni Paesi anche un peggioramento della crisi immobiliare. La previsione di una ricaduta in recessione nei prossimi mesi è stata avanzata anche da Michael Geohegan, CEO di HSBC, il gruppo bancario che aveva correttamente anticipato la crisi del mercato immobiliare americano. Questo timore è condiviso pure dalla quasi totalità dei Governi i quali continuano a sostenere che è prematuro pensare di interrompere le politiche di sostegno dell’economia. L’Ecofin, che riunisce i ministri dell’economia di Eurolandia, ha addirittura precisato che la questione non potrà essere affrontata prima del 2011.
Dunque, se appare sempre più concreto il rischio di una ricaduta in recessione, vi è però un unanime atteggiamento di fiducia sulla possibilità di continuare a proseguire le politiche monetarie e fiscali degli ultimi mesi, per cui la situazione non dovrebbe deteriorarsi molto: le economie dei Paesi occidentali potranno continuare a galleggiare come negli ultimi mesi.
Fiducia fondata? Il dubbio è lecito. Anche se l’FMI prevede un forte aumento del debito pubblico, ma esclude una crisi fiscale, ci si può interrogare sulla sostenibilità dell’impennata dell’indebitamento in alcuni Paesi. I maggiori timori riguardano gli Stati Uniti, dove il debito pubblico (che è oggi all’82% del PIL e che supererà il 100% l’anno prossimo) viene finanziato dalle banche centrali dei Paesi asiatici ed arabi, i quali sono sempre più preoccupati per la stabilità del valore del dollaro, messa a dura prova dalla politica di «quantitative easing» (ossia la stampa di moneta) seguita dalla Federal Reserve. Questi timori hanno già provocato cambiamenti: le banche centrali straniere, e soprattutto quella cinese, da alcuni mesi stanno sottoscrivendo solo titoli di stato americani a breve termine. Ciò vuol dire che gli Stati Uniti stanno seguendo i passi che hanno portato le banche sull’orlo del collasso, ossia quello di finanziare a breve impegni di lungo termine. Si può escludere che una banca centrale straniera provochi una crisi del dollaro, ma è prevedibile che l’aumento esponenziale della quantità di titoli di stato emessi dagli Stati Uniti e dagli altri Paesi occidentali sia destinata prima o poi a mettere a dura prova la fiducia degli investitori.
In conclusione l’epicentro della crisi è ora il mercato del lavoro. L’aumento della disoccupazione lascia presagire una ricaduta in recessione che difficilmente potrà essere contrastata con altri piani di rilancio destinati a far aumentare ulteriormente deficit pubblici, già in forte crescita. La crisi non è finita: stiamo solo assistendo semplicemente ad un’altra sua metamorfosi, che, come accaduto in passato, prelude a nuovi momenti di grande intensità.
La congiuntura negativa non è finita, ma in mutamento
6 ott 2009
di ALFONSO TUOR
La situazione economica sta migliorando, ma la crisi non è finita. I germogli verdi, che si vedono qua e là nei Paesi occidentali, sono unicamente dovuti alla ricostituzione delle scorte e alle misure statali anticrisi che, se ritirate, farebbero ripiombare il mondo nella recessione. Questo giudizio è stato espresso da Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, nel corso della presentazione dello studio sulle prospettive dell’economia mondiale. Lo scenario dell’FMI deve però fare i conti con due incognite: il forte aumento della disoccupazione che si sta registrando sia negli Stati Uniti sia in Europa e la sostenibilità nel tempo delle misure di politica monetaria e fiscale adottate dai Governi.
