Sharnin 2
Forumer storico
Verso una grave crisi dell'euro?
Sempre meno competitive le economie dei paesi più deboli
16 mar 2010
di ALFONSO TUOR
E se Eurolandia si frantumasse e l’area dell’euro si riducesse a Germania, Olanda, Francia e qualche altro piccolo Paese europeo? Questa prospettiva, che appariva assolutamente inverosimile fino a pochi mesi fa, appare oggi molto concreta. Essa è il risultato secondario di una crisi economica che ci ha abituato ad assistere a fatti straordinari, come il fallimento del sistema bancario occidentale, salvato dagli interventi pubblici, e che ci ha dimostrato che la realtà può spesso superare la fantasia. Questo sbocco delle contraddizioni interne di Eurolandia messe in luce dalla crisi del debito pubblico greco appare oggi molto probabile, se non ci si fa impressionare dal comunicato diffuso ieri sera al termine della riunione dell’Eurogruppo, in cui si sostiene che è stato trovato un accordo di massima per salvare la Grecia; e se invece si mettono a fuoco le tendenze disgregatrici che la crisi internazionale ha attivato in moto.
L’analisi, che induce a queste conclusioni, deve muoversi da due punti di vista: il primo è quello dei Paesi in difficoltà finanziarie, i cosiddetti PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, cui si può aggiungere l’Italia); il secondo riguarda il Paese cardine della zona euro, ossia la Germania, che ancora ieri per bocca del suo ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, ha ribadito di non voler utilizzare i soldi dei propri contribuenti per aiutare i Paesi che non rispettano i parametri del trattato di Maastricht e ha aggiunto anzi che questi Paesi dovrebbero addirittura essere espulsi dalla zona euro. Ma procediamo con ordine.
Per i Paesi in difficoltà finanziarie, i cosiddetti PIGS, l’euro si sta trasformando in una camicia di forza. Infatti i draconiani piani di risanamento delle loro finanze pubbliche sono destinati ad aggravare ulteriormente una recessione che è già tra le più profonde di questo dopoguerra. Infatti, l’appartenenza all’euro preclude la possibilità di una svalutazione che renderebbe queste politiche di austerità meno devastanti. Inoltre, come ha giustamente messo in rilievo il collega Roberto Giannetti (vedi CdT dell’11 marzo), il problema più grave dei PIGS non è tanto rappresentato da deficit e debiti pubblici, quanto da una perdita vistosa di competitività delle loro economie rispetto alla Germania. In parole più chiare, questi Paesi sono diventati sempre più un mercato di sbocco per l’export tedesco, mentre le loro esportazioni si sono contratte sempre più perché sempre meno competitive. In queste condizioni, i piani di austerità non possono che produrre un peggioramento della recessione di questi Paesi. Per questo l’abbandono dell’area euro e la reintroduzione di monete nazionali, che potrebbero essere pesantemente svalutate, appare come una via di uscita dal vicolo cieco in cui questi Paesi si sono infilati. L’uscita dall’Unione monetaria europea è tuttavia estremamente costosa, poiché tutto il debito (sia quello pubblico, sia quello privato) è denominato in euro. La reintroduzione di monete, che verrebbero poi immediatamente e fortemente svalutate, equivarebbe ad un insostenibile aumento del debito di Stato, imprese e famiglie. Questa via appare difficilmente percorribile, se non si ipotizza uno scenario di insolvenza sul modello argentino, in base al quale si negozia con i creditori sui termini del rimborso di un debito pubblico e privato che nel frattempo si sarebbe trasformato in debito estero. Inoltre, per evitare di diventare un Paese paria, occorre poter disporre di qualche sponda a livello internazionale. Ed è quanto ha tentato di fare, senza alcun successo durante la sua visita a Washington, il primo ministro greco Papandreu.
Dunque, per i Paesi in difficoltà l’uscita dall’euro appare una scelta disperata e può sembrare più allettante seguire pesanti politiche di rigore. Ed è quanto sta avvenendo. Ma se si guarda al di là del proprio naso, il peggioramento della situazione economiche, le conseguenti tensioni politiche e sociali interne e soprattutto la durata di questa crisi potrebbero cambiare le valutazioni delle élite politiche di questi Paesi e spingere ad uscire dalla camicia di forza rappresentata dall’euro.
