Tuor - Un cerotto che non risolve la crisi

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Un cerotto che non risolve la crisi
Alfonso Tuor

Le borse hanno festeggiato la «nazionalizzazione» di Fannie Mae e di Freddie Mac. L’euforia dei mercati azionari è assolutamente comprensibile: con il commissariamento delle due agenzie l’amministrazione statunitense ha di fatto «nazionalizzato» il mercato ipotecario americano e quindi si è dotata dello strumento per controllare ed eventualmente mettere un freno alle perdite del sistema bancario collegate con il crollo del mercato immobiliare.
Questa lettura è confermata dall’impressionante rimbalzo dei titoli bancari che hanno trainato al rialzo le borse e dal fatto che già lo scorso mese di luglio il Congresso aveva approvato una legge in cui si garantivano i prestiti emessi da Fannie Mae e Freddie Mac e si creavano i presupposti legali per il loro salvataggio. L’annuncio del Ministero del Tesoro era previsto. L’euforia dei mercati è dovuta al fatto che non si salvano solo le due agenzie, che hanno concesso direttamente o garantito ipoteche per 5.400 miliardi di dollari, ma che, come ha detto lo stesso Henry Paulson, lo Stato inietterà immediatamente 200 miliardi dollari in Fannie Mae e Freddie Mac e manterrà aperte illimitate linee di credito per aiutare i principali istituti che finanziano il mercato immobiliare. Addirittura Freddie Mac e Fannie Mae vengono autorizzate ad acquistare i titoli (Asset Backed Securities), con cui sono stati finanziati i mutui e che sono ancora nei bilanci delle banche.
Ora è legittimo domandarsi se la «nazionalizzazione» di gran parte del mercato immobiliare è destinata a mettere la parola fine alla cosiddetta crisi dei mutui subprime. L’intera operazione, i cui costi si riveleranno di dimensioni colossali, è tesa infatti a salvare il sistema bancario, che deve ancora smaltire decine e decine di miliardi di perdite legate ai titoli con cui è stato finanziato il mercato immobiliare americano. Le banche, alle prese con una carenza di mezzi propri e grandi problemi di liquidità, hanno un disperato bisogno che la fiducia ritorni sui mercati dei capitali, affinché diminuiscano i tassi che oggi sono costrette a pagare per rifinanziarsi. Quindi, il primo test di questa nazionalizzazione sarà proprio rappresentato dalla reazione dei tassi sul mercato interbancario, su quello monetario e sul mercato dei capitali. La prima reazione non è stata molto positiva e comunque non è probabile che l’allentamento della tensione per il sistema bancario sia duraturo, poiché l’operazione annunciata domenica dal Ministero del Tesoro è in realtà un grande cerotto, che non è destinato né ad incidere molto sulla crisi del mercato immobiliare né ad attutire la frenata dell’economia statunitense. Quindi, non riuscirà a rallentare la crescita delle sofferenze del sistema bancario statunitense.
L’amministrazione Bush spera con questa manovra di favorire un ribasso dei tassi ipotecari, che negli Stati Uniti sono rimasti abbondantemente al di sopra del 6%, nonostante i ripetuti tagli del costo del denaro decisi dalla Federal Reserve. Una diminuzione dei tassi ipotecari dovrebbe, nelle intenzioni di Washington, alleggerire il peso di molte famiglie indebitate e dovrebbe soprattutto spingere molti americani a comprare una casa e quindi a ridurre il crescente numero di immobili vuoti. In pratica, dovrebbe favorire la ripresa del mercato. Queste speranze appaiono di dubbio fondamento, considerati la quantità di case vuote e il numero di procedure di pignoramento già avviate. Basti ricordare che, ad esempio, il 9,2% delle ipoteche accese da famiglie composte da una a 4 persone sono o in ritardo nei pagamenti o già alle prese con il processo di pignoramento dell’immobile. È quindi molto improbabile che i tassi ipotecari possano scendere molto.
Anche l’influsso di questo salvataggio sull’economia reale appare minimo. L’unico effetto positivo potrebbe essere l’allentamento delle politiche restrittive di concessione dei crediti seguite oggi dalle banche. Anzi, questo salvataggio potrebbe «costare» molto allo Stato federale americano. Infatti «Uncle Sam» si è assunto la responsabilità del finanziamento di circa 5.400 miliardi di mutui ipotecari. In pratica, con un colpo di penna ha raddoppiato il debito pubblico americano, ma soprattutto sarà costretto a sborsare alcune centinaia di miliardi di dollari per coprire le perdite delle due agenzie. È quindi probabile che l’aumento del deficit e del debito pubblico statunitense faccia salire i rendimenti dei titoli statali e quindi in parte annulli l’effetto tonificante sui tassi del salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac. È pure possibile che l’esplosione del debito pubblico americano possa pesare negativamente sul dollaro.
Quello che è certo è che questo salvataggio non mette la parola fine alla crisi. Anzi, esso conferma l’impressione che Washington stia ripetendo quanto fece il governo giapponese negli anni Novanta, dopo lo scoppio della crisi del mercato azionario e del mercato immobiliare. Come tutti sanno, i numerosi pacchetti nipponici di rilancio e di salvataggio hanno permesso al Giappone di guadagnar tempo e di evitare una depressione, ma non hanno impedito che l’economia marciasse sul posto per più di un decennio.
L’intervento annunciato domenica scorsa, che segue quello per evitare il fallimento della banca d’investimento Bear & Stearns e quelli tesi a sostenere i consumi delle famiglie e il mercato immobiliare, sta comunque producendo un profondo cambiamento dei rapporti tra Stato ed economia. I principi liberisti vengono messi in soffitta e lo Stato americano (e ben presto anche gli altri Stati) interviene e continuerà ad intervenire con l’intento di salvare l’economia. A battere cassa a Washington si presenteranno presto i tre grandi dell’auto di Detroit che chiedono 50 miliardi di dollari di prestiti per (teoricamente) la ricerca e lo sviluppo di veicoli meno inquinanti. Insomma, sta avvenendo esattamente il contrario di quanto si aspettavano i sostenitori della visione liberista dell’economia.

08/09/2008 23:53
 

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