Tuor - Vie diverse per uscire dalla crisi

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Vie diverse per uscire dalla crisi
Vertice del G20: l'importante è che il dialogo continui
di ALFONSO TUOR

Il successo del vertice del G20 che si terrà giovedì prossimo a Londra non dipenderà dagli accordi concreti che verranno annunciati (invero molto pochi), ma dalla volontà di proseguire il dialogo tra i Grandi. Sembra poco, ma invece è molto. Infatti questo genere di crisi spinge ogni Paese a pensare unicamente per sé e quindi ad aumentare le tensioni internazionali. È quanto accadde ad esempio nel 1933 proprio a Londra alla Conferenza economica mondiale convocata per trovare una risposta comune alla Grande Depressione. Quella Conferenza si concluse con una rottura tra i 66 Paesi partecipanti, che venne addebitata agli Stati Uniti dell’appena eletto Franklin Delano Roosevelt. Le analogie tra il prossimo G20 e la Conferenza del 1933 sono molte, ma la grande diversità è che oggi tutti sono consapevoli che l’uscita dalla crisi e la rifondazione del sistema monetario e finanziario mondiale (ossia una nuova Bretton Woods), indispensabile per imboccare la strada di una ripresa sana e duratura, dipendono dalla volontà di continuare a collaborare, soprattutto tra Stati Uniti e Cina, che sono ora i veri e unici due Grandi.
I risultati concreti del vertice rischiano invece di essere molto modesti (se si legge con attenzione il comunicato finale, una cui bozza è già in circolazione, se ne ha la conferma). Essi si limiteranno ad un aumento delle risorse a disposizione del Fondo Monetario Internazionale, necessario per sostenere l’Est europeo ed altri Paesi emergenti, proposte di regolamentazione degli Hedge Fund, ossia dei fondi alternativi che sono tra i principali responsabili della crisi, e la compilazione della lista nera dei paradisi fiscali e delle giurisdizioni non cooperative, contro le quali verranno applicate sanzioni non ancora precisate. Dunque nulla di rilevante per rispondere ad una recessione globale, che miete posti di lavoro ovunque, e ad una crisi finanziaria sempre più grave.
L’impossibilità di definire una politica coordinata non sorprende. Dallo scoppio della crisi, ossia dall’agosto del 2007, Stati Uniti e Paesi europei hanno seguito politiche sostanzialmente analoghe: hanno tentato di evitare il completo collasso del sistema bancario, cercando di turare le falle che si aprivano a destra e a manca. Questa «politica dei cerotti» non ha prodotto alcun risultato significativo: il sistema bancario è sempre sull’orlo della bancarotta, gli interventi statali non hanno impedito una forte restrizione nell’erogazione del credito da parte delle banche e quindi non hanno evitato che la crisi finanziaria provocasse una pesante crisi economica. Il risultato di queste politiche è fallimentare.
È molto improbabile che a Londra si definisca una politica comune o coordinata. I motivi sono dati da interessi diversi. Il primo e più importante punto è che né gli Stati Uniti né i Paesi europei hanno un’idea chiara sulle politiche adatte ad affrontare la crisi del sistema bancario. La mancanza di qualsiasi strategia su questo nodo cruciale della crisi rende la posizione occidentale estremamente debole. Questa debolezza è ulteriormente accentuata dalle divergenze tra le due sponde dell’Atlantico sulle strategie tese a rilanciare l’economia. Gli Stati Uniti chiedono nuovi e più consistenti piani di rilancio, mentre i Paesi europei, con in testa la Germania, si oppongono poiché temono che l’esplosione dei disavanzi pubblici e la stampa di nuova moneta non risolvano nulla e rischino anzi di provocare una crisi di sfiducia nei confronti dei titoli obbligazionari con cui gli Stati si finanziano (e a medio termine anche una forte inflazione).
La divergenza tra Europa e Stati Uniti è da ascrivere anche alla situazione diversa delle rispettive economie. L’Europa continentale deve fare i conti con una crisi del sistema bancario e con una recessione che sta incrinando la solidità di molte imprese, ma può contare (nella maggior parte dei casi) sui grandi risparmi delle famiglie. Quindi non può essere favorevole ad una politica che metta a medio termine in pericolo questa enorme ricchezza. Eurolandia non può nemmeno far esplodere i disavanzi pubblici, poiché ciò potrebbe mettere in pericolo l’edificio sul quale si fonda la moneta unica europea.
Gli Stati Uniti, invece, con un indebitamento privato (ossia di imprese e famiglie) che ha raggiunto il 350% del PIL, cui deve aggiungersi un debito pubblico nettamente superiore ai dati ufficiali, temono la deflazione (ossia la discesa dei prezzi e dei salari), che renderebbe questo debito in termini relativi ancor più elevato. Pertanto conducono chiaramente una politica che tende a provocare l’inflazione, che eroderebbe questo indebitamento e che avrebbe il pregio di non fare percepire appieno al cittadino americano l’ineluttabile verità che questa crisi comporterà una forte diminuzione del tenore di vita delle famiglie statunitensi a causa di una contrazione del PIL americano del 20-30% dovuto al ridimensionamento di settori «drogati», come quello finanziario, immobiliare, della grande distribuzione. Dunque, gli interessi degli Stati Uniti e dell’Europa continentale non collimano e non permettono di avere una posizione comune.
Il terzo grande protagonista del vertice di Londra, la Cina, ha interessi ancor più diversi. Tatticamente Pechino sostiene le proposte americane, poiché la riapertura dei mercati occidentali rimetterebbe in moto la potente industria di esportazione, ora in crisi, e quindi contribuirebbe ad accelerare i tempi del rilancio dell’economia cinese. Come noto, la Cina grazie all’inconvertibilità del renminbi non conosce una crisi del proprio sistema bancario e soffre solo di un forte rallentamento della crescita. Il Governo ha varato un piano di stimolo di 600 miliardi di dollari che sta già cominciando a dare frutti. L’obiettivo cinese è invece strategico. Pechino, sempre più preoccupata per i 700 miliardi di dollari investiti in titoli statali americani, non è convinta che con due nuove regole sugli Hedge Fund e sui paradisi fiscali si curino le cause della crisi e chiede quindi una riforma non solo del sistema finanziario, ma anche del sistema monetario (proprio - come detto - una nuova Bretton Woods) con l’obiettivo di creare una moneta di riserva sovranazionale destinata a sostituire il dollaro. Questa proposta, che sta raccogliendo il consenso dei Paesi asiatici, non verrà probabilmente discussa a Londra, ma è già riuscita a far risaltare la mancanza di respiro strategico delle posizioni dei Paesi occidentali e ad indicare chiaramente che questa crisi impone una ridefinizione degli assetti internazionali. Insomma, mentre l’Occidente non riesce a trovare una strada per uscire dall’attuale marasma, in Asia si pensa già al mondo di domani, che sicuramente sarà profondamente diverso da quello degli ultimi decenni.
Questa diversità di vedute fa sì che il risultato più importante delle discussioni del G20 sarà la convocazione di un altro vertice e l’affermazione della volontà di continuare a dialogare. Alla conferenza di Londra del 1933 invece non si riuscì a concordare un nuovo incontro e tutti sanno come andò a finire.
 

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