Una spinta in questa direzione sembra darla proprio la Germania. Il Governo di Angela Merkel è perfettamente consapevole che un aiuto pubblico tedesco ai Paesi europei in difficoltà verrebbe travolto dalle sentenze della Corte costituzionale tedesca e dall’ira dell’opinione pubblica. Berlino sa che gli spazi di manovra sono molto ristretti e che l’intero edificio dell’euro sta pericolosamente scricchiolando. Dopo un periodo di riflessione, venerdì scorso attraverso un articolo pubblicato dal quotidiano «The Financial Times», il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha chiarito la posizione di Berlino. Il ministro tedesco ha scritto che i Paesi in difficoltà potrebbero abbandonare l’euro senza uscire dall’Unione Europea. In parole povere, l’aiuto di Berlino non si indirizzerebbe a far superare a tali Paesi le difficoltà, ma ad aiutarli ad uscire dall’Unione monetaria europea.
Questa chiara presa di posizione del Governo tedesco non è determinata solo dai vincoli politici interni, ma anche da due altri fattori. Il primo è la consapevolezza che gli aiuti non servirebbero a gran che. Infatti, avendo preclusa la via della svalutazione, il peggioramento della recessione economica renderebbe vani i piani di austerità dei governi. Questi Paesi si avviterebbero in una crisi di dimensioni devastanti: gli aiuti esterni servirebbero unicamente a rinviare il momento della verità. Il secondo fattore è che oggi la Germania si sente talmente competitiva da non temere la concorrenza dei beni dei Paesi europei, anche se questi risultassero più a buon mercato grazie alle svalutazioni. Insomma, la Germania ritiene di essere in una posizione nettamente migliore di quella di una quindicina di anni fa, quando accettò l’idea di un’Unione monetaria allargata, anche perché temeva la concorrenza delle esportazioni italiane che sarebbero rimaste competitive grazie a continue svalutazioni. Questo giudizio conferma l’entità dei cambiamenti strutturali dovuti all’euro, che possono essere riassunti in una perdita di capacità produttiva e di competitività dei Paesi periferici. Per una Germania che guarda sempre più a Est, un forte ridimensionamento dell’area dell’euro non viene visto come un pericolo, ma come un’opportunità di sgravarsi di un pesante fardello per poter meglio perseguire i propri obiettivi strategici.
In conclusione, i fattori contrastanti dei Paesi europei in difficoltà e della Germania spingono a ritenere probabile una vera grave crisi dell’euro, al di là delle rassicurazioni giunte anche ieri dall’Eurogruppo riunitosi a Bruxelles.
Sempre meno competitive le economie dei paesi più deboli
16 mar 2010
di ALFONSO TUOR
E se Eurolandia si frantumasse e l’area dell’euro si riducesse a Germania, Olanda, Francia e qualche altro piccolo Paese europeo? Questa prospettiva, che appariva assolutamente inverosimile fino a pochi mesi fa, appare oggi molto concreta. Essa è il risultato secondario di una crisi economica che ci ha abituato ad assistere a fatti straordinari, come il fallimento del sistema bancario occidentale, salvato dagli interventi pubblici, e che ci ha dimostrato che la realtà può spesso superare la fantasia. Questo sbocco delle contraddizioni interne di Eurolandia messe in luce dalla crisi del debito pubblico greco appare oggi molto probabile, se non ci si fa impressionare dal comunicato diffuso ieri sera al termine della riunione dell’Eurogruppo, in cui si sostiene che è stato trovato un accordo di massima per salvare la Grecia; e se invece si mettono a fuoco le tendenze disgregatrici che la crisi internazionale ha attivato in moto.
L’analisi, che induce a queste conclusioni, deve muoversi da due punti di vista: il primo è quello dei Paesi in difficoltà finanziarie, i cosiddetti PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, cui si può aggiungere l’Italia); il secondo riguarda il Paese cardine della zona euro, ossia la Germania, che ancora ieri per bocca del suo ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, ha ribadito di non voler utilizzare i soldi dei propri contribuenti per aiutare i Paesi che non rispettano i parametri del trattato di Maastricht e ha aggiunto anzi che questi Paesi dovrebbero addirittura essere espulsi dalla zona euro. Ma procediamo con ordine.
