Ecco il risultato della guerra alle banche italiane. Se non fosse per la Cariplo e la Fondazione San Paolo al vertice di Intesa Sanpaolo, o per la bravura degli azionisti (Maramotti) e dei manager di Credem, su tutte le banche italiane non sventolerebbe più il tricolore. L’inchiesta di Luca Gualtieri all’interno di questo numero è per molti versi choccante. Appunto soltanto sulle due banche di Milano-Torino e di Reggio Emilia, alle quali fra le grandi popolari si aggiunge la Sondrio perché non si è trasformata in spa, continua a sventolare il tricolore. Tutte le altre hanno ai vertici dell’azionariato fondi stranieri con strategia di investimento a lungo termine oppure asset manager che possono anche operare in maniera più opportunistica a breve termine. Si dirà: ma di fatto, il management e i consiglieri d’amministrazione sono prevalentemente italiani. È vero, a parte Unicredit che ha sia il capo azienda (il bravissimo Jean-Pierre Mustier) che il primo azionista, il fondo di Abu Dhabi, e anche il secondo, il terzo e via via gli altri, di nazionalità estera. Ma va subito precisato che la caratteristica di Unicredit è di essere una banca internazionale, quindi ci può anche stare un assetto azionario e manageriale del genere. Anzi, è stato ricercato nel momento nel quale è stato necessario fare un aumento di capitale di 13 miliardi di euro. Ben diversa è la natura delle altre banche, in prevalenza ex popolari, come Banco Bpm e Ubi, che sono prevalentemente espressione del territorio. Si potrà ancora dire: ma perché lamentarsi se investitori stranieri hanno deciso di mettere capitali in banche italiane? Nessuno si lamenta, anzi si può anche apprezzare, ma da questa situazione derivano importanti e gravi conseguenze e alcune necessarie considerazioni. Per far emergere le più gravi, basta aggiungere che in nessun altro Paese europeo esiste una tale situazione, se non in Paesi marginali. Non è così in Francia. Non è così in Germania, non è così in Gran Bretagna. Con l’aggravante che solo in Italia si verifica che non soltanto i principali azionisti di tutte le banche importanti, escluso Intesa Sanpaolo, Credem e Popolare di Sondrio, sono stranieri, ma anche che tre delle principali banche del Paese sono a totale controllo estero. Si può cominciare con Deutsche bank Italia, che ha una rete rilevante di agenzie, un network di promotori più che rispettabile e un’attività di corporate banking fra le più importanti; si passa alla ex banca del Tesoro, che alla fine di una disastrosa privatizzazione è ora in mano alla francese Bnp Paribas, nome che è stato affiancato su tutte le insegne appunto a quello della ex Banca nazionale del lavoro; e ora ai vertici del sistema bancario italiano c’è un’altra francese, il Crédit Agricole, che sotto la guida di Giampiero Maioli non sta arrestando la sua crescita (è in pole position per le Casse di Rimini, San Miniato e Cesena) e soprattutto ha giustamente deciso di cancellare il vecchio brand di partenza, Cariparma, e sta riempiendo la vista degli italiani con la propria insegna, appunto Crédit Agricole. Il paradosso è che il Crédit Agricole è una banca popolare, o meglio posseduta da una rete fittissima di banche popolari. Per contro, la decisione di trasformare repentinamente, anche se non d’improvviso visto che se ne parlava da lungo tempo, le popolari italiane in spa è proprio una delle cause prime della avanzata del capitale estero nelle medio-grandi banche italiane, quelle più legate al territorio. Si è insomma verificato quello che gli avversari della trasformazione delle popolari in spa paventavano, appunto che le stesse, seppur tartassate dai giornali stranieri, dall’Eba (European bank authority) e dal meccanismo unico di supervisione bancaria della Bce, ancorché assolutamente autonomo da Mario Draghi, erano tutt’altro che da buttare: anzi, un facile bersaglio per chi ha capitali da investire e il coraggio di investire. Un coraggio che non hanno i gestori italiani, stracolmi di capitali di risparmiatori italiani (è pari a quasi 2 mila miliardi il risparmio gestito), mentre la ricchezza finanziaria degli italiani, famiglie e imprese, supera complessivamente i 5 mila miliardi. Ricorderete l’appello, nell’agosto di un anno fa, di MF-Milano Finanza per voce di Gianni Tamburi, il finanziere dagli eccellenti risultati di investimento. Era in corso un nuovo attacco speculativo sulle banche italiane. Perfino la roccia Intesa Sanpaolo era scesa sotto i 2 euro in borsa. Tamburi e MF-Milano Finanza gridarono che bastava una piccolissima porzione di quei 2 mila miliardi di euro in gestione per poter colmare quella che veniva definita la sottocapitalizzazione delle banche italiane. L’appello sembrò determinare una qualche