Tuor - Una malattia chiamata deflazione

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Una malattia chiamata deflazione
Economia statunitense alla lente
3 ago 2010
di ALFONSO TUOR

«Stiamo vivendo una fase di stallo di una modesta ripresa e una pausa in una ripresa modesta assomiglia ad una recessione». Con queste parole l’ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, in un’intervista alla catena televisiva NBC, ha commentato i dati deludenti sull’economia statunitense diffusi venerdì scorso. Il ritmo di crescita annualizzato dell’economia americana è sceso dal 3,7% del primo trimestre al 2,4% del secondo trimestre.
Usando la terminologia europea, siamo ad un tasso di espansione trimestrale dello 0,6%. Ma c’è di più: la recessione americana è stata molto più severa di quanto ci è stato finora raccontato, come emerge dalla correzione al ribasso effettuata sui dati economici degli scorsi anni. Come ha messo in risalto il quotidiano «The Financial Times», in base a questa revisione emerge che il PIL americano si aggira attorno ai 13 mila miliardi di dollari dall’inizio del 2006. Detta in altri termini, da cinque anni l’economia americana non ha avuto alcuna crescita. Si tratta di una situazione che cozza con l’immagine di un’economia americana dinamica e capace di reagire di fronte alle avversità, che ricorda invece quella vissuta dal Giappone negli anni Novanta e che fa ritornare in auge il rischio della deflazione. Questo pericolo sta diventando ogni giorno più concreto non solo per gli Stati Uniti, ma anche per l’Europa. Procediamo con ordine.
Il rallentamento dell’economia americana è preoccupante, poiché conferma che la crescita degli ultimi mesi era insostenibile (o drogata), come abbiamo sempre sostenuto, poiché principalmente dovuta alle misure fiscali di stimolo adottate dall’amministrazione Obama e monetarie dalla banca centrale. Ora però gli spazi di manovra degli Stati Uniti si sono fatti più stretti. Infatti, la crisi non è stata utilizzata per attuare le riforme indispensabili del sistema finanziario e dell’economia. L’arma dei pacchetti di stimolo è spuntata a causa dell’esplosione del disavanzo pubblico e della crescente resistenza politica a nuove misure di rilancio dal costo esorbitante. Resta unicamente la politica monetaria. E, come ha già preannunciato Ben Bernanke, la Federal Reserve è pronta a riprendere a stampare moneta. Ma anche questa politica rischia di produrre scarsi risultati. Infatti, il cavallo non ha intenzione di bere, come dimostra la tendenza delle famiglie americane a ridurre il proprio indebitamento più che a spendere. Anzi, paradossalmente l’acquisto di obbligazioni statali e non sul mercato aperto rischia di produrre l’effetto di spingere al ribasso i tassi di interesse a lungo termine, riducendo la pendenza della curva dei tassi, e quindi erodendo i margini sugli interessi delle banche americane. Ciò renderebbe più difficoltoso il lavoro di risanamento dei loro bilanci. Quindi, la politica monetaria da sola rischia di non bastare a rilanciare l’economia e soprattutto a frenare la caduta di un’inflazione che è già scesa all’1,1%. E alcuni studi segnalano che la crescita annua dell’economia statunitense deve essere superiore al 2% per evitare la deflazione.
Per di più gli Stati Uniti non possono sperare di ottenere grande aiuto dall’estero. L’economia europea è infatti destinata a rallentare sensibilmente non appena si avvertiranno gli effetti delle misure di austerità fiscale adottate da vari Paesi del Vecchio Continente. Questo fenomeno sarà più acuto nei Paesi mediterranei, che hanno anche varato le misure di risanamento delle finanze pubbliche più severe, ma non risparmierà nemmeno la locomotiva tedesca, poiché le esportazioni verso i Paesi emergenti sono destinate ad indebolirsi. E infatti anche l’economia cinese, quella indiana e quella brasiliana sono destinate a rallentare la loro corsa. Per quanto riguarda la prima, gli ultimi dati segnalano che gli sforzi di Pechino di rallentare il ritmo furibondo di crescita del Paese di Mezzo stanno cominciando ad ottenere i primi risultati. L’India, dal canto suo, sta alzando il costo del denaro per lottare contro un’inflazione che ha superato il 10% e dall’America Latina giungono dati che segnalano una perdita di slancio dell’economia brasiliana. In buona sostanza, dopo molti mesi durante i quali le politiche economiche di tutti i Paesi miravano al rilancio dell’economia, per superare la più grave crisi di questo dopoguerra, ora, per motivi diversi, le politiche dei Paesi occidentali e quelle dei Paesi emergenti diventano di fatto restrittive. Questa sincronizzazione rischia di rendere più forte la frenata dell’economia e soprattutto di rafforzare le pressioni deflazionistiche.
Riassumendo, si può facilmente prevedere nella seconda metà di quest’anno un ulteriore forte rallentamento dell’economia statunitense e di quella europea, con una buona probabilità di una ricaduta in recessione sia degli Stati Uniti sia di molti Paesi europei, in primis quelli mediterranei. È pure prevedibile un rallentamento dell’economia dei principali Paesi emergenti, che comunque manterranno tassi di crescita elevati anche se inferiori agli attuali. Questo contesto economico favorisce il rafforzamento delle pressioni deflazionistiche. La prosecuzione delle attuali politiche monetarie e fiscali europee rende quasi certa questa prospettiva. Questo rischio è molto forte anche negli Stati Uniti nonostante gli sforzi che sicuramente non lesinerà la Federal Reserve.
Una deflazione leggera non sarebbe assolutamente un evento eccessivamente traumatico (salari e risparmi sarebbero sicuri e l’esistenza di uno Stato sociale efficiente proteggerebbe gli espulsi dal mercato del lavoro). Del resto è quanto ci insegna l’esperienza del Giappone degli ultimi decenni. Ma quella che si prospetta è una dinamica deflazionistica e quest’ultima è una brutta malattia, perché è insensibile alle terapie tradizionali di politica monetaria e fiscale e può sfociare in una depressione.
 

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