Per i Paesi in difficoltà finanziarie, i cosiddetti PIGS, l’euro si sta trasformando in una camicia di forza. Infatti i draconiani piani di risanamento delle loro finanze pubbliche sono destinati ad aggravare ulteriormente una recessione che è già tra le più profonde di questo dopoguerra. Infatti, l’appartenenza all’euro preclude la possibilità di una svalutazione che renderebbe queste politiche di austerità meno devastanti. Inoltre, come ha giustamente messo in rilievo il collega Roberto Giannetti (vedi CdT dell’11 marzo), il problema più grave dei PIGS non è tanto rappresentato da deficit e debiti pubblici, quanto da una perdita vistosa di competitività delle loro economie rispetto alla Germania. In parole più chiare, questi Paesi sono diventati sempre più un mercato di sbocco per l’export tedesco, mentre le loro esportazioni si sono contratte sempre più perché sempre meno competitive. In queste condizioni, i piani di austerità non possono che produrre un peggioramento della recessione di questi Paesi. Per questo l’abbandono dell’area euro e la reintroduzione di monete nazionali, che potrebbero essere pesantemente svalutate, appare come una via di uscita dal vicolo cieco in cui questi Paesi si sono infilati. L’uscita dall’Unione monetaria europea è tuttavia estremamente costosa, poiché tutto il debito (sia quello pubblico, sia quello privato) è denominato in euro. La reintroduzione di monete, che verrebbero poi immediatamente e fortemente svalutate, equivarebbe ad un insostenibile aumento del debito di Stato, imprese e famiglie. Questa via appare difficilmente percorribile, se non si ipotizza uno scenario di insolvenza sul modello argentino, in base al quale si negozia con i creditori sui termini del rimborso di un debito pubblico e privato che nel frattempo si sarebbe trasformato in debito estero. Inoltre, per evitare di diventare un Paese paria, occorre poter disporre di qualche sponda a livello internazionale. Ed è quanto ha tentato di fare, senza alcun successo durante la sua visita a Washington, il primo ministro greco Papandreu.
Dunque, per i Paesi in difficoltà l’uscita dall’euro appare una scelta disperata e può sembrare più allettante seguire pesanti politiche di rigore. Ed è quanto sta avvenendo. Ma se si guarda al di là del proprio naso, il peggioramento della situazione economiche, le conseguenti tensioni politiche e sociali interne e soprattutto la durata di questa crisi potrebbero cambiare le valutazioni delle élite politiche di questi Paesi e spingere ad uscire dalla camicia di forza rappresentata dall’euro.
Una spinta in questa direzione sembra darla proprio la Germania. Il Governo di Angela Merkel è perfettamente consapevole che un aiuto pubblico tedesco ai Paesi europei in difficoltà verrebbe travolto dalle sentenze della Corte costituzionale tedesca e dall’ira dell’opinione pubblica. Berlino sa che gli spazi di manovra sono molto ristretti e che l’intero edificio dell’euro sta pericolosamente scricchiolando. Dopo un periodo di riflessione, venerdì scorso attraverso un articolo pubblicato dal quotidiano «The Financial Times», il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha chiarito la posizione di Berlino. Il ministro tedesco ha scritto che i Paesi in difficoltà potrebbero abbandonare l’euro senza uscire dall’Unione Europea. In parole povere, l’aiuto di Berlino non si indirizzerebbe a far superare a tali Paesi le difficoltà, ma ad aiutarli ad uscire dall’Unione monetaria europea.
Questa chiara presa di posizione del Governo tedesco non è determinata solo dai vincoli politici interni, ma anche da due altri fattori. Il primo è la consapevolezza che gli aiuti non servirebbero a gran che. Infatti, avendo preclusa la via della svalutazione, il peggioramento della recessione economica renderebbe vani i piani di austerità dei governi. Questi Paesi si avviterebbero in una crisi di dimensioni devastanti: gli aiuti esterni servirebbero unicamente a rinviare il momento della verità. Il secondo fattore è che oggi la Germania si sente talmente competitiva da non temere la concorrenza dei beni dei Paesi europei, anche se questi risultassero più a buon mercato grazie alle svalutazioni. Insomma, la Germania ritiene di essere in una posizione nettamente migliore di quella di una quindicina di anni fa, quando accettò l’idea di un’Unione monetaria allargata, anche perché temeva la concorrenza delle esportazioni italiane che sarebbero rimaste competitive grazie a continue svalutazioni. Questo giudizio conferma l’entità dei cambiamenti strutturali dovuti all’euro, che possono essere riassunti in una perdita di capacità produttiva e di competitività dei Paesi periferici. Per una Germania che guarda sempre più a Est, un forte ridimensionamento dell’area dell’euro non viene visto come un pericolo, ma come un’opportunità di sgravarsi di un pesante fardello per poter meglio perseguire i propri obiettivi strategici.
In conclusione, i fattori contrastanti dei Paesi europei in difficoltà e della Germania spingono a ritenere probabile una vera grave crisi dell’euro, al di là delle rassicurazioni giunte anche ieri dall’Eurogruppo riunitosi a Bruxelles.