In una delle sue numerose metamorfosi la crisi, che all’inizio riguardava solamente i mutui ipotecari americani subprime, si è da mesi trasformata in una pesante crisi del mercato del lavoro. I dati diffusi venerdì scorso dagli Stati Uniti confermano che, se si escludono gli interventi governativi, non vi è alcuna forza in grado di trainare una ripresa dell’economia americana. Infatti in settembre per il ventunesimo mese consecutivo negli Stati Uniti sono stati distrutti posti di lavoro (per l’esattezza 263mila), portando a 7,6 milioni il numero delle persone che hanno perso l’impiego a partire dall’inizio di questa recessione, ossia dal mese di dicembre del 2007. I dati mettono inoltre in evidenza che la durata media della settimana lavorativa è scesa a 33 ore e che l’aumento dei salari è stato modesto. Queste cifre, come sostiene Neal Soss del Credit Suisse, sono preoccupanti, poiché per esserci una ripresa occorre un aumento dei consumi che non è possibile con il peggioramento della situazione del mercato del lavoro. La realtà non è molto diversa in Eurolandia, dove la disoccupazione è salita in agosto al 9,6%. Anche in Svizzera i senza lavoro sono saliti a 150mila con un tasso di disoccupazione del 3,8%.
Ma c’è di più: tutti prevedono un ulteriore deterioramento del mercato del lavoro nei prossimi mesi. Ciò non è destinato a limitare le possibilità di consumo delle famiglie, ma molto probabilmente a provocare un’ulteriore metamorfosi della crisi, ossia un aumento delle sofferenze bancarie sui crediti al consumo e in alcuni Paesi anche un peggioramento della crisi immobiliare. La previsione di una ricaduta in recessione nei prossimi mesi è stata avanzata anche da Michael Geohegan, CEO di HSBC, il gruppo bancario che aveva correttamente anticipato la crisi del mercato immobiliare americano. Questo timore è condiviso pure dalla quasi totalità dei Governi i quali continuano a sostenere che è prematuro pensare di interrompere le politiche di sostegno dell’economia. L’Ecofin, che riunisce i ministri dell’economia di Eurolandia, ha addirittura precisato che la questione non potrà essere affrontata prima del 2011.
Dunque, se appare sempre più concreto il rischio di una ricaduta in recessione, vi è però un unanime atteggiamento di fiducia sulla possibilità di continuare a proseguire le politiche monetarie e fiscali degli ultimi mesi, per cui la situazione non dovrebbe deteriorarsi molto: le economie dei Paesi occidentali potranno continuare a galleggiare come negli ultimi mesi.
Fiducia fondata? Il dubbio è lecito. Anche se l’FMI prevede un forte aumento del debito pubblico, ma esclude una crisi fiscale, ci si può interrogare sulla sostenibilità dell’impennata dell’indebitamento in alcuni Paesi. I maggiori timori riguardano gli Stati Uniti, dove il debito pubblico (che è oggi all’82% del PIL e che supererà il 100% l’anno prossimo) viene finanziato dalle banche centrali dei Paesi asiatici ed arabi, i quali sono sempre più preoccupati per la stabilità del valore del dollaro, messa a dura prova dalla politica di «quantitative easing» (ossia la stampa di moneta) seguita dalla Federal Reserve. Questi timori hanno già provocato cambiamenti: le banche centrali straniere, e soprattutto quella cinese, da alcuni mesi stanno sottoscrivendo solo titoli di stato americani a breve termine. Ciò vuol dire che gli Stati Uniti stanno seguendo i passi che hanno portato le banche sull’orlo del collasso, ossia quello di finanziare a breve impegni di lungo termine. Si può escludere che una banca centrale straniera provochi una crisi del dollaro, ma è prevedibile che l’aumento esponenziale della quantità di titoli di stato emessi dagli Stati Uniti e dagli altri Paesi occidentali sia destinata prima o poi a mettere a dura prova la fiducia degli investitori.
In conclusione l’epicentro della crisi è ora il mercato del lavoro. L’aumento della disoccupazione lascia presagire una ricaduta in recessione che difficilmente potrà essere contrastata con altri piani di rilancio destinati a far aumentare ulteriormente deficit pubblici, già in forte crescita. La crisi non è finita: stiamo solo assistendo semplicemente ad un’altra sua metamorfosi, che, come accaduto in passato, prelude a nuovi momenti di grande intensità.