reazione: avendo ricordato che ai livelli raggiunti Intesa Sanpaolo garantiva un dividendo di quasi il 10%, ci furono acquisti e il titolo è ritornato stabilmente sopra i 2 euro, ma ora, a parte Intesa e le altre due, le assemblee con il deposito dei titoli hanno messo a nudo il quasi scandalo di un sistema bancario tutt’altro che disastrato, finito nei portafogli dei fondi e dei gestori internazionali che naturalmente non mangiano i bambini ma che indicano come il risparmio degli italiani serva a tutto meno che a sostenere l’economia nazionale. Un tema che su queste pagine è stato più volte segnalato per la mancanza di un afflusso dello stesso risparmio verso l’economia reale del Paese, cioè le piccole e medie imprese. Ora, con l’inchiesta di MF-Milano Finanza si certifica che il risparmio degli italiani non va neppure a sostenere gli istituti di credito ai quali, direttamente o attraverso le sgr, gli stessi risparmiatori affidano larga parte della loro ricchezza. C’è chi sostiene, per spiegare la mancanza di fondi italiani fra i primi azionisti delle banche, che è proprio per questo circuito risparmiatori-banche-fondi gestiti dalle banche che il risparmio italiano non arriva alle banche. Potrebbe essere vero per Intesa Sanpaolo, che ha fabbriche di prodotti finanziari e reti commerciali molto forti, ma Intesa è proprio la banca più italiana, pur avendo sottolineato il ceo Carlo Messina, dopo il suo recente road show negli Stati Uniti, che i gestori stranieri controllano buona parte del capitale della principale banca nazionale, nonché la più solida in Europa. Per Intesa SanpPaolo nessuno si azzarda a segnalare il potenziale conflitto di interessi, che si verificherebbe se i gestori delle sue fabbriche finanziarie investissero in azioni Isp. Nessuno si azzarda, perché l’organizzazione della banca garantisce autonomia ai gestori che quando scelgono Intesa Sanpaolo lo fanno per convinzione e non per compiacenza. Sventolare il pericolo di possibili conflitti d’interessi è del resto un esercizio pericoloso, perché essendoci ancora un’altissima intermediazione da parte del sistema bancario vorrebbe dire che il risparmio italiano non andrebbe mai a sostenere le aziende italiane, la quasi totalità finanziate dalle banche o comunque in rapporto con il sistema bancario. Il fatto è che occorre avviare un forte processo di educazione sia dei risparmiatori italiani che di una parte dei gestori, che preferiscono non di rado lavarsene le mani dell’investimento stesso, facendo da puro tramite verso gestori internazionali. Non a caso l’Italia è considerata una specie di paradiso terrestre del private banking. E quindi fondi e banche specializzate sono pesantemente presenti in Italia. L’internazionalizzazione non è mai un male, ma il governo non può disinteressarsi dei percorsi verso l’estero, cioè verso investimenti esteri, che prende il risparmio italiano. È indispensabile che si voglia creare un reale mercato dei capitali in Italia e che l’esterofilia di molti investitori sia sconfitta con un processo di educazione anche all’investimento in capitale di rischio e non solo in obbligazioni, che per altro non sono affatto sicure come molti italiani pensano. Certo, che se la borsa è un catino, nel quale per di più come è già stato dimostrato da MF-Milano Finanza, i maggiori investitori battono bandiera norvegese, è evidente che il rilancio dell’economia italiana non avverrà mai, al di là della fine o meno della crisi più acuta. I fondi e gli investitori internazionali hanno stimato che dopo aver contribuito a mandare all’inferno i titoli di molte banche italiane, esse avevano e hanno una forte capacità di rialzo. E per questo hanno investito pesantemente. Un’altra occasione perduta per l’Italia di poter creare un sistema bancario forte controllato da italiani. Questo non è bieco nazionalismo. È la constatazione che il Paese non è consapevole che alcune strutture fondamentali è meglio se hanno forti azionisti nazionali con vocazione a favorire la crescita dell’economia. Come fanno la Fondazione Cariplo e la Fondazione Sanpaolo. In questa logica è tutt’altro che peregrina l’idea del bravo ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, che ha studiato un meccanismo che imponga di chiarire i loro programmi a quegli investitori esteri che superino il 5% di investimento. Non è autarchia: è consapevolezza che una cosa è avere il cervello di un’attività in Italia, un’altra che l’Italia diventi solo il terminale poco intelligente di attività teleguidate dall’estero. Per le banche italiane il pericolo esiste. E meno male che ci sono Cariplo, Fondazione Sanpaolo e Messina con il suo staff, ben consapevoli delle necessità dell’Italia. (riproduzione